Attesi dal suo amore
    Proposta pastorale 2024-25 

    MGS 24 triennio

    Materiali di approfondimento


    Letti 
    & apprezzati


    Il numero di NPG
    luglio-agosto 2024
    600 cop 2024 2


    Il numero di NPG
    speciale sussidio 2024
    600 cop 2024 2


    Newsletter
    luglio-agosto 2024
    LUGLIO AGOSTO 2024


    Newsletter
    SPECIALE 2024
    SPECIALE SUSSIDIO 2024


    P. Pino Puglisi
    e NPG
    PPP e NPG


    Pensieri, parole
    ed emozioni


    Post it

    • On line il numero di LUGLIO-AGOSTO di NPG sul tema degli IRC, e quello SPECIALE con gli approfondimenti della proposta pastorale.  E qui le corrispondenti NEWSLETTER: luglio-agostospeciale.
    • Attivate nel sito (colonna di destra "Terza paginA") varie nuove rubriche per il 2024.
    • Linkati tutti i DOSSIER del 2020 col corrispettivo PDF.
    • Messa on line l'ANNATA 2020: 118 articoli usufruibili per la lettura, lo studio, la pratica, la diffusione (citando gentilmente la fonte).
    • Due nuove rubriche on line: RECENSIONI E SEGNALAZIONI. I libri recenti più interessanti e utili per l'operatore pastorale, e PENSIERI, PAROLE

    Le ANNATE di NPG 
    1967-2024 


    I DOSSIER di NPG 
    (dall'ultimo ai primi) 


    Le RUBRICHE NPG 
    (in ordine alfabetico
    e cronologico)
     


    Gli AUTORI di NPG
    ieri e oggi


    Gli EDITORIALI NPG 
    1967-2024 


    VOCI TEMATICHE 
    di NPG
    (in ordine alfabetico) 


    I LIBRI di NPG 
    Giovani e ragazzi,
    educazione, pastorale

     


    I SEMPREVERDI
    I migliori DOSSIER NPG
    fino al 2000 


    Animazione,
    animatori, sussidi


    Un giorno di maggio 
    La canzone del sito
    Margherita Pirri 


    WEB TV


    NPG Facebook

    x 2024 400


    NPG X

    x 2024 400



    Note di pastorale giovanile
    via Giacomo Costamagna 6
    00181 Roma

    Telefono
    06 4940442

    Email

    È possibile educare narrando?



    Mario Pollo – Riccardo Tonelli

    (NPG 1997-06-7)


    La comunità ecclesiale italiana è fortemente impegnata nella elaborazione e realizzazione di un «progetto culturale orientato in senso cristiano».
    L’invito ci coglie molto sensibili. NPG, infatti, ha dedicato spesso riflessioni e proposte a questa esigenza e ha suggerito modelli concreti per «far emergere il contenuto culturale dell’evangelizzazione» (come raccomanda la «proposta di lavoro a cura della Presidenza della C.E.I.»), consapevole che «una fede che non diventa cultura è una fede non pienamente accolta, non interamente pensata, non fedelmente vissuta» (ibidem).
    La proposta di lavoro della C.E.I. suggerisce due distinti livelli di contenuti:
    – «quello delle grandi aree tematiche, per se stesse interdisciplinari, che toccano i contenuti fondamentali della fede nel loro impatto con i nodi più vivi del pensiero e dell’ethos contemporanei;
    – quello dei temi emergenti di volta in volta nel dibattito culturale e nella vita sociale, a cui appare necessario offrire risposte evangelicamente illuminate, che orientino il pensare e l’agire comune dei cristiani e li rendano capaci di entrare in dialogo con tutti» (ibidem).
    Il contributo offerto dal dossier si colloca soprattutto sul secondo livello. Cerca infatti di rileggere i profondi cambi oggi in atto nella società italiana sul versante culturale e dalla parte della vita e del suo senso: nell’ottica cioè di quello che sta più decisamente a cuore ai discepoli di Gesù. Propone inoltre linee di intervento, centrate soprattutto nella necessità di modelli formativi rinnovati per riallacciare il confronto tra le diverse generazioni: l’ambito tipico della cultura e della sua produzione.
    I lettori affezionati troveranno nel dossier temi che in questi anni hanno già percorso le pagine della rivista. Li riprendiamo e li rilanciamo per portarli a sintesi operativa e per dare tutto il nostro appoggio all’invito pressante che la proposta di lavoro della C.E.I. rivolge «alle persone, agli ambienti e alle strutture propriamente dedicati alla ricerca scientifica, all’espressione artistica, all’organizzazione della convivenza civile, all’educazione, alla comunicazione sociale» (ibidem).

    «Nulla di ciò che è veramente utile si può insegnare».
    (Oscar Wilde)

    Il punto di prospettiva

    Esiste letteratura abbondante sulla «narrazione». Essa si distende su diversi ambiti disciplinari. In questi anni, sulla rivista, abbiamo prevalentemente fatto riferimento a quella relativa alla comunicazione della fede. La proposta di realizzare la comunicazione dell’esperienza cristiana, soprattutto ai giovani, attraverso modelli narrativi possiede ormai una piattaforma concreta abbastanza consolidata.
    Questo contributo ritorna sul tema da un’angolatura un po’ speciale. La ricorda il titolo attraverso una espressione ancora interlocutoria: è possibile utilizzare lo stesso modello narrativo anche nell’ambito specifico dell’educazione? È proprio vero che «nulla di ciò che è veramente utile (per la vita) si può insegnare»? O, invece, possiamo immaginare modelli comunicativi nuovi, capaci di esprimere la funzione educativa, senza scadere in un semplice, improduttivo insegnamento?
    Prima di suggerire una risposta alla domanda, va chiarito il suo senso e la prospettiva.
    La questione teorica e il progetto operativo della narrazione in educazione sono molto legati ai problemi dell’educazione alla fede. Non c’è quindi un’invasione in ambiti non pertinenti, ma una necessaria integrazione ed estensione.
    Il modello di pastorale giovanile che in questi anni è stato progressivamente consolidato e motivato, infatti, dà ampia fiducia all’educazione. L’assume come luogo privilegiato per l’educazione alla fede: condivide la qualità dei processi e inserisce il suo contributo specifico nel cammino di maturazione in umanità.
    Per questo, il confronto tra educazione ed educazione alla fede è molto serrato, fino a tradursi in un guadagno (o in una perdita) reciproco. La qualità della vita, la sua maturazione e il suo consolidamento sono una questione decisiva per l’educazione alla fede. L’incontro con Gesù il Signore e la consegna a lui della ragione più profonda della vita e della speranza sono possibili e autentici solo in coloro che hanno ricostruito uno stile maturo di esistenza. E questo è un tipico problema educativo, da affrontare e risolvere nell’ambito specifico.
    Un’educazione in stato di crisi o di rassegnata indifferenza ha di certo grosse difficoltà ad assumere questo suo compito.
    Ma lo realizza egualmente male (almeno dal punto di vista delle esigenze più serie della vita nella fede), quando diventa propositiva in modo violento, sicuro, manipolatorio, con la pretesa di reagire meglio a situazioni di diffusa indifferenza valoriale.
    La pastorale riconosce, di conseguenza, l’urgenza dell’educazione; ma pretende di poter dire una parola (almeno critica) nei confronti dei metodi e delle procedure che essa addotta. Se l’educazione o l’educazione alla fede, nel terreno che può essere comune (la qualità della vita), utilizzassero strumentazioni e metodi troppo diversi, risulterebbe difficile affermare, in pratica, la continuità dei processi.
    Certamente vale anche la prospettiva contraria: l’educazione ha qualcosa da dire di importante nel merito dell’educazione alla fede. L’abbiamo riconosciuto molte volte in questi anni; e, per questo, abbiamo cercato il confronto e assicurato l’ascolto delle scienze dell’educazione. L’esempio più significativo è offerto proprio dall’attenzione alla narrazione nei processi relativi all’evangelizzazione. Questa consapevolezza ci ha spinto a ripensare il modello narrativo, suggerito per l’educazione alla fede, anche nell’ambito dell’educazione.
    Il titolo rilancia la questione in modo interrogativo.
    Il contributo giustifica una risposta affermativa alla domanda e la trascina, il più possibile, verso modelli concreti di intervento.

    UN DIFFUSO BISOGNO DI EDUCAZIONE

    Il punto di partenza è costituito da una convinzione: oggi il bisogno di educazione è forte, insistito, urgente.
    Un’affermazione come questa, certo non pacifica, ha bisogno di qualche precisazione. Il bisogno di educazione, infatti, non rappresenta qualcosa di riconosciuto in modo generalizzato. Le richieste più diffuse e consapevoli riguardano altri ambiti. Molti gridano e fanno manifestazioni per dichiarare il bisogno di lavoro, di tranquillità sociale, di pace, di servizi sanitari adeguati. Chi non ha stabile dimora propone con forza il suo diritto alla casa. Non mancano prese di posizioni relative al diritto alla scuola e allo studio, al riconoscimento della propria dignità e libertà. Si afferma il bisogno di eguaglianza e il rifiuto ad ogni discriminazione.
    È raro costatare richieste relative al bisogno di educazione.
    Eppure, una serie di fatti giustificano la convinzione messa a titolo del paragrafo.

    Essere giovani in questo tempo

    Una vecchia e consolidata abitudine spinge a pensare agli adolescenti e ai giovani come un soggetto in fase evolutiva, segnato prevalentemente dai tratti psicologici di questa situazione. In fondo, si dice, i giovani sono sempre gli stessi, fragili e incerti, inquieti e un po’ contestatori, poco riflessivi e molto sognatori, proprio perché sono giovani. Bisogna solo avere un poco di amorevole pazienza e insistere quel tanto che è necessario, e questi difetti congeniti spariranno con il tempo.
    Purtroppo le cose non vanno solo in questa logica. Molti tratti di personalità sono indubbiamente legati all’essere giovani. Essi però «risuonano» in modo particolare sulla lunghezza d’onda del tempo in cui viviamo. L’essere giovani risulta fortemente segnato dall’esserlo in questo tempo. L’influsso sociale e culturale della stagione e dell’ambiente in cui si vive condiziona quello che è legato ai processi di crescita.
    Per questo, per comprendere i giovani e gli adolescenti di oggi è indispensabile guardarsi d’attorno, con sguardo attento e critico. Ci proviamo con qualche rapida battuta, orientata soprattutto a ricordare alcuni dei tratti culturali più caratteristici della nostra stagione.
    L’elenco non esprime né condivisione né rifiuto. È solo la presa d’atto di un clima su cui non possiamo chiudere lo sguardo. Gli esiti, indicati nel paragrafo seguente, diventano motivo di confronto e di sfida.

