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    Fuga dalla scuola: cosa fare?



    Michele Pellerey

    (NPG 1997-08-45)


    Cè un punto di riflessione sulla pedagogia che a me sembra centrale. F. Meirieu in La pédagogie entre le dire e le faire (Paris, ESF, 1995) evidenzia come la vera essenza del momento educativo emerga quando l’educando manifesta resistenze, incapacità a seguire, difficoltà, incomprensioni, rifiuti. L’educatore si trova allora di fronte due strade pedagogicamente discutibili: imporre la sua volontà, in qualche modo schiacciando l’educando; oppure assumere una sorta di atteggiamento menefreghista e rinunciare a insistere.
    Evidentemente questi due comportamenti estremi, proprio nel periodo adolescenziale, rovinerebbero tutto. L’educatore, allora, è obbligato a ritornare su se stesso, riconsiderare la sua posizione, il suo ruolo, i suoi progetti, le sue intenzioni. Ciò ha riflessi anche nel contesto dell’azione educativa della scuola, perché evidentemente se una scuola è educativa deve anche saper rimettere in discussione se stessa.
    Nei progetti attuali di intervento nella scuola c’è il pericolo di rispondere alle esigenze educative evidenziate dagli adolescenti avviando iniziative che si collocano accanto alla vita quotidiana della scuola, organizzando quasi un momento di scuola parallela. La scuola delle discipline scolastiche intanto va per la sua strada. Si attua dentro la stessa scuola quasi una separazione fra i due momenti formativi, provocando, molto probabilmente, un conflitto di impianti educativi. Nella ricerca si accenna a sinergie, a distinzioni di compiti educativi; tuttavia spesso famiglie, associazioni, gruppi, la scuola stessa sembrano voler intervenire nelle stesse problematiche, sovrapponendo i propri interventi, e altrettanto spesso secondo prospettive contrastanti. Ad esempio, al cercare di promuovere lo sviluppo di una capacità di dare senso alla propria esistenza, possono certo contribuire tutti, ma occorre stare attenti e rispettare i diversi ruoli e le diverse responsabilità. In passato molti insegnanti hanno trapassato questi limiti nel sollecitare oltre il dovuto prospettive di vita in contrasto e a danno di altri titolari di compiti educativi. È necessario quindi approfondire la riflessione comune sulle diverse responsabilità e sui pericoli derivanti da possibili prevaricazioni.

    Una disaffezione crescente verso la scuola

    Quanto alla disaffezione crescente verso la scuola, dalla ricerca emerge che, come in tutto il mondo, l’atteggiamento positivo verso la scuola decresce nel tempo. Dai bambini della prima e seconda elementare, che sono entusiasti, fino a quelli degli ultimi anni della superiori c’è una caduta progressiva d’interesse. È un male o un bene? Un lato positivo c’è: riconoscere che a poco a poco la scuola diventa, come ogni educatore, inclusi i genitori, sempre più inutile dal punto di vista formativo. In altre società la fine della scuola secondaria coincide con la fine dello stare in famiglia. Nella stragrande maggioranza delle famiglie statunitensi al termine della secondaria i figli se ne vanno di casa: o a lavorare o a frequentare corsi superiori, in genere il college. Essi devono imparare a fare da soli, a crearsi propri progetti educativi: uscire di casa può contribuire a maturare.
    Che ne è allora della formazione permanente, di una scuola per tutta la vita? Qui il problema sta nella trasformazione delle forme di educazione scolastica. L’apprendimento adulto è diverso dall’apprendimento a livello del ragazzino di quattordici, quindici anni. Viviamo in una cultura scolastica che non sembra ispirarsi al modello «risposta ai bisogni». Sembra risentire invece dell’impostazione data dall’imperatrice Maria Teresa d’Austria in cui i ruoli, i compiti, l’orario, i programmi erano previamente precisati con estrema pignoleria ed era importante rispettarli. Questo era dovuto al fatto che si aveva a che fare con insegnanti non preparati. Di qui la necessaria rigidità di programmi.
    Il pericolo è che tale struttura possa rimanere di fronte ad una domanda che cambia. C’è un tale affollamento di elementi esperienziali nei nostri adolescenti, sia per via dei mass-media, sia della vita sociale e di gruppo, che essi sembrano come presi d’assalto da una tale quantità di esperienze emozionali, notizie, informazioni, sollecitazioni, momenti di vita, da non riuscire ad andare oltre la superficie, e neppure gestire validamente questa continua irruzione di stimoli. Da una parte c’è come la percezione che le cose si conoscono perché già sentite, già viste. Però di fatto non si dominano perché mai approfondite, mai colte nel loro significato, reinterpretate, riorganizzate, costruite.
    Esiste il concreto pericolo che la scuola diventi, come tutto il resto, un’ulteriore aggregazione scoordinata di elementi informativi, di cose da imparare più o meno ripetitivamente, e viene a mancare quello che è necessario al bisogno profondo di dare senso alle cose, di organizzarle, di penetrarne l’essenza culturale, ma soprattutto esistenziale.
    Per cui è chiaro che l’esperienza di un atteggiamento progressivamente negativo verso la scuola può significare tante cose: che la scuola non risponde a dei bisogni o che c’è un progressivo distacco da un tipo di esperienza scolastica strutturata perché uno sta diventando progressivamente adulto.

