Valeria Di Francesco
(NPG 1997-07-63)
Si asciugò le lacrime, come per concedersi un po’ di riposo; fu allora che ascoltò. Non riconosceva distintamente le parole, ma sapeva bene il significato di quei mormorii; la cattiveria delle risate, soffocate, di scherno penetrava la sua pelle, facendola fremere di sdegno. Aveva sbagliato, si era illusa nell’inseguire l’immagine sfumata di un desiderio troppo grande per lei. Il Messia era lì; l’inviato di Dio era sì sceso tra gli uomini, ma per gli uomini soltanto. Cosa voleva, cosa pretendeva lei, che si portava inciso sulla pelle il segno di una eredità terribile, il peso, non voluto, di una storia nata prima di lei e contro la quale la sua parola – parola di donna – nulla poteva?
Quello non era il suo posto; tutti lo sapevano ed avevano ragione a prendersi gioco di lei. Nuove lacrime bruciavano negli occhi di Myriam: lacrime di dispetto, di offesa e di sconfitta; lacrime amare, di una rassegnazione che tardava a giungere; lacrime di disperazione, per una storia che non può avere futuro, perché non ha memoria del passato, e del presente le manca la certezza. Il Messia non era diverso dagli altri; o forse era lei, Myriam, ad essere diversa; forse la salvezza non era per lei, non la riguardava, perché da sempre lei apparteneva al male. Il male ispirava le sue azioni e i suoi pensieri; le era facile commettere peccato, senza provarne rimorso, perché il peccato in lei era un’inclinazione che è natura. Figlia del male, era grande l’odio che adesso provava. Odiava tutti, con la stessa tensione con cui prima, da tutti, sperava il perdono. E odiava in primo luogo lui, lui che l’aveva turbata, agitata ed illusa; lui che non era meno ipocrita degli altri che ora la deridevano; lui che aveva fatto di tutto per trascinarla lì (con quel suo gioco di sguardi, di allusioni, di parole lasciate cadere...) solo per umiliarla pubblicamente... Perché andava predicando la salvezza, se questa dannata salvezza per lei non c’era, non ci poteva essere, né c’era mai stata? Perché l’aveva guardata a quel modo, come per chiederle qualcosa? «Gesù di Nazareth, io ti condanno...».
Ora Myriam poteva sollevare lo sguardo: non aveva più paura di lui, non lo temeva e si sentiva forte, più forte di tutti quegli uomini che erano lì radunati e che potevano condannarla e lapidarla, ma la sua maledizione era più grande... Sollevò gli occhi ed incontrò, per la terza volta, il suo sguardo... Perché non la condannava, perché non la mortificava, dandole almeno un motivo per giustificare il suo odio? In quello sguardo Myriam perse se stessa; come quando, nella veglia semicosciente che precede l’abbandono al sonno, si perdono, con dolore, quei limiti che contengono il sentimento di sé, faticosamente conquistato, e si ha una visione diversa delle cose e delle proprie relazioni con le cose stesse; così Myriam andava vivendo il sentimento del suo esistere come si era configurato fino a quel momento... Che aveva fatto...? Perché...? Smarrendo quella parte di sé che le era stata imposta e che lei aveva accettato, perché più facile e più comodo, se pur comunque e inevitabilmente doloroso, Myriam ritrovava un essere se stessa diverso, unico e irripetibile; contenente e contenuta, perché così doveva essere fino alla fine dei tempi...
Pianse, Myriam, pianse una terza volta; pianse su se stessa, nel dolore per un’esistenza non capìta; pianse per tutto quell’odio di cui era stata capace, un odio che l’aveva ferita ed umiliata; pianse per il Figlio dell’uomo che doveva morire – lei lo sentiva: doveva essere condannato e rinnegato, perché in lui fosse condannato e rinnegato tutto il male di cui l’uomo poteva farsi strumento consapevole; pianse, Myriam, pianse anche per noi, figli dell’uomo, che, prostrati davanti alla risposta alle nostre inquietudini, rinneghiamo, piangiamo e chiediamo perdono per la nostra incapacità a credere, totalmente, in lui.