    Moltiplicazione di appartenenze

    Viviamo in una situazione di diffusa complessità sociale.
    È definita complessa quella situazione sociale e culturale in cui si passa da un sistema unificato, in cui le diverse istanze sono organizzate in un unico centro ordinatore, ad un sistema raccolto attorno a diversi riferimenti, in cui convivono differenti e molteplici principi organizzatori.
    Il pluralismo delle culture, dei valori, dei centri di potere e delle attività economiche rende l’universo sociale alquanto frastagliato e disaggregato in molti luoghi autonomi. La complessità nasce appunto da questa articolazione che rende difficile l’identificazione della società come un tutto monolitico o, semplicemente, unitario.
    In questo insieme complesso non esiste una visione della realtà o un sistema di valori che possa essere considerato egemone. Non esistono criteri di discernimento che siano valutati univoci e generali. Ogni concezione del mondo e della vita, ogni posizione etica, magari aberrante, ha diritto di esistenza e rivendica pari dignità con quelle più diffuse e ricche di validazioni storiche, culturali e sociali.
    La persona appartiene, di conseguenza, a differenti raggruppamenti sociali con ruoli attivi e diversi. Riesce a convivere in questa situazione conflittuale, esprimendo una appartenenza debole. Il rapporto tra la persona e le diverse istituzioni diventa così poco vincolante e scarsamente incidente per la strutturazione della personalità. Le diverse istituzioni, anche quelle deputate al controllo e alle proposte, sono spesso considerate prevalentemente in termini strumentali e funzionali.

    Una soggettivizzazione esasperata

    L’esito e la ragione di questa situazione è costituita dall’emergere di una soggettivizzazione, spesso sfrenata.
    L’oggettività del senso e delle ragioni che lo giustificano non è più esterna all’individuo, depositata in una tradizione che ci è consegnata con l’esistenza stessa o in un consenso costruito nel confronto e nella convenzione sociale. Essa, invece, sembra radicarsi solo nel vissuto soggettivo dell’individuo stesso. Vanno di conseguenza in crisi i criteri attraverso cui il giusto, il buono e il vero assumevano la loro validità. Le valutazioni e le esperienze di ogni soggetto sono poste al centro del senso dell’esistenza umana, della sua produzione e della sua valorizzazione.
    L’estremizzazione della soggettività si rivolta spesso contro la stessa soggettività, distruggendola alla radice attraverso la messa in crisi della identità del soggetto che la vive. In molti casi è vissuta come grido disperato da parte di un soggetto disperso e frammentato che non riesce più a dare senso a niente perché non sa più chi è e si percepisce come l’incongruo insieme di tanti frammenti di vita disomogenei che non riescono a ricomporsi in un disegno unitario.
    Tutto questo spinge, soprattutto i soggetti più fragili e deboli (come sono i giovani), verso decisioni mai definitive, per un’attenzione esasperata a non precludersi nessuna possibilità, verso quella «reversibilità delle scelte» che tanto giustamente preoccupa. L’eccedenza delle opportunità giustifica appartenenze deboli, dove sembra compatibile un orientamento e il suo contrario.
    Le difficoltà non riguardano, prima di tutto, il fatto di non fare scelte coerenti con un quadro oggettivo di valori. È troppo facile assumerle con entusiasmo e poi, in altro ambiente e sotto un altro tetto, giocare lo stesso entusiasmo nella direzione opposta. La difficoltà sta, più alla radice, in quella mancanza di decisionalità forte che sembra la condizione irrinunciabile per sopravvivere oggi.

    La crisi del limite

    La vita umana si esprime e trova la sua energia creatrice nell’incontro-scontro tra la potenza del desiderio e la costrizione del limite, quell’insieme di norme, di codici e, quindi, di forme che fissano le possibilità legittime in cui l’azione umana può manifestarsi. Se il desiderio viene lasciato libero di esprimersi e non incontra delle costrizioni che lo incanalano all’interno di particolari forme di vita, esso rivelerà la sua devastante potenza distruttrice.
    Non poche proposte teoriche e pratiche, elaborate dalla cultura sociale odierna, hanno, di fatto, demolito molti dei limiti che tradizionalmente segnavano la vita individuale e sociale.
    Una delle cause, tra le più influenti, è la situazione di consumismo esasperato. Gli abitanti delle società consumiste consumano a dismisura cibo, vestiti, automobili, viaggi e vacanze, informazioni, spettacoli, cultura, sentimenti e, persino, l’ambiente naturale in cui abitano. Questo porta le persone a non selezionare più le offerte di consumo che la vita quotidiana propone loro. Nella loro coscienza nasce la convinzione che è lecito e normale consumare tutto, in quanto è sufficiente l’esistenza stessa dell’offerta per legittimare il consumo. Basta possedere le risorse economiche necessarie e ogni desiderio può essere legittimamente e prontamente soddisfatto.
    Questa esasperazione di onnipotenza passa dalla sfera delle cose e degli strumenti a quella più intimamente personale. Cresce la convinzione di poter uscire da ogni situazione di disagio e di controllo. Se non ne possediamo attualmente la strumentazione adeguata, è sufficiente attendere con... giusta impazienza: tra pochissimo ci riusciremo, come stiamo ormai sperimentando con computers velocissimi e superdotati, capaci di trasformare in caratteri le parole e, forse, il pensiero.
    Certo, qualche limite invalicabile resta, inesorabile e perverso. Basta però non pensarci: il silenzio o la trasformazione in spettacolo servono egregiamente ad esorcizzarne la paura.
    Ogni tanto, sotto l’incalzare impietoso della vita, questa folle pretesa di onnipotenza frana. L’imprevisto (la morte, la sofferenza, la delusione provata dalla perdita di ciò che tanto stava a cuore) e la tragica constatazione di non poter governare la crisi che inesorabile attraversa la vita quotidiana, scatenano la disperazione nei suoi mille esiti.

    La crisi del tempo: l’esasperazione del presente

    Un altro dato, tipico della cultura attuale, è l’esasperazione del presente rispetto al ritmo normale del tempo. Il fatto è grave e preoccupante.
    Il tempo, che dal passato attraverso il presente scorre verso il futuro, è il telaio che tesse l’ordito della vita umana nel mondo e che orienta tutte le domande e le risposte di senso degli uomini maturi emersi alla coscienza. L’uomo che non conosce il tempo è un uomo che non sa prevedere il proprio futuro. Non emerso alla coscienza, è un uomo prigioniero della sua vita fisiologica, oltre che delle sue paure e delle sue angosce più profonde.
    La vita umana, infatti, trova il suo senso nella storia: si radica nella memoria e si proietta verso un progetto di futuro. Per questo, l’atteggiamento degli adulti verso le nuove generazioni è sempre stato legato da un lato alla fedeltà verso la memoria e dall’altro lato ai progetti di futuro. I giovani sono così aiutati a vivere in continuità con la storia, coerenti con la memoria del passato e con i progetti di futuro di cui il presente degli adulti è l’espressione.
    Nella cultura sociale contemporanea questa concezione del tempo sembra essersi dissolta e di essa rimane traccia solo all’interno di sempre più esigue minoranze sociali. Ad essa sembra essersi sostituita la concezione di un tempo quotidiano insignificante, sul quale si aprono degli squarci del tempo sacro o magico dotato di un forte significato. La vita umana, nella sua dimensione quotidiana, sembra non offrire più alcun senso esplicito e comprensibile che possa essere considerato vero. La vita quotidiana, infatti, tende a risolvere la ricerca della felicità umana esclusivamente all’interno dei gesti che connotano il consumo quotidiano delle informazioni, dei beni materiali e delle relazioni sociali.
    Assistiamo, di conseguenza, ad una dilatazione della temporalità sociale prodotta dai bisogni delle economie e delle culture delle società complesse. Le tecnologie della comunicazione tendono sempre più a far dipendere, per la loro sopravvivenza, questi individui dalla rete del sistema informativo in cui sono inseriti. La possibilità di lavorare a distanza, di avere diagnosi sulla loro salute via telefono, di ricevere a domicilio tutto quanto ciò di cui si ha bisogno, di avere informazioni in tempo reale attraverso la televisione e la radio, di partecipare a videoconferenze… tutto questo fa si che le persone debbano occuparsi solo del loro presente, mentre la capacità di fare progetti a lunga scadenza e l’imparare dal passato dipendono sempre di più dagli specialisti.
    Il presente diventa l’unica dimensione esistenziale significativa per la vita delle persone, la sola strada percorribile alla ricerca di felicità e di piacere. Il futuro è più sovente evocato come minaccia piuttosto che come promessa di felicità.
    Dentro questa opacità di senso del quotidiano balenano sovente antiche suggestioni che inducono molte persone ad abbandonare il centro esistenziale costituito dalla loro coscienza razionale, per affrontare la ricerca di sensi completamente irrazionali, astorici e inconsci della loro esistenza. L’esoterismo, con le sue pratiche misteriche, che sovente debordano nel ridicolo, rappresenta molto bene questa ricerca che porta l’uomo lontano dal suo tempo quotidiano e dalla sua storia e lo immerge in un tempo privo di qualsiasi rilevanza per la sua vita nella realtà del mondo. Spunta l’illusione di poter manipolare magicamente il mondo stesso, senza la sofferenza dell’impegno quotidiano. Chi non si abbandona a questa fuga dalla realtà del quotidiano rimane molto spesso prigioniero del tempo inteso come somma di opportunità di consumo e cerca disperatamente di elevare il proprio consumare ad atto dotato di senso per la sua esistenza, bruciando senza accorgersene la sua memoria del passato e il suo sogno di futuro.

    L’emergere di «non-luoghi»

    In genere, noi riusciamo a costruire la nostra identità quando entriamo in una relazione positiva (o conflittuale) con le altre persone. Nel confronto e nello scontro diciamo a noi stessi e agli altri chi siamo e chi pretendiamo di essere.
    Questa operazione relazionale si realizza nel tessuto di spazi che la esigano, la attivino, la rendano possibile.
    Oggi questi spazi sono diventati rarissimi, perché la stragrande maggioranza del nostro tempo viene trascorsa in «non-luoghi», in spazi cioè che non sono in grado di garantire un riconoscimento personale. Non sono spazi relazionali, perché non sono capaci di attivare incontri sociali; né sono storici, perché non ci aiutano a collocare noi stessi nel ritmo, sperimentato e sedimentato nel trascorrere del tempo. Abitiamo sempre di più spazi vuoti, impersonali, senza storia e senza rapporti: abitiamo dei non-luoghi.
    Non-luoghi sono gli spazi e i mezzi di transito e di trasporto (autostrade, stazioni ferroviarie, aeroporti, centri commerciali, svincoli e sottopassi, megadiscoteche, treni, aerei...). Essi si moltiplicano a dismisura e colonizzano ormai la nostra esistenza. Nei non-luoghi viviamo nell’anonimato e nella solitudine, anche se ci troviamo in tanti, gomito a gomito in lotta per la sopravvivenza. La persona diventa un individuo, condannato all’isolamento e alla solitudine, nel frastuono assordante dell’incrocio con mille altre solitudini.