    Scuola e mondo del lavoro

    La parola adulto andrebbe scritta tra virgolette, in quanto l’adolescente nella sua crescita spesso non viene poi riconosciuto tale in altri campi, come ad esempio nel mondo del lavoro. La domanda di rinnovamento della scuola sembrerebbe dover andare nel senso di chiedere una maggiore vicinanza al mondo del lavoro e della vita, ai cosiddetti mondi vitali, per fornire una preparazione utile per il domani ed aiutare veramente a crescere. È nel periodo dei diciassette-diciannove anni che avviene la crescita maggiore di questa richiesta.
    Quando si parla poi del lavoro, le aspirazioni che emergono sono quelle di ricerca di soddisfazione personale, di guadagno, di sicurezza, di prestigio. Ma da chi è promossa l’immagine del mondo del lavoro? Sarebbe interessante sapere che tipo di cultura sul mondo del lavoro emerge dall’esperienza scolastica. Cosa significa poi orientarsi nel mondo del lavoro? Le scelte su quale base vengono fatte? Sulla base di un immaginario guidato da immagini televisive o di un contatto con la realtà? Incide notevolmente su questo immaginario anche la diversità essenziale tra trovarsi in un territorio dove il lavoro non esiste, o è solo marginale, oppure in uno nel quale è presente una forte offerta di lavoro.
    Nella bassa veronese i ragazzi se ne vanno dalla scuola perché possono guadagnare, quindi soddisfare ad alcuni loro precoci desideri: farsi la moto, raggiungere una propria, anche se modesta, autonomia finanziaria. In alcune zone, come nel nord-est, i ragazzi abbandonano sia la formazione professionale che la scuola per inserirsi subito nel mondo del lavoro. Con genitori magari felici. Tutto ciò evidenza una forte correlazione tra scelte di vita e valori attribuiti al guadagno e al consumo.

    Benessere presente o benessere futuro?

    Da una ricerca condotta dal prof. Massa sull’abbandono degli Istituti Professionali si ricava la sensazione che la fine della scuola sia percepita come una liberazione: finalmente sono fuori dalla scuola! era ora! non ne potevo più! Quasi si trattasse di un carcere. Questa constatazione ci introduce in una questione che, secondo me, è centrale. Tutta la ricerca sembra girare intorno al problema della scuola come ambiente di socializzazione primaria. Forse è lo stesso modo di porre le domande che ha sollecitato in quella direzione.
    Sembrerebbe che la domanda più forte è di esperienza di vita relazionale. Vorrei far notare che ci sono nella società mondiale modelli di scuola dove prevale il momento della socializzazione come forma educativa, modelli che privilegiano l’inserimento nella società rispetto alla crescita culturale o professionale. Un caso classico è quello della scuola secondaria degli Stati Uniti. Si cerca di creare un ambiente dove si possano coltivare relazioni sociali, dove ci sia spazio per iniziative personali e di gruppo, dove si possano esplorare temi e attività di soggettivo interesse. Qual è il risultato? Tutte le indagini condotte negli Stati Uniti o internazionalmente mettono in risalto un livello culturale di uscita molto basso. Competenze e conoscenze assai limitate in aspetti centrali della formazione come lingua, matematica, scienze.
    Nel mondo inglese c’è stata nell’88 la riforma della scuola con l’introduzione per la prima volta nella storia di un curriculum nazionale che implicava obiettivi uguali per tutte le scuole e una valutazione nazionale del risultato rispetto a questi obiettivi, con materie strategiche obbligatorie per tutta la nazione: l’inglese, la matematica, le scienze. Evidentemente c’era la sensazione di un crollo delle competenze e delle conoscenze.
    Si parla oggi, per esempio, di «scuola del benessere»: star bene con se stessi, star bene con le istituzioni, star bene con la società. Questo concetto di benessere rimanda a quelle che possono essere definite le antinomie del processo educativo. L’antinomia che qui emerge è quella tra lo stare bene prospettico, cioè la ricerca di un bene futuro, e quello esperienziale, la ricerca di un bene immediato. Molte volte le due cose non coincidono, e questa constatazione è all’origine di una forma classica di antinomia. Come educatore cerco il bene futuro della persona. D’altra parte se la persona viene in qualche maniera ad avere un’esperienza negativa e frustrante nel presente, non riesco neanche a condurlo verso quel bene futuro. Allora ci si trova nel contesto di un ben difficile momento educativo: da una parte si ha un soggetto che cerca un bene futuro e contemporaneamente un altro che desidera un bene presente. Come uscirne fuori? Quando entrano in contrasto due esigenze tra loro inconciliabili bisogna trovare una via di uscita prudenziale, cioè saper calcolare bene qual è il modo di agire e di interagire più ragionevole ed eticamente valido in tali circostanze.