    Tra fatti e esigenze

    I fatti appena elencati e i molti altri che sono alla portata di osservazione di tutti, come capita per ogni avventura umana, sono segnati da profonda ambiguità. Spingono infatti verso il superamento di tante situazioni che consideravamo tranquillamente come ottimali e, nello stesso tempo, trascinano verso esiti che è facile considerare come pericolosi. D’altra parte, questa è la nostra stagione, quella che vivono i nostri adolescenti e giovani e quella che fortemente li influenza. Con essa dobbiamo fare i conti e nella sua logica interpretare i problemi e progettare i rimedi.
    Da buoni educatori ci chiediamo con ansia: che si può fare?
    La risposta è difficile, almeno per due ragioni.
    Prima di tutto, gli aspetti positivi e quelli problematici non sono facilmente disarticolabili, come piacerebbe a chi vuole, a tutti i costi, dividere e chiarire. Aspetti positivi e problematici si intrecciano in una trama molto complessa. L’ambivalenza rende difficile l’interpretazione e può imprigionare ogni impegno di trasformazione.
    Inoltre, la radice di molti dei fatti appena ricordati, è strutturale (divisione dei mezzi di produzione e gestione di quelli della comunicazione...). Supera quindi le strumentazioni semplificatrici di cui abitualmente disponiamo. Non aiuta a dividere con precisione i confini tra buono e cattivo e annoda la trama delle cause e degli effetti in una ragnatela assai complessa. Si richiede uno sforzo serio di discernimento: la definizione di un punto di verifica che ci aiuti a mettere ordine nella complessità, e la raccolta, disponibile e convinta, di quelle «sfide» che, in qualche modo, possono aprire a nuovi progetti di trasformazione.
    In quale direzione operare discernimento? Un buon criterio è dato dal confronto con l’esito. Possiamo, in altre parole, esprimere una valutazione su quello che sta capitando, quando l’operazione è condotta con lo sguardo fisso ai risultati dominanti. I fatti che risuonano come disturbanti rispetto alle esigenze più comuni della vita ci costringono a pronunciare una parola almeno preoccupata. Su questo criterio continuiamo la valutazione. Prima di tutto esprimiamo un giudizio complessivo, consapevole che i fatti ricordati convergono tutti, in modo unitario, attorno all’unità interiore di ogni persona. In secondo luogo, viene suggerita una prospettiva egualmente globale: quel bisogno di educazione, di cui si è affermato la presenza nell’attuale situazione culturale e sociale.

    Una situazione di orfanità

    L’insieme dei fatti appena ricordati ha un esito diffuso e pervasivo. Funziona come effetto e, spesso, come motivo scatenante. Il titolo del paragrafo lo evoca con una espressione da commentare: una situazione di insistita orfanità.
    A differenza dell’esperienza vissuta dalle generazioni passate che ricevevano il senso dell’esistenza attraverso processi trasmissivi abbastanza tranquilli, la cui eventuale conflittualità era solo congiunturale, oggi assistiamo ad una larga crisi di trasmissione culturale. Coloro che hanno la responsabilità di affidare ad altri le ragioni per credere alla vita e alla speranza, non sanno più bene cosa trasmettere e come trasmettere. D’altra parte, è scarso anche l’interesse a ricevere qualcosa da altri, se questo soggetto non è sperimentato appartenente al proprio ristretto gruppo. Anche le agenzie, tradizionalmente incaricate di questa responsabilità (scuola, famiglia, chiesa...), sono oggi in crisi. Come appare dalle ricerche più recenti, esse recuperano credibilità e consenso solo quando sanno presentarsi come luogo di relazioni primarie soddisfacenti. In fondo, esse funzionano solo quando, rinunciando alla loro specificità, delegano ad altri la trasmissione dei «contenuti», per riappropriarsi quella di assicurare interazioni.
    Giovani e adulti non si capiscono e non si ascoltano perché non hanno più esperienze comuni da scambiarsi. Quando il rapporto generazionale era conflittuale, lo scontro avveniva all’insegna delle diverse esperienze. In fondo, anche questo era un modo di realizzare assieme la formazione. Oggi il confronto e lo scontro ha ceduto il passo al silenzio e all’isolamento. Il giovane soffre di orfanità, perché è costretto ad inventare da solo (o nel piccolo cerchio dei suoi amici) quelle esperienze che lo costituiscono come soggetto di vita e di speranza. L’adulto, che trovava nel surplus di esperienze la legittimazione della sua funzione educativa, avverte di non aver nulla da dire e nessuno cui comunicare quel poco che pensa di poter dire.
    L’orfanità sul senso, cui sono condannati molti giovani di oggi, produce disagio e disperazione. Non pochi cercano di superarla in una ricerca affannosa di qualcuno di cui fidarsi e a cui affidare le ragioni più profonde della propria speranza. Basta il fascino o il greve sapore del rischio per giustificare la consegna all’avventura persino di quel qualcosa, così intimo e inquietante, che è la vita e la speranza.

    La scommessa sull’educazione

    L’unica risposta convincente e incidente all’orfanità è la ricostruzione di nuovi processi di trasmissione culturale.
    In questo senso, si può affermare che viviamo in un tempo di grande bisogno di educazione. Riconoscere la necessità di ricostruire la trama dei processi di trasmissione culturale significa, infatti, rilanciare l’esigenza di adulti e di giovani disponibili a scambiare le proprie ragioni di vita. Nello scambio, l’adulto ritrova la sua costitutiva funzione educativa e il giovane si scopre interessato a proposte che nascono nella cultura e nella storia in cui egli vive e che hanno diritto propositivo non solo sul fascino di cui sono cariche.
    Il bisogno diffuso di educazione riguarda quindi tutti, allo stesso titolo: la questione della vita e della speranza investe infatti tutti, con la stessa drammatica urgenza, anche se, come capita spesso, sono i più deboli e i più indifesi quelli che ne soffrono maggiormente le conseguenze.
    Il bisogno di educazione, come risposta matura alla crisi di orfanità, va compreso all’interno di una doppia prospettiva.
    Da una parte, questo bisogno chiama immediatamente in causa la qualità dell’atto educativo. Non possiamo sicuramente far coincidere il bisogno di educazione con la validazione implicita dei modelli del passato. Interpretarlo come il rilancio di funzioni propositive forti significa snaturare i fatti, cercando i rimedi sulla stessa sponda in cui sono stati scatenati i problemi.
    Dall’altra, nella scelta dell’educazione è presente una possibilità concreta di reazione alle dimensioni problematiche dei fatti elencati sopra, pur riconoscendo la loro radice strutturale.
    A questo livello, le cose si complicano un poco.
    Non possiamo di sicuro contrastare situazioni la cui radice è strutturale, attraverso appelli alla buona volontà delle persone o richiami generici al senso di responsabilità.
    L’educazione investe l’ambito culturale, quello che riguarda appunto lo stile di esistenza, le sue ragioni e le sue prospettive. È urgente restituire ad ogni persona la capacità di riconoscersi e di realizzarsi come soggetto autonomo e responsabile della propria storia e di quella degli altri. Persone restituite a questo stile di esistenza possono incidere ai diversi livelli in cui si giocano i processi strutturali.
    La scommessa sull’educazione (l’interpretazione, in altre parole, dei fatti come bisogno di educazione e il rilancio di questo compito perché viene riconosciuto capace di risolvere le difficoltà) prende atto, in modo serio, della radice strutturale di molti dei problemi attuali. Constata però il loro rimbalzo sul piano culturale, quello che riguarda la vita e la sua qualità. Propone un rimedio a questo livello, per risalire dalla trasformazione culturale ai necessari cambi strutturali.
    Questo è un rischio, calcolato e verificato, ma sempre incerto e precario. Una scommessa, appunto, capace di incidere sul piano strutturale, anche se privilegia gli accessi deboli dei valori e dei significati.

    RIPENSARE LA FUNZIONE EDUCATIVA

    La situazione attuale pone un forte appello agli adulti a ritrovare la responsabilità e la gioia dell’educazione. In che direzione impegnarsi?
    Non piacciono le persone che dedicano il loro tempo a fare l’elenco dei problemi, pronti a dire la loro con tono perentorio, appena l’interlocutore alza le mani, in gesto di resa incondizionata per la violenza dei problemi stessi.
    Sembrano dei preziosi benefattori e invece sono dei pericolosi manipolatori.
    La soluzione va cercata assieme, in un confronto lucido e disponibile. Questa ricerca, di solito, apre verso soluzioni differenti: la complessità e la ricchezza della realtà sopportano a stento le linee univoche.
    Per cercare e trovare qualcosa di valido, è soprattutto necessario intendersi sulle esigenze da rispettare. Esse giudicano la validità della risposta e dell’eventuale pluralità di ipotesi. Su questo elenco concentriamo quindi la riflessione. Condivise le esigenze, potremo poi cercare un modello che le esprima e le assicuri.

    Riconciliare le opposizioni

    L’educazione è l’azione attraverso cui un adulto, inserito in una società e collocato in un preciso frammento di tempo, aiuta i giovani ad entrare, in modo critico e responsabile, in un tempo e in una storia che già preesiste. L’educatore realizza questo compito condividendo i significati che ha ereditato e che ha progressivamente rielaborato per dare a se stesso ragioni per vivere e per sperare. Non cerca esecutori ripetitivi del già vissuto; sollecita, al contrario, verso una riespressione personale e autentica «dentro» il senso che egli ha prodotto e che offre con amore, perché altri possano ritrovare il proprio senso all’esistenza.
    Nel modello tradizionale, questa relazione era spesso vissuta in uno stile «a cascata»: da una parte, stavano i docenti, portatori di spiegazioni; dall’altra, i discenti, impegnati ad apprenderle e ripeterle. Alla consapevolezza del dovere di comunicare, corrispondeva il dovere di accogliere. Eventuali revisioni critiche avevano senso e giustificazione solo dopo aver accolto, in modo incondizionato, quello che veniva proposto.
    Il modello ha una sua logica molto precisa. Se si tratta di acquisire informazioni, la divisione dei compiti è insuperabile. Chi le possiede, le deve comunicare a chi ne è privo. Solo in questo travaso si può assicurare la conoscenza.
    La logica va in crisi solo se la diffusione delle informazioni viene considerata uno dei momenti (forse neppure quello centrale) del processo formativo. Nell’ambito della formazione non si tratta di acquisire qualche notizia prima sconosciuta, ma di condividere ragioni di vita e di speranza. Ciascuno ha qualcosa da offrire: irrinunciabile, nella diversità, per il reciproco arricchimento.
    Certo, questa relazione è molto speciale.
    Richiede una profonda intenzionalità reciproca; gli interventi e le mete vanno condivise e concordate da tutti i protagonisti. Eppure, non è mai una relazione alla pari, tra due interlocutori che raggiungono l’accordo attraverso il sottile gioco degli influssi o dei patteggiamenti. L’educazione invece risulta una relazione tra «diversi»: è una relazione asimmetrica.
    Gli interlocutori sono differenti: per età, per cultura, per formazione, per sensibilità, per maturazione, per vocazione. Proprio perché diversi, accettano di scambiarsi qualcosa di fondamentale e riconoscono che solo in questa relazione possono tutti crescere.
    Il dono che è l’altro e che l’altro propone non viene accolto quando l’interlocutore rinuncia alla diversità e tenta faticosamente di raggiungere l’omogeneità. È considerato invece dono prezioso, proprio perché proviene da uno che sento e valuto asimmetrico rispetto al mio mondo.
    L’educatore inoltre propone ad altri qualcosa che gli è stato affidato. Lo fa con amore e rispetto; sa di essere ricercato e accolto proprio per questo suo servizio. Scambiando ragioni per vivere e per sperare, penetra così nel santuario intimissimo dell’esistenza personale con un’autorevolezza che non è mai patteggiata.

    Scambiarsi esperienze, per rimettere la vita al centro

    La formazione si realizza attraverso uno scambio e un confronto tra soggetti diversi.
    Il confronto nella diversità può scatenare conflitto o dar corso a processi di reciproca manipolazione. Spesso, purtroppo, ci si difende evitando il confronto o cercando qualcosa solo a partire dall’omogeneità.
    La via di uscita è suggerita, ancora una volta, dall’esito ricercato e sofferto: la vita e la sua qualità. Per comprendere verso quale vita siamo in cammino e fino a che punto possiamo sperare sull’esito, ci scambiamo quello che sogniamo e che abbiamo sperimentato: i frammenti, vissuti e pensati, della nostra stessa vita. Ci scambiamo esperienze, mettendo sempre la vita al centro. Solo nello scambio di esperienze, il confronto nella diversità non mira alla pretesa di vincere, ma a quella di far crescere la vita e la speranza.

    E la parola?

    Una nota va però sottolineata per non essere fraintesi in un ambito tanto delicato.
    L’oggetto dello scambio sono «esperienze che si fanno messaggio»: tutte le esperienze, quelle povere, frammentate, sofferte che costituiscono il quotidiano di ogni persona, e quelle sognate e ricercate che definiscono il suo progetto.
    Quello che viene comunicato non è costituito né solo da esperienze di vita e neppure solo da parole. Sarebbe uno scambio troppo povero in tutti e due i casi: poco umanizzante e promozionale. Parole e esperienze si intrecciano invece per trasformare le esperienze in messaggi. Le esperienze sono l’unico dato scambiabile quando vogliamo davvero produrre vita.
    Le esperienze vanno però lavorate con le parole: decifrate, interpretate, riscritte come progetto verificabile e generalizzabile. Lavorate con le parole, diventano «messaggio»: significato per la vita, contributo di una esistenza ad un’altra esistenza.
    Al centro della formazione sta quindi la vita quotidiana, l’unica realtà che conta davvero per tutti. L’educazione serve la causa della vita e lotta perché si allarghino i confini della vita contro quelli della morte, affermando la sua fiducia sulla vita e la certezza della sua vittoria.

    E quando le intenzioni sono proprio diverse?

    La prospettiva suggerita fa rimbalzare immediatamente una difficoltà, così seria che sembra minacciare la praticabilità della proposta stessa.
    Una delle condizioni pregiudiziali per l’educazione è la condivisione delle intenzioni. Quando educatori ed educandi partono da preoccupazioni troppo diverse e si prefiggono obiettivi notevolmente differenti, diventa davvero impossibile realizzare un processo educativo. Possiamo immaginare una convergenza operativa attorno alla vita?
    A prima vista, la risposta è soprattutto negativa. Usiamo tutti la stessa espressioni; attorno alla vita e alla sua qualità i proclami diventano immediatamente solenni... eppure è sufficiente un minimo di confronto per costatare quanto le posizioni pratiche siano divergenti. I giovani accusano gli adulti di essere di un altro mondo: ci accusano, in altre parole, di considerare la vita, di cui magari tanto parliamo, secondo connotazioni che essi riconoscono estranee al loro mondo quotidiano. Gli adulti, in compenso, si dichiarano spesso disponibili a condividere con i giovani la stessa passione per la vita, ma, subito, aggiungono... alla condizione che siano abbandonate posizioni immature e pericolose.
    E non è solo questione di distanze cronologiche. Giovani e adulti si frammentano in tipologie assai diverse, proprio sulla misura della vita e della sua qualità.
    In questa situazione, in cui l’unica categoria veramente comune è la diversità, possiamo collocare la vita come orizzonte dell’educazione?
    Le difficoltà sono innegabili. Chi prende sul serio la vita trova però una via di uscita.

    La logica del seme

    La vita è come un piccolo seme, orientato sicuramente verso un futuro preciso e determinato, anche se lunghi inverni devono passare prima che possa sbocciare in qualcosa di veramente affermato e verificabile. Eppure, tutto ciò di cui è carente, lo possiede già germinalmente. Solo l’attesa, la pazienza e la cura possono portare a compimento. Persino il momento più tragico, quello in cui muore sotto la coltre di terra, rappresenta l’esplosione più alta della sua vitalità.
    Chi mette la vita al centro della sua passione e ne cerca con forza una qualità rinnovata non si preoccupa, prima di tutto, di chiarire i termini e i percorsi. Cerca la condivisione sulla collocazione: la vita contro la morte, la vita di tutti contro l’egoismo e la sopraffazione. Nella compagnia suscitata da questa comune passione, procedendo assieme, nell’incertezza della ricerca e nella gioia dell’esperienza, possiamo progressivamente precisare il senso più pieno di ciò che abbiamo condiviso e aiutarci a tradurre in vissuto quello che abbiamo sperato. In questo stile, la vita può davvero essere posta al centro del servizio educativo: una prospettiva che accoglie la differenza, la elabora nel confronto e nell’azione, verso una maturazione che sta più avanti dei passi più avanzati.
    La nostra ricerca sulla qualità della vita non è però all’insegna del vago e dell’incerto. Quella vita, di cui cerchiamo assieme la pienezza, è veramente come il piccolo seme, proteso a diventare albero grande. Cerchiamo qualcosa che già possediamo e che siamo sollecitati ad accogliere, con disponibile attenzione.
    Per questo l’educazione, impegnata per la qualità della vita nella fiducia verso la vita stessa nel nome del suo Signore, riconosce già una figura di vita e di morte. Non cerca nel buio e nell’incerto. Ma progetta nel riconoscimento e nel discernimento.

    Restituire memoria alle parole e ai gesti

    Un’altra esigenza va ricordata: restituire ai segni linguistici che utilizziamo nel rapporto interpersonale (parole e gesti) quella memoria collettiva che ha intessuto la loro storia. Indichiamo l’esigenza con il verbo «restituire», perché la perdita di memoria è uno degli spossessamenti più violenti a cui siamo stati condannati in questa nostra stagione.
    La lingua e gli altri linguaggi umani hanno attraversato il tempo: nati da altre lingue e linguaggi, sono evoluti e regrediti all’interno di una storia individuale e sociale. Hanno contribuito a fare la storia vissuta dalle generazioni che le hanno utilizzate, proprio mentre, da questa stessa storia, venivano modificate nei significati di cui sono portatrici. Parole e gesti, espressioni di una cultura e di una storia, hanno costruito questa stessa cultura, nel frammento di storia in cui sono stati elaborati. Oggi, l’intreccio tra linguaggio, cultura e storia sembra messo in profonda crisi. Basta pensare allo scadimento che ha investito la dimensione simbolica anche dei gesti e delle cose più comuni della nostra esistenza.
    Il pane e l’acqua hanno rappresentato, per tanto tempo, non solo una dimensione fondamentale del nutrimento, ma, proprio per questo, sono diventati simboli della vita, della sua qualità, della condivisione di progetti alti.
    Facendo eco alla cultura del tempo, Gesù ricorda che un bicchiere d’acqua, offerto per amore, apre le porte del cielo. Lo diceva in un tempo e in un luogo in cui l’acqua era bene scarso e prezioso. Per questo, lui stesso si propone come sorgente d’acqua zampillante. Oggi l’acqua è diventata un bene di consumo, che possiamo sciupare quasi a piacimento... l’ultima cosa cui uno pensa quando soffre la sete: nei bar non si vende l’acqua per spegnere la sete, se non è almeno minerale, tanto meno se ne offre un bicchiere all’amico, perché molti altri prodotti ne hanno sostituito la funzione.
    Pensiamo al pane... quella cosa che molti non mangiano perché fa ingrassare.
    Anche il bacio e l’abbraccio è un gesto di routine, consumato senza particolari ragioni, come fosse un «ciao» lanciato all’amico che rivedrò tra pochi minuti.
    Fare formazione significa «restituire» cultura e storia alle parole e ai gesti, ridando ad essi quella memoria che sembrano aver smarrito.
    Purtroppo non è sufficiente sollecitare, attraverso pressioni differenti, a ripetere quello che ci è stato tramandato, con le stesse espressioni comunicative con cui altri, prima di noi, l’hanno detto. Questa operazione coercitiva produce ribellione e ossessione: l’ossessione verso un passato che si ritiene insignificante e la ribellione nei confronti di coloro che cercano forzosamente di farlo rivivere.
    Dare memoria significa invece elaborare il ricordo in un racconto pieno dell’oggi. Parole e gesti sono inventati continuamente per restituire il ricordo a chi ne è privo, come qualcosa che lo riguarda direttamente e intensamente proprio mentre riguarda, direttamente e intensamente, colui che fa memoria, riempiendo il ricordo delle sue stesse nuove esperienze.