    Creatività o ripetitività?

    Ma può emergere una seconda antinomia. Da una parte il desiderio di dare spazio al protagonismo, cioè il soddisfare le esigenze della persona nella sua originalità, potenzialità, nelle sue capacità progettuali; dall’altra promuovere un’acquisizione culturale che aiuti a dare senso alla società dove si dovrà svolgere un ruolo professionale e culturale. È chiaro che può evidenziarsi un contrasto tra l’aspirazione, le intuizioni, i linguaggi delle attuali generazioni e la cultura che già esiste e deve essere tramandata. Come favorire l’interazione fra questi due mondi? Un’altra antinomia, che forse è ancora più difficile, è se, da una parte, accettare un soggetto che sia già capace di autonomia e di autoregolazione, nello studio e nella condotta; oppure se, da un’altra, seguire l’esigenza di un intervento diretto, di una guida esterna puntuale e rigida.
    Ci sarebbe anche una quarta antinomia: se dare più valore alla creatività soggettiva, all’esplorazione personale oppure ad un apprendistato duro, che vada avanti con sistematicità e che si proponga, prima di godere della creatività, un lavorare faticoso per conquistare le abilità di base ed esprimere solo dopo le istanze creative. Nel volume di H. Gardner, Aprire le menti (Feltrinelli, 1991), è sviluppato un confronto tra la cultura cinese e quella americana nel promuovere la creatività. Quella cinese parte da una ripetizione molto severa e dura delle tecniche nell’uso del pennello, mentre nel mondo americano c’è più esplorazione personale, ricerca individuale. Alla fine arrivano tutt’e due alla creatività. Solo che nel mondo cinese la massa degli artisti è percentualmente maggiore di quella presente nel mondo statunitense. Evidentemente il fatto che ognuno deve trovare la propria strada con poca trasmissione di competenze tecniche può portare i più deboli a rimanere emarginati.

    Ruolo dei possibili sé nell’educazione

    Di fronte a queste situazioni antinomiche evidentemente bisognerebbe trovare dei principi di azione, dei principi metodologici. Qui insisto solo su uno, che riguarda il concetto di possibili sé. È chiaro che nella ricerca di identità si esprime una momento essenziale dell’esperienza adolescenziale. In questo gioca poi un ruolo centrale la prospettiva di un sé ideale. La scommessa è aiutare a costruire l’immagine interna di possibili sé, di possibili realizzazioni prospettiche di sé. Aiutare i soggetti a costruirsi i possibili sé futuri costituisce, evidentemente, un’impresa educativa fondamentale, che può essere definita orientamento, oppure semplicemente educazione.
    I possibili sé sono un mondo interiore fatto di speranze, di paure, di aspirazione, di fantasie, di sé prospettici, soggettivamente significativi e più o meno realistici, che forniscono direzione e impeto all’azione, al cambio, allo sviluppo.
    Questo concetto è collegato al concetto di sé, non solo futuro, ma attuale. Il gioco fra i due è quello che si chiama autostima: la valutazione di sé che deriva dal confronto tra il sé reale e il sé ideale. Nella ricerca viene messo in risalto come una percentuale consistente di soggetti afferma di essere sottovalutato (circa il 15%) e giudicato soltanto in base al profitto. Cioè secondo un particolare possibile sé: quello legato al solo risultato conseguito nello studio delle varie materie. Gli insegnanti non considerano altri possibili sé.
    La nostra scuola è una scuola dove lo spazio per l’imprenditorialità di se stessi, nel lavoro, è del tutto inesistente. Anche nella formazione tecnico-professionale questa dimensione non compare. La struttura della nostra scuola tende ad omogeneizzarsi sempre di più su aspetti culturali che non rispondono evidentemente alle aspirazioni, ai possibili sé dei soggetti. Per esempio, nel mondo del nord-est una percentuale superiore al 30% dei piccoli imprenditori e degli artigiani è formata da drop out della scuola. Sembra quasi che, per poter avere lo spazio per impostare un proprio progetto imprenditoriale, bisogna andarsene dalla scuola. La scuola non sembra fornire una grande risposta a delle possibili realizzazioni di sé.
    È necessario quindi un ripensamento della struttura scolastica, anche se non sarà cosa facile da realizzare. Stiamo andando verso l’obbligo a diciotto anni. Ma che cosa significa obbligo? Obbligo all’interno della matematica, della fisica fino ai diciotto anni, o qualcosa altro? È un problema di struttura molto grave.