    Oltre il silenzio

    Spesso, nell’ambito educativo, viene citata una famosa affermazione (la settima proposizione del Tractatus) di Wittgenstein: «Ciò di cui non si può parlare si deve tacere». Chi la cita, cerca una giustificazione autorevole per ricordare una esigenza impegnativa: gli educatori parlano troppo, pensano di avere una risposta a tutte le questioni, come se bastasse conoscere qualche battuta in più per pretendere di affrontare, con la stessa competenza, le questioni che riguardano la vita e il suo senso.
    Restituiti alla coscienza sofferta del proprio limite e della personale fragilità, facciamo risuonare, forte e insistente, l’invito al silenzio.
    Condividiamo la preoccupazione. Non condividiamo invece la conclusione.
    Condannare al silenzio uno dei pochi che avrebbe il diritto di parlare, sembra un’operazione suicida, ingiusta e ingiustificata. Al contrario, in un tempo di pluralismo e di complessità, l’educatore è chiamato a ridiventare intensamente propositivo e deve possedere l’autorevolezza necessaria per penetrare, con le sue proposte, nell’intimo dell’esistenza di una persona.
    A quali condizioni una persona diventa tanto importante per gli altri da sollecitarli a misurarsi con la proposta di vita che lui è, e che lui proclama?
    Per rispondere, va ripensato, secondo categorie nuove, lo spinoso rapporto tra oggettività e soggettivizzazione.
    Oggettività dice, nel gergo tradizionale, esistenza di valori e di norme che stanno prima di ogni loro comprensione personale. In qualche modo giudicano l’immagine che di essi ci facciamo e l’impegno con cui cerchiamo di viverli. Lo schema tradizionale affidava l’autorevolezza alla verità delle cose proclamate. Quando un’affermazione era vera, poteva essere gridata a voce alta. Al diritto della verità corrispondeva il dovere di accoglierla. Su questo versante si colloca l’invito al silenzio, ricordato in apertura: è difficile in situazioni concrete affermare che «questa» (e solo questa) è la verità. In una situazione di complessità ognuno pensa di avere il suo pezzo di verità. Insistere troppo sulla verità significa ingolfarsi nelle paludi della complessità.
    La soggettivizzazione capovolge ottica e logica. L’unico valore, serio e decisivo, è quello che la persona dice e decide per sé o, al massimo, quello che concordiamo nel gioco degli accordi e degli scontri.
    Soggettività e oggettività sembrano due prospettive inconciliabili.
    A nostre spese abbiamo imparato ormai che non è questione di «quantità»: come se bastasse diminuire l’elenco dei valori oggettivi per restituire ad essi credito o aumentare l’ambito della soggettività per poter affermare alcuni limiti invalicabili.
    Chi ha tentato questa ipotesi quantitativa si è trovato ogni giorno obbligato a spostare i cartelli dei divieti.
    L’educatore non è il difensore dell’oggettività contro l’ingiusta aggressione dell’intemperanza giovanile. Ma non può di certo erigersi solo a difensore della libertà e responsabilità personale contro l’invadenza delle norme.
    Privato di questi due compiti gratificanti, il povero educatore resta disoccupato?
    Abbiamo sperimentato i primi frammenti di un’alternativa. Praticata, consegna all’educatore un compito di altissimo prestigio: egli è il testimone, trepidante e sofferto, delle esigenze irrinunciabili della vita. La vita, quella quotidiana tessuta sulla trama dell’avventura di ogni giorno e condivisa in una solidarietà che abbraccia tutti gli uomini, è l’evento più soggettivo che ci sia. È mia, fino in fondo: ma la progetto, la sogno, la tradisco, la realizzo.
    Eppure mi misura inesorabilmente. Si porta dentro esigenze e dimensioni che spingono la soggettività nel santuario delle cose date, fuori da ogni possibilità di pattuizione.
    La vivo felice quando la vivo secondo i codici in cui è stata disegnata. Mi scoppia tra le mani, quando cerco di superarli, come un bambino bizzoso e viziato. La vita, inoltre, è piena e riuscita solo quando lo è per tutti. La solidarietà propone confini ed esigenze, la cui chiarezza sta saltandoci ormai agli occhi, a forza di smontare e rimontare i frammenti della nostra storia.
    In questa oggettività consegnata alla nostra soggettività riconosciamo il segno di Dio creatore e l’impronta inquietante della croce del Risorto. L’educatore è il testimone della vita e delle sue esigenze: perché sia piena per ciascuno e abbondante per tutti. Lo fa con timore e trepidazione perché parla sempre di sé e su di sé, quando difende la vita. Sa di doverlo proclamare con i fatti. E deve accontentarsi di utilizzare parole, perché i fatti della sua testimonianza sono troppo poco eloquenti rispetto alle esigenze che deve difendere.

    UNA PROPOSTA: EDUCARE NARRANDO

    Certamente le esigenze appena ricordate possono essere organizzate secondo armoniche differenti. Di conseguenza, è possibile immaginare modelli concreti di relazione educativa assai diversi. Il rinnovamento della formazione non può quindi essere pilotato verso un’unica direzione. Le pagine che seguono lanciano una proposta: davvero, si può educare narrando.
    La relazione educativa è fondamentalmente una relazione comunicativa. La narrazione è un modello comunicativo, capace di coniugare l’urgenza di essere propositivi, in una stagione come è la nostra, e quella di rispettare fino in fondo la libertà e la responsabilità dei giovani. Per questo la scelta di «educare narrando» rappresenta un modo di rispondere al diffuso bisogno di educazione, superando alla radice alcune delle ragioni che ne hanno scatenato l’emergenza. Per mostrare le ragioni della proposta utilizziamo un procedimento articolato. Solo alla sua conclusione il lettore potrà esprimere un suo giudizio motivato. Se condivide l’ipotesi, possiamo allargare il giro degli educatori narratori; se la rifiuta e riformula la stesse esigenze su direzioni concrete differenti, è un interlocutore prezioso, perché sollecita al confronto e alla ricerca continua.

    Nominare le esigenze della vita, raccontando storie

    Tra le esigenze ricordate nelle pagine precedenti, una sembra particolarmente urgente: il superamento del conflitto tra oggettività e soggettività. Molti dei modelli relazionali dominanti si collocano infatti ad uno dei due estremi: o pretendono di possedere la risposta sicura a tutti gli interrogativi e chiedono consenso nel nome dell’oggettività, o rinunciano ad ogni forma propositiva come espressione di rispetto verso la soggettività dei giovani.
    Per uscire da questo dilemma mortifero, non è sufficiente l’invito a dosare le due componenti, come se si trattasse di un gioco di formule. E non basta di sicuro immaginare una ipotetica divisione di compiti.
    La questione non è semplice. Lo scontro tra oggettività e soggettività riguarda la vita e la speranza. Si riferisce, di conseguenza, a quella dimensione globale dell’esistenza che pervade ogni frammento di azione educativa. L’educatore, infatti, propone informazioni che riguardano gli ambiti del suo servizio tecnico (affronta le discipline scolastiche, suggerisce soluzioni ai problemi, indica modelli di sviluppo...). Nel profondo di questi interventi, egli fa formazione. Anche quando la sua proposta scorre dalla sua competenza professionale verso chi ne è privo, sul piano formativo si attiva sempre uno scambio che coinvolge, allo stesso titolo, educatori ed educandi.
    In questo confronto il riferimento è ai valori e alle norme oggettive (alle esigenze della vita, come si è appena detto) e alla responsabilità di chi è chiamato a nominarle, in modo da restituire la vita alla sua autenticità e ad un maturo senso di responsabilità. L’educatore nomina però le esigenze della vita in uno stile speciale: raccontando storie a tre storie. Due elementi caratterizzano la proposta: la definizione della funzione propositiva come «racconto di una storia» e i componenti di questa storia raccontata (le tre storie).
    Ci vuole qualche parola di commento, per non rischiare di ridurre un tema tanto impegnativo ad un gioco di parole, un poco ermetico.

    Raccontare storie: la via dell’evocazione

    Il primo elemento è dato dalla scelta di fare proposte narrando storie. La considero un’alternativa sia al silenzio e alla rinuncia che al modo autoritario e sicuro di parlare.
    Nell’ipotesi narrativa, da una parte, prevalgono i fatti e le esperienze sulle parole e, dall’altra, è privilegiata la via dell’evocazione, riconoscendo l’impossibilità di dare informazioni troppo perentorie, come sono quelle di carattere denotativo, in ordine al senso della vita e alla sua qualità.
    Questo è un aspetto molto importante. Va ricordato anche se con rapide battute, rimandando alla letteratura specializzata.
    La comunicazione da persona a persona si svolge sempre in una struttura simbolica. Per comunicare non ci scambiamo cose o oggetti. Assumiamo, produciamo e ci scambiamo dei segni, con la speranza che l’interlocutore li sappia decifrare e possa così giungere alle realtà che essi richiamano.
    Come sappiamo, il rapporto tra il segno e la realtà percorre sentieri differenti. Esistono dei segni che denotano in modo preciso una realtà; altri invece la richiamano più vagamente, costringendo l’interlocutore ad un supplemento di fantasia interpretativa.
    Anche nel primo caso l’operazione non è mai meccanica. Ad ogni segno corrisponde però un preciso «oggetto» culturale; ed è importante utilizzare i segni corretti per evitare che la comunicazione sia disturbata e il messaggio indecifrabile.
    Nel secondo caso la decifrazione del segno verso l’oggetto esige un coinvolgimento più intenso da parte dell’interlocutore e una maggiore responsabilità personale. Il segno stesso la invoca, perché non si pone mai in termini univoci rispetto al referente.
    I segni del primo tipo, quelli che richiamano abbastanza bene la realtà di cui vogliamo parlare, li chiamiamo «i segni denotativi». Diciamo «pane», «libro», «casa», oppure stringiamo la mano ad un amico che incontriamo o gli stampiamo un bacio sulla fronte. Recuperiamo da un repertorio, riconosciuto e consolidato, questi segni per esprimere quello che vogliamo comunicare; e siamo certi che il nostro interlocutore li sa decodificare, raccogliendo il messaggio che vogliamo lanciargli.
    Gli altri segni, quelli in cui il richiamo alla realtà è meno immediato e sicuro, li chiamiamo «i segni evocativi». Anche in essi esistono due significati: uno è primario, l’altro è secondario. Il significato primario è già fissato nel suo uso e ci colloca in un mondo di realtà note e largamente disponibili. Esso è evocato dalla parola o dal gesto, lanciato nella comunicazione. Quello secondario, invece, è molto più misterioso e impegnativo, tutto da scoprire per accedere pienamente al messaggio comunicato.
    Pensiamo, per fare un esempio tipico del mondo dell’evangelizzazione, alla affermazione: «Dio è padre». Dicendo «padre», in genere, proponiamo una realtà nota: il significato primario, evocato dal segno-parola «padre», richiama una serie di connotazioni esperienziali condivise e verificabili. Il segno «Padre», riferito a Dio, possiede anche un significato secondario, suggerito dal primo: l’esperienza nella fede di essere immersi in un amore che «assomiglia» a quello di un padre e di una madre per il proprio figlio, ma che è sconfinatamente più grande, persistente e fedele, al cui interno comprendo il mistero di Dio per la mia vita.
    Il processo educativo, di natura sua, appartiene a questa seconda categoria. Esso riguarda la vita, il suo senso e la speranza: realtà e dimensioni sulle quali è ben difficile «dichiarare», in modo perentorio, come le cose sono e debbono andare. La parola sulla vita è sempre, al contrario, un ritorno dal detto al non detto, richiamato da ciò che viene detto. Il ritorno rimanda verso dimensioni inesplorate, da riscoprire e su cui rischiare, accettando di «metterci in gioco», per stare in quella verità che non possediamo e da cui vogliamo lasciarci tutti afferrare.
    Certo, non è tutto da inventare. La verità sta prima di noi. La cerchiamo con fatica, accettando di passare oltre quello che possediamo, in quello spazio aperto che dice sempre ulteriorità, rinvio, trascendenza.
    La scelta del «racconto» come modo di fare proposte, e del racconto di «storie» e cioè di pezzi di vissuto, come oggetto del racconto, costringe a mettere la vita al centro dello scambio educativo, riporta il processo educativo nel mondo dei segni evocativi. Reagisce così a quel modo di realizzare la relazione educativa che evita, con cura, ogni coinvolgimento, nel nome di una fredda e impersonale verità.
    Ripensiamo allo stile in cui si svolgono spesso le relazioni educative. Gli educatori si autopercepiscono come portatori di spiegazioni, costretti a dire quello che è stato loro affidato; la loro esistenza rimane estranea alla relazione comunicativa. Nessuno ha il diritto di chiedere coinvolgimenti ed essi sanno difendersi adeguatamente da ogni tentativo di intrusione. Gli educandi poi sono coloro che devono apprendere le spiegazioni offerte: su queste saranno valutati nel prossimo futuro. Anche per essi la vita quotidiana resta estranea al processo. Si scatena un patto di reciproca nonbelligeranza, che inizia e si conclude automaticamente nell’atto concreto della relazione comunicativa.
    Il racconto invece (quello a tre storie, come si dirà tra un momento) sconvolge queste resistenze e rimette la vita al centro: quella degli altri, lontani perché sprofondati nel passato o immaginati nella direzione del futuro, quella di colui che apre la comunicazione e quella di coloro che in essa sono coinvolti.

    Le tre storie: per assicurare il coinvolgimento

    Su questo primo aspetto, centrale nel modello narrativo, ritornerò nelle pagine che seguono. Sottolineiamo ora il secondo: le tre componenti dell’unica storia.
    Raccontare storie a tre storie significa saper intrecciare concretamente tre dati: quello che l’educatore è costretto a dire forte, anche se le parole gli rimbalzano addosso come macigni, lo inquietano e lo provocano; la sua personale esperienza, in una testimonianza sofferta e sognata; le attese, le delusioni e le speranze dei suoi interlocutori.
    Questi tre dati, di peso e di significato tanto diverso, diventano una parola unica, perché l’autenticità e verità di ogni elemento richiede gli altri, in un gioco di rapporti reciproci.
    Non può infatti mettere sotto silenzio quello che misura le nostre soggettività: se l’educatore accettasse questo compromesso, si collocherebbe dalla parte della morte, tradendo alla radice la sua missione educativa.
    Non riesce però a parlare come se lui non c’entrasse e fosse ormai al di sopra della mischia. La vita è avventura di solidarietà profonda e continua, che neppure la morte fisica riesce ormai a spezzare. Questo coinvolgimento personale gli assicura l’autorevolezza di cui ha bisogno per pronunciare parole esigenti, che giudicano e inquietano con la forza di una esistenza riconquistata in modo riflesso.
    I suoi interlocutori non sono i destinatari passivi della comunicazione. La relazione educativa è sempre reciprocità, anche quando la differenza è riconosciuta e ricercata. Essi sono raccontati nello svolgimento del racconto della vita e delle sue esigenze. L’educatore parla di loro in prima persona, delle loro attese e dei loro progetti, anche quando racconta di uomini e donne sprofondati in tempi lontani o quando aiuta a decifrare il percorso della natura e della storia o quando ritesse la trama di una solidarietà che dà volto a gente mai vista.
    Raccontando una storia fatta di tre differenti storie, l’educatore nomina con coraggio valori e norme che tutti provocano e misurano.

    Il modello della «narrazione»

    Come si fa? A quali condizioni una storia è veramente a tre storie?
    La risposta è difficile... per una ragione strana. Non è possibile fare un lungo elenco di suggerimenti, per non entrare in contraddizione palese con la scelta di fondo. Non possiamo neppure rispondere solo facendo degli esempi, perché il modello narrativo è una forma speciale di relazione comunicativa, che scatta quando sono assicurate interazioni intense tra i partners, nell’atto comunicativo stesso.
    Proponiamo una via di uscita di tipo riconciliativo: il racconto di una storia e qualche battuta di commento, per mostrare fino a che punto essa è davvero composta di tre storie.

    Una storia come esempio

    La storia scelta è molto nota: l’invito alla conversione che Natan rivolge a Davide.
    Davide, come tutti noi, ogni tanto si lasciava andare. Questa volta però non aveva davvero badato a spese.
    La signora Bersabea aveva preso l’abitudine birichina di farsi il bagno in terrazza. A forza di sbirciarla, Davide se n’era invaghito cotto e cercava follemente il modo di portare a compimento il suo progetto di seduzione.
    Sapeva di avere un’immagine da difendere e delle esigenze pubbliche da rispettare. Non se la sentiva però di rinunciare a Bersabea. Tenta così... la via diplomatica.
    S’informa alla lontana sulla situazione matrimoniale di quella bella signora. Viene a scoprire che il marito di Bersabea, generale dell’esercito di Davide, era fuori sede, impegnato a combattere.
    Un po’ alla volta a Davide le idee di schiariscono. Non può sposare una donna già maritata. Può però sposare una vedova. Ci avrebbe fatto persino della bella figura: lui, il re, preferire una vedova ai mille facili partiti... «Che bravo il nostro re»: l’avrebbero detto tutti. Così si ritrovava, nello stesso piatto, Bersabea e l’applauso.
    La strada è trovata. Resta solo un ostacolo: Uria, il marito di Bersabea, è vivo e vegeto e combatte da leone in prima linea.
    È vivo... anzi, era vivo. Organizzandosi un pochino, può diventare un eroe di guerra, medaglia d’oro al valore militare... da consegnare a Bersabea, come ricordo del marito, caduto in guerra, prima della festa di nozze.
    Il re Davide dà qualche ordine ad amici fidati. «Mettete Uria nel centro della battaglia, là dove i nemici sono più agguerriti. Lasciatelo solo. Fate in modo che muoia da eroe».
    Purtroppo gli danno retta e Bersabea si trova con una medaglia in più e un marito in meno.
    Finito il lutto, scatta la proposta di matrimonio. Feste solenni e tutto torna come prima. Davide è contento. Bersabea si è presto consolata. La gente di Gerusalemme parla bene della generosità del suo re. Il futuro è ricco di prospettive felici.
    Natan, il profeta, è l’unico a non essere soddisfatto degli avvenimenti. Non gli va giù né l’avventura poco pulita né il lieto fine a cui è giunta.
    Da buon educatore, deve denunciare l’accaduto e chiedere a Davide di cambiare vita. Che razza di profeta sarebbe se, anche lui, si rassegnasse al silenzio... Sente la responsabilità di intervenire. Non può però tuonare come un forsennato. Una brutta fine non gliela avrebbe tolta nessuno. Soprattutto però – cosa peggiore – nessuna conversione in vista, eliminato quel piantagrane del profeta scomodo.
    Chiede udienza. L’ottiene. Si presenta a Davide con un sorriso accattivante.
    «Davide, parlano tutti molto bene di te. Sono contento... perché è vero. Sei un ottimo re. Ami la giustizia. La difendi, la fai osservare e l’osservi tu stesso. Sei una benedizione di Dio sul nostro popolo».
    Non ha detto cose false. Bersabea a parte, Davide era davvero un re quasi perfetto.
    Davide lo ascolta compiaciuto. Avrà persino pensato: «Natan è un uomo prezioso e fidato. Sa denunciare e lodare. Devo valutarlo un po’ di più».
    «Senti, Davide... voglio confidarti un cruccio. Sono stato testimone di un fatto che sta inquietandomi. Vedi se puoi farci qualcosa...». E racconta: «Conosco un uomo che aveva cento pecore. Un giorno, un amico è andato a trovarlo. Se la sono raccontata a lungo, perché erano mesi che non si incontravano. All’ora del pranzo, quello delle cento pecore invita l’amico a fermarsi. Gli promette un ottimo pranzo a base di pecora arrosto.
    Fin qui tutto bene. È vero. Mi inquieta quello che segue.
    Pensa, Davide... aveva cento pecore... per far festa all’amico ha depredato la pecora di un vicino. Quel poveretto ne aveva una sola. La teneva cara come fosse un figlio. E lui, che ne aveva cento, gliel’ha rubata per far festa all’amico...».
    Davide diventa rosso come il fuoco: «Ha fatto così... quel disgraziato? Possibile? Sei sicuro? La sua colpa è gravissima. Quell’uomo deve morire. Natan... dimmi il nome. Ci penso io. Subito».
    Natan lo guarda in silenzio. Davide è sconvolto. L’ingiustizia commessa l’ha mandato su tutte le furie. «Natan, il nome... quell’uomo va punito, subito e senza pietà».
    Natan guarda ancora Davide. Poi, deciso, rompe il silenzio: «Davide, quell’uomo sei tu». Davide crolla. Nella foga aveva estratto la spada e la brandiva come se avesse davanti uno stuolo di nemici. La rimette nel fodero, triste e sconsolato.
    «È vero, quell’uomo sono io... perché ho fatto così... io, l’unto del Signore. Natan, grazie. Aiutami a rimettere le cose a posto».
    Forse, con la stessa foga con cui stava maneggiando la spada qualche attimo prima, ha preso in mano la cetra e ha cantato, con voce struggente: «Pietà di me, Signore... contro di te ho peccato... cancella la mia colpa».

    Qualche commento

    Molte indicazioni sono evidenti dal racconto stesso.
    Se non lo fossero, la responsabilità cadrebbe sul racconto.
    Non possiamo, infatti, dichiarare la forza evocativa della narrazione in prospettiva educativa, ricorrendo poi a lunghe spiegazioni per far recuperare quello che il racconto non è riuscito a suggerire.
    Il commento ha solo la funzione di rilanciare alcuni elementi.