    Il ruolo dell’immagine di sé

    In tutto questo aleggia il problema dell’immagine di sé che viene sollecitata dagli insegnanti, dai genitori e da altri soggetti. Anche su questo versante, dell’immagine di sé, ci sono distorsioni. Cito un caso banale: giudizi continui che si danno: «tu non sei fatto per questo!». Si comunica in questo modo una concezione statica della persona. Esistono doti naturali, immodificabili: se non le posseggo, in quella direzione sono negato. Giudizi di questo tipo in famiglia, a scuola, tra i compagni, alla fine determinano l’immagine di sé.
    Non è infatti stato accennato all’emarginazione che avviene all’interno della scuola, allo stigma che spesso viene da parte dei compagni. Alcuni suicidi di adolescenti sono in parte legati all’aggressività dei compagni. La scuola è un luogo in cui avvengono aggressioni psicologiche. Ciò incide sulla speranza di sé, sull’immagine di sé, sull’autostima. La questione dell’autostima andrebbe posta all’ordine del giorno nella scuola. Bisognerebbe riflettere sul fatto che la persona, pur prendendo quattro in matematica, non è un fallito, poiché può riuscire benissimo in altri campi. Vedere il ragazzo come persona, far capire che, nonostante il quattro in matematica, nella vita ha molte altre possibilità. Alcuni lo sanno benissimo, perché lo capiscono tramite il contesto familiare, la vita; ma altri magari no. Sembra che la scuola, il profitto siano le uniche cose. Basti vedere tutti quei ragazzi che si sono uccisi perché hanno preso un brutto voto. Sono ragazzi fragili, ma non capisco perché questa fragilità debba avere come risultato solo l’eliminazione di se stessi.

    Quale spazio di autonomia?

    Un altro punto a cui posso accennare è la questione dello spazio di autoregolazione, dello spazio di autonomia da garantire. Un ragazzo di diciassette, diciotto anni vorrebbe trovare nella scuola uno spazio nel quale poter esprimere la propria iniziativa. Qualche tentativo è emerso con le ricerche, promosse anche in vista degli esami di maturità. Però sono più gli insegnanti ad avere qualche interesse particolare che gli allievi.
    Non esiste normalmente nella struttura curricolare il momento in cui lo studente possa farsi un progetto di studio da solo, studiare, approfondire un argomento con l’aiuto degli insegnanti e della scuola. Si dovrebbe dare la possibilità allo studente stesso di porsi degli obiettivi in base ai quali essere valutato. È un piccolo spazio da negoziare, dove però poter essere protagonista di un progetto di studio, di approfondimento, di acquisizione di competenza e di valutazione, con tutta la responsabilità a questa connessa. Nella concezione della nostra scuola questo concetto proprio non esiste; deve essere tutto ben programmato da chi di dovere.

    Come fare esperienza di valori?

    Un’altra problematica tipicamente scolastica riguarda l’esperienza di valori di natura culturale, estetica, professionale, morale, sociale, spirituale, religiosa. Qui si apre un discorso complesso sui ruoli della scuola, anche nel campo della formazione della volontà.
    Nella ricerca, riguardo al problema dei possibili sé, è stato messo in risalto che una delle acquisizioni importanti riguarda il rendersi conto che, per la realizzazione di sé, occorre pagare in termini di perseveranza, con un apprendistato duro e faticoso, soprattutto se si desidera raggiungere certi livelli di realizzazione. Cioè rendersi conto che certi obiettivi richiedono una forte dedizione. L’impressione è che questo aspetto non sia molto facilitato dall’ambiente sociale in cui si trovano gli adolescenti. Essi in effetti giocano un po’ tra il loro aspetto adulto e quello da bambino. Dal momento che l’adulto dovrebbe essere in grado di pagare nel tempo il necessario per raggiungere certi obiettivi, anche gli adolescenti dovrebbero avviarsi a saper pagare qualcosa per raggiungere certi obiettivi.