    * La narrazione non è una semplice descrizione.
    Incominciamo dalla distinzione tra narrazione e descrizione. Essa riprende quella già più volte ricordata, tra «formazione» e «diffusione di informazioni». Colui che è chiamato a commentare un episodio della storia o chi insegna ad altri un teorema di geometria, deve attenersi ai fatti e li deve presentare con chiarezza e oggettività. Compie il suo dovere comunicativo quando dice correttamente le cose che deve dire. L’entusiasmo e il coinvolgimento appassionato non gli sono richiesti; possono persino risultare negativi, quando rischiano di travolgere lo spessore dei dati di fatto.
    La descrizione rappresenta, infatti, realtà esistenti (ambienti, paesaggi, personaggi, informazioni), lontane o sconosciute; le strappa, in qualche modo, dal loro tempo naturale e dal loro spazio logico, per porle «davanti» a qualcuno. Per fare questo dà informazioni, scatena la capacità immaginifica, induge su certi particolari, assicura «spettacolo».
    Basta pensare ad un reportage televisivo, alle pagine di un buon romanzo, ai giochi di parole che trasportano lontano, fino a rendere la persona «dentro» i fatti descritti. Nel caldo confortevole della nostra stanza o sprofondati in una comoda poltrona, ci sentiamo in prima fila ad ammirare avventure lontane, avvenimenti lieti o tristi che, in fondo, coinvolgono solo la nostra fantasia e appagano la nostra curiosità.
    Le cose descritte non ci toccano: restiamo fuori dal raggio mortifero delle armi da guerra o ci immergiamo solo con il desiderio nelle acque trasparenti di mari proibiti alle nostre concrete possibilità.
    Quando c’è di mezzo la vita e la speranza, quando cioè si toccano veramente le soglie della formazione, tutto questo non è sufficiente. La narrazione percorre sentieri comunicativi molto diversi.
    Gli eventi che essa rappresenta sono sprofondati in un tempo lontano; diventano però nell’atto narrativo vicini e contemporanei al narratore e a coloro a cui la narrazione è rivolta. La contemporaneità e la vicinanza non viene assicurata dall’abbondanza dei particolari descrittivi o dalla vivacità spettacolare con cui sono riattualizzati. È assicurata invece sul fatto che si sta concretamente parlando delle storie vitali del narratore e degli interlocutori, nel racconto di una storia lontana nel tempo e tanto presente da diventare un pezzo della nostra esistenza.
    Chi racconta la storia felice di Gesù che moltiplica il pane per sfamare coloro che l’avevano seguito dimenticando tutto, non rende vivo e attuale il racconto perché riesce a descrivere bene l’erba fresca di primavera e le dolci colline che scivolano verso il lago di Genezareth. Lo rende attuale perché riesce a far coincidere la fame degli amici di Gesù con la nostra quotidiana fame e perché sollecita ciascuno a schierarsi sulla provocazione inquietante di colui che ha sfamato sé e gli altri perché ha deciso di rischiare nella condivisione dei pochi pani che si era portato come provvista. È una storia nostra quella raccontata; tra la folla ci siamo ritrovati anche noi, divisi tra la ricerca affannosa di possesso e il desiderio sincero di spartire tutto.
    Raccontandoci di quell’uomo egoista che ha sacrificato l’unica pecora del vicino per preparare un banchetto di festa all’ospite gradito, lui che di pecore ne aveva almeno cento, ci sentiamo chiamati personalmente in causa. Raccontiamo questa storia di sopraffazioni e di pentimenti non per far rivivere una pagina famosa della storia del popolo ebraico. Non ci interessa sapere se le cose sono andate davvero così o se Natan si è inventato tutto per mettere meglio in crisi Davide.
    Come è capitato a Davide, ci accorgiamo che nel racconto del profeta c’è una pagina della nostra vita, che di pecore ne abbiamo sottratto tante all’affetto e alla fame dei poveri, magari con l’intenzione di organizzare meglio la festa.
    La narrazione propone avvenimenti che hanno protagonisti precisi e concreti, con un nome e una collocazione storica. Ma sono così vicini ai nostri avvenimenti che nel loro volto traspare in filigrana il volto di chi narra e di coloro a cui si narra. La drammaticità, positiva o negativa, degli avvenimenti è tanto incalzante, che ce la sentiamo sempre addosso: non esiste spazio protetto e sicuro.

    * La narrazione colloca il presente tra passato e futuro.
    Nella narrazione, il narratore e gli ascoltatori travolgono, nella loro esperienza, la scansione cronologica che scandisce oggettivamente i fatti. Gli avvenimenti sono isolati, selezionati, organizzati secondo un flusso che li lancia tutti nel presente. Passato e futuro, radici e progetti, esistono e sono ben decifrabili. Ma ormai hanno segnato tanto intensamente il presente dell’evento narrativo che ciascuno si sente dentro la storia raccontata.
    Quella storia, che ha un inizio e una fine, è diventata la «nostra» storia: un pezzo significativo della nostra esistenza. Il racconto è quindi, nello stesso tempo, immaginario e reale. Ci sono frammenti di una storia lontana nel tempo, frammisti a pezzi importanti della storia personale e collettiva di oggi. L’intreccio non risulta stonato, come potrebbe figurare l’orologio al polso di qualche personaggio distratto in una scenografia dell’antica Roma. Fa invece parte della storia narrata, che è di un tempo e di oggi, intessuta di ricordi lontani (i fatti «oggettivi», che fondano la forza salvifica del racconto) e di allusioni ai fatti reali del narratore e dei destinatari, alle loro angosce e speranze, ai loro desideri e difficoltà.

    * La narrazione fa «fare esperienza».
    L’esito di questo rapporto nuovo tra il fatto e il suo narratore, in un intreccio originale di passato, presente e futuro, permette di cogliere un’altra importante qualità della narrazione: narrando, facciamo esperienza diretta di ciò che viene narrato.
    La narrazione suscita un’esperienza intensa nel destinatario del racconto, perché lo pone a contatto con altre esperienze, egualmente intense e coinvolgenti. Lo fa attraverso strumentazioni che sono tipiche del far fare esperienza. Evoca, nel ricordo, l’esperienza «drammatica» dei fatti del passato. Propone il vissuto del narratore: quello che egli racconta è anche parte della sua vita; per questo comunica in un coinvolgimento, caldo e appassionato. Sollecita, nell’atto stesso del narrare, l’esperienza del destinatario, attraverso mille concrete allusioni alla sua vita, fino a farlo esclamare, magari solo nel silenzio dello stupore: come mai si sta parlando di me?
    La narrazione diventa così una comunicazione totale: un’esperienza suscitatrice di nuove esperienze. Il richiamo al presente ha funzionato su una chiara prospettiva educativa, lontanissima da quella preoccupazione conoscitiva o soltanto ludica che caratterizza la descrizione.

    * E le tre storie?
    Nella narrazione sono presenti differenti storie: questo appare immediatamente. Le diverse storie sono però tanto intrecciate da risultare difficile tentare di districarle. Soprattutto risulta veramente difficile dichiarare dove finisce la parabola e incomincia la realtà e quale fetta del racconto si riferisce unicamente a personaggi del passato e quale invece ha come protagonista il narratore e coloro cui la narrazione è rivolta.
    Ripercorriamo la storia di Natan e di Davide.
    Per qualche momento, Davide si è sentito coinvolto nella sua responsabilità istituzionale di difensore della giustizia. Lui era apposto. Gli mancava solo di compiere bene il proprio dovere di giudice. Così ha cercato elementi per identificare il colpevole e punirlo adeguatamente. Poi, all’improvviso, ha scoperto che quella era la sua storia. L’ha scoperto da solo, come un lampo di luce improvvisa... anche se le ultime battute di Natan hanno dato il tracollo.
    Non si è più preoccupato di verificare i fatti narrati; i particolari non gli interessano più, nel modo più assoluto. Erano veri, perché li aveva vissuti in prima persona.
    La conversione nasce dall’interno: l’esperienza della verità trascina al pentimento e al risarcimento. Se Natan si fosse presentato al suo re con un pacchetto di rimproveri e di raccomandazioni, Davide avrebbe saputo difendersi. Poteva anche chiudergli violentemente la bocca. Non può però far tacere il grido della sua vita, adesso che ha scoperto tutta la sua storia.
    Natan ha giocato bene.
    Scegliendo di passare dalla denuncia al racconto, ha accettato il rischio di coinvolgersi lui stesso nell’avventura del tradimento. Anche lui aveva rubato... tante volte qualche pecora al vicino.
    Nessuno però gli poteva imporre il silenzio, chiedendogli rabbiosamente di pensare ai fatti suoi. Il rischio l’aveva già accettato in anticipo, raccontando per Davide un pezzo della sua storia.
    Soprattutto, prima di Davide, di Natan, della pecora sottratta al povero per la tracotanza del potente, stanno le esigenze insopprimibili della giustizia, della solidarietà, della vita e del suo senso. Non sono gridate: non sono sempre chiare e non ci piace farcele risuonare troppo perentorie sulla nostra personale esperienza. Sono evocate: pronunciate con forza e lasciate alla risonanza personale.
    Nella evocazione del racconto, le esigenze della solidarietà e della responsabilità ritrovano quella capacità trasformatrice e provocatrice che ogni buon progetto formativo esige.

    Condizioni per un buona narrazione

    La relazione educativa non funziona mai in maniera automatica, quasi bastasse fare le cose in un certo stile per poter contare sui risultati. Qualche volta riusciamo ad ottenere esiti soddisfacenti anche attraverso procedure poco corrette; altre volte, invece, riusciamo a mettere tutto in crisi anche quando abbiamo utilizzato lo strumento più raffinato.
    È una fortuna costatare che le cose vadano in questo modo: ci libera dallo scoraggiamento, dall’efficientismo e dal pragmatismo.
    Non possiamo però affidarci alla fortuna, visto che tanto qualcosa capiterà di sicuro. Quando c’è di mezzo la vita e la speranza di tutti, come nel nostro caso, la buona volontà si sposa con la competenza e la consapevolezza dell’imprevedibilità dà la mano alla fatica di consolidare tutte le condizioni che rendano meno fragile il processo.
    In questa prospettiva suggeriamo alcuni atteggiamenti, cui sono interessati tutti i partners della comunicazione. Solo quando la comunicazione narrativa può contare su queste condizioni, essa diventa vera narrazione, capace di risolvere quel problema educativo che ci sta a cuore.
    Esaminiamo rapidamente queste condizioni.