    Chi forma: i genitori o i mass-media?

    A questo punto entra in gioco una questione delicata: la formazione degli insegnanti e dei genitori. Vorrei riprendere il concetto di esperienza vicaria. Nel campo della psicologia sociale questo concetto è diventato dominante grazie alle ricerche di Albert Bandura e di quelli che con lui collaborano. Esso afferma in sostanza che il fatto di osservare comportamenti di altri in specifiche situazioni di vita, cioè come giudicano, come interpretano gli avvenimenti, come agiscono, come reagiscono, viene conservato in quella che si chiama la memoria a lungo termine di tipo episodico.
    Questi ricordi esercitano un’influenza in due direzioni. La prima riguarda il passaggio dalla memoria episodica, cioè da questi comportamenti osservati, allo sviluppo di schemi più generali e astratti. È il processo di generazione di schemi interpretativi della realtà e di attribuzione di valore. In questo processo emergono problemi relativi ai valori culturali, estetici, morali, spirituali sollecitati da queste esperienze vicarie. (Uso la parola spirituale non in senso strettamente religioso, ma per definire lo spazio della vita interiore, di una dimensione di vita profonda, lo spazio della ricerca, del silenzio, del momento in cui si ha bisogno di cogliere il senso di quanto si vive). Questo spazio di vita personale, spirituale è un valore non indifferente: lo sperimentarlo e sentire che altri l’hanno sperimentato è certo importante.
    L’altra direzione in cui questa esperienza vicaria si esprime consiste nel verificarsi di fronte a situazioni simili, a contesti analoghi, un riemergere alla memoria dell’episodio osservato e conservato e un sentire in sé una certa tendenza a comportarsi nello stesso modo.
    Queste due tendenze come possono essere riequilibrate? In primo luogo da forme di controllo e mediazione culturale, quali si ritrovano nel dialogo, nella riflessione critica. Si tratta di commentare quanto si osserva, di prendere le distanze e riflettere se accettare o rifiutare schemi di comportamento determinati, di costruire a poco a poco un mondo di significati, di interpretazioni. Tutto questo, soprattutto per i più giovani, non può avvenire nell’isolamento: c’è bisogno dell’influenza dei genitori, dei compagni, degli insegnanti, degli adulti.
    Bandura ha messo in evidenza l’influsso della violenza in televisione, nel cinema. Infatti l’esperienza vicaria, di interiorizzazione di modelli di comportamento che influiscono sulle nostre tendenze comportamentali, se non trova un adeguato contrappeso, può portare all’accettazione di modelli di comportamento ispirati a tali suggestioni, soprattutto quando ci trovassimo in situazioni del tutto analoghe a quelle osservate. Esempi di modalità di vita, di relazione e di comportamento vengono proposti magari a persone di una certa età, le quali, forse senza accorgersene, li trasmettono ai figli o ai nipoti. È un processo che alla lunga può portare a una sorta di orientamento culturale generale. Invece che trasformare la scuola in una grande televisione sarebbe importante fornire spazi di discussione su alcuni programmi, sollecitando riflessione critica e produzione linguistica. Magari approfondire determinate tematiche o proporre lavori di produzione scritta.
    Ma l’esperienza vicaria può essere intesa anche in termini di testimonianza viva, nel senso che in genere è molto più forte l’esperienza di ciò che si vede direttamente che non quanto si osserva attraverso i mezzi di comunicazione. E da questo punto di vista non è semplice il ruolo di genitore e di insegnante, perché è necessaria una testimonianza di maturità, di equilibrio, di controllo e di canalizzazione delle emozioni. Se la rabbia diventa violenza, certamente il ragazzo interiorizzerà uno schema concettuale e comportamentale che prevede la possibilità di far esplodere la propria rabbia in violenza fisica o morale. Se lo fa l’insegnante a scuola o il genitore in casa, perché non posso farlo anch’io?
    Testimonianza un po’ più profonda è quella che si riflette nell’attribuire valore a cose, persone, avvenimenti. Ho esaminato in indagini sul campo se e quanto un insegnante si espone in prima persona per fornire modelli di comportamento intellettuale del tipo: come affrontare un problema reale di cui non si conosce la soluzione. Credo che nella scuola bisogna recuperare proprio il concetto di apprendistato. Cioè fornire modelli di come si opera, nel guidare a poco a poco a conquistare certe competenze, certe abilità seguendo alcuni modelli, più o meno eccellenti. Modelli nel campo dello studio, del comportamento, delle relazioni.


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