    La narrazione come ospitalità

    La narrazione autentica, quella che assicura lo scambio di ragioni di vita e di speranza che l’educazione esige, è una forma avanzata di ospitalità. Chi narra invita coloro a cui la narrazione è rivolta ad entrare nel suo mondo e si dichiara disponibile ad interagire con il mondo dei suoi ascoltatori: accoglie nel suo mondo e si fa accogliere in quello degli interlocutori.
    L’abbiamo sperimentato tutti, ogni giorno. Ci sono persone che quando parlano sembrano abbracciare il proprio interlocutore, in un incontro appassionato che ha il sapore gioioso dell’accoglienza incondizionata; e ce ne sono altre invece che, dicendo magari le stesse cose, giudicano nelle parole pronunciate e condannano impietosamente.
    Figure tipiche di questo atteggiamento così diverso sono i due personaggi della grande storia dell’accoglienza, raccontata da Gesù: il padre e il fratello maggiore della parabola così detta del «figlio prodigo» (Lc 15, 11-32). Quando il ragazzo scappato di casa ritorna, il padre lo accoglie con un profondo abbraccio di pace e di riconciliazione. Non gli fa nessun rimprovero; non permette al ragazzo neppure una parola di pentimento. Non agisce così per rassegnazione e per indifferenza; e neppure certamente perché ha paura di rovinare tutto, adesso che le cose sono tornate alla normalità. La colpa è stata gravissima. Ha prodotto sofferenze pungenti in tutti. Il padre non può chiudere un occhio, come se non fosse successo nulla. Non è questo lo stile di Dio verso il peccato dell’uomo, che Gesù ci ha rivelato. A chi ha provocato tanto dolore, il padre rinfaccia il suo tradimento con la parola più dolce e inquietante possibile: l’abbraccio della gioia e della festa.
    Il figlio maggiore contesta questo comportamento, rinfacciando la cattiva condotta del fratello. Ricorda la disobbedienza del fratello e sottolinea il suo tradimento. La sua parola è dura: un giudizio di condanna senza appello. Il padre, invece, «ospita» il figlio tornato finalmente tra le sue braccia. Non mette una pietra sul passato, ma neppure lo rivanga con l’acredine di chi si vuole vendicare. Certo, non può dimenticare quello che è successo né può rassegnarsi a lasciare il figlio nel suo vecchio modello di esistenza.
    Lo vuole diverso, trasformato dentro e nuovo nei comportamenti. Per rinfacciare al figlio la sua condotta ingiusta, sceglie una strada insolita: non accusa né rimprovera, ma accoglie. Il suo dolore e la gioia del ritrovamento diventano abbraccio e festa.
    Questo è lo stile di comunicazione che l’espressione «ospitalità» vuole evocare. La qualità nuova di vita non nasce sulla congruenza logica delle informazioni; né si radica sulla loro verità. Le accuse fatte dal figlio maggiore erano terribilmente vere. Siamo restituiti alla vita, come lo è stato tra le braccia del padre il ragazzo fuggito di casa, perché il gesto che accompagna le parole e il loro tono ci permettono di sperimentarne tutta l’autenticità.
    L’ospitalità, suscitata e sperimentata nello stile della comunicazione, «interpreta» i contenuti fatti circolare, li rende significativi e veri.
    L’esempio raccontato è prezioso per comprendere un’urgenza che non può assolutamente essere disattesa. Sarebbe fuorviante interpretare le esigenze della ospitalità come un tentativo di appiattire le differenze o di banalizzare le responsabilità.
    In questo caso, la comunicazione perde inesorabilmente la sua qualità educativa. Diventa inutile e inconcludente: un vuoto rincorrersi di suoni e di immagini, che ci lasciano nel greve sapore della morte, personale e collettiva.
    La parola si misura con la verità e con le sue esigenze. La sostiene. La difende. La propone. Lo fa con quell’indice alto di autorevolezza che è richiesto in colui che inizia il processo. Si tratta infatti di spingere a superare il già acquisito per immettere in modo personale nel mondo dell’inedito. La comunicazione educativa non pone sotto silenzio quello che giudica le singole soggettività: un simile compromesso collocherebbe subito dalla parte della morte.
    La parola, esigente e inquietante, non viene pronunciata però in modo duro, sicuro, autoritario, solo a partire dalla pretesa che le cose dette sono «vere». È racconto, accogliente e ospitante in cui si intrecciano le esigenze più irrinunciabili con l’esperienza, sofferta e sognata di chi parla e di chi ascolta.

    La narrazione come invito alla decisione

    Queste note aprono verso una seconda condizione: la capacità di esprimere un invito pressante verso una decisione.
    Ci sono delle comunicazioni che lasciano il tempo che hanno trovato. Le informazioni scambiate non entrano mai nel mondo interiore degli interlocutori. Non danno senso all’esistenza né chiedono di verificare il valore di quello condiviso. Semplicemente servono a coprire un tempo vuoto. Non si avverte il disagio di una comunicazione tanto impersonale, perché non interessa a nessuno né il suo contenuto né la relazione in cui esso scorre.
    La comunicazione educativa, invece, vuole incidere: cerca uno scambio, sincero e disponibile, sul senso dell’esistenza.
    La narrazione rappresenta un modello comunicativo, orientato da una metacomunicazione di questo tipo: «Bada! Sta attento a quello che viene detto! È importante per la tua vita!».
    Lo stretto legame che lega gli avvenimenti raccontati al fluire del tempo, intrecciando nella storia narrata il presente con il suo passato e il suo futuro, fa scaturire spontaneamente questo invito a «stare attento». Eventi insignificanti diventano esempi coinvolgenti. La storia raccontata appella all’interlocutore, con la stessa intensità con cui si sente coinvolto il narratore. Egli si sente piegato verso questa avventura; si rende conto di doverla accogliere in sé, proprio perché si sente «ospitato» nel racconto. Sono i fatti a chiedere attenzione, rispetto, disponibilità: fatti evocati in un’onda di emozioni, che porta ad «amarli», a sentirli «nostri», anche se hanno protagonisti lontani. Chi racconta, ama la realtà raccontata e la fa amare. Lo fa per la vita. Per questo chiede una decisione, raccontando storie.

    La narrazione come fonte di stupore

    La narrazione assicura comunicazione coinvolgente anche perché sa scatenare quel clima di stupore, che è condizione fondamentale per accettare di mettere in discussione il proprio mondo interiore e per affacciarsi a quello dell’altro, sconosciuto e indecifrabile sempre.
    Questo è un aspetto molto importante. Infatti, chi accetta di sperimentare la vertigine e il tremito dello stupore, sa esporsi all’inatteso. Non cerca solo le strade già note e quelle già sperimentate da una lunga dimestichezza. Si lascia invece sorprendere dall’ignoto.
    Di stupore ce ne vuole molto, quando ci si mette a giocare con il senso dell’esistenza e si costruiscono i frammenti di una speranza che sa resistere anche al timore e alla sconfitta della morte. La storia raccontata produce stupore e speranza, perché finisce imprevedibilmente: quando tutti i conti sembravano orientati in una direzione, le logiche si capovolgono improvvisamente e felicemente. L’esito felice è proprio quell’esperienza di ospitalità che la narrazione suscita e sostiene. Ci si aspettava di tutto, perché ci si meritava di tutto... e invece viene sperimentata la gioia dell’incontro, dell’accoglienza, della festa. Raccontare è quindi riproporre una interpretazione della vita, riproducendo quello che è accaduto e, addirittura, inventando quello che si sogna possa accadere. E questo con una sequenza che non è mai «questa e solo questa», come quando si cerca di dimostrare un teorema di matematica o una legge di fisica.
    Nell’infinito susseguirsi dei tanti possibili eventi del reale, il racconto ne sceglie alcuni e li organizza in una proposta che continua a restare «racconto»: un modo soggettivo e autoimplicativo di porsi di fronte ad una realtà che viene riconosciuta più grande e solenne di quella raccontata.
    L’incontro non si chiude nel semplice gioco di due soggettività, con il rischio di intristire in un sostegno reciproco che assomiglia tanto alla disponibilità del cieco a diventare guida di un altro cieco.
    Il racconto immerge, al contrario, nel mistero del tempo, tra passato e futuro, in avvenimenti vissuti e sognati che danno consistenza alla speranza, in un incontro solidale tra persone che vivono una storia comune, partecipando al racconto.

    LA METAFORA COME TERAPIA

    Spesso i testi che parlano della narrazione e della sua funzione di promozione della vita e della speranza citano un racconto che proviene dalla letteratura chassidica. Lo ricordiamo, in conclusione, perché ci aiuta ad introdurre un’ultima nota di respiro globale.
    Ecco il racconto: «Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato alla scuola di Baalschem, di raccontare una storia. Una storia, egli disse, la si deve narrare in modo che possa essere d’aiuto. E raccontò: Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalschem, quando pregava, saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, cantando e ballando lui pure. E così, dopo un’ora, era guarito. È questo il modo di raccontare storie».
    Il racconto del rabbino ha una capacità terapeutica formidabile. Restituisce al povero paralitico la padronanza piena delle sue gambe, fino a renderlo capace di saltare e ballare. Si tratta di un caso anomalo o, invece, potrebbe rappresentare la funzione normale di ogni buon racconto?
    Certamente non è facile rispondere in modo affermativo quando ci si trova di fronte a situazioni di disagio e di malattia fisica. Può rappresentare invece un modello abbastanza normale quando le ragioni del disagio sono interiori, legate ad una disfunzione che si annida nei recessi più intimi dell’esistenza personale. Del resto, lo stato di orfanità, di cui si è parlato in apertura, non rappresenta una situazione fisica, ma culturale. Per questo il nostro invito non è rivolto a costruire istituzioni di accoglienza… ma a riaffermare l’urgenza dell’educazione. In questa logica suggeriamo le condizioni che fanno del racconto una proposta terapeutica e le tappe che le possono assicurare. La nostra è una scommessa, radicata su esperienze e consolidata da riflessioni… ma sempre una semplice scommessa educativa. Possiamo tentare e alla prova dei fatti possiamo poi valutare.

    Le condizioni per la metafora terapeutica

    Alcuni racconti hanno la capacità di aiutare le persone ad individuare quei cambiamenti personali necessari alla soluzione dei problemi che stanno vivendo e che ostacolano la loro pienezza di vita. La loro efficacia si basa sul fatto che essi sono una buona metafora della situazione esistenziale di chi ascolta.
    In altre parole, i racconti diventano capaci di produrre cambiamenti quando ciò che viene narrato serve a ricordare ciò che è vissuto dall’ascoltatore, anche se i termini, le figure e le espressioni sembrano portare verso altre realtà. Il racconto può narrare di luoghi e di persone remote nel tempo e nello spazio o addirittura appartenenti al regno della fantasia; di fatto, però, esso esprime un pezzo della storia vissuta dall’ascoltatore, tanto convincente che la conclusione a cui approda il racconto può essere una buona soluzione anche dei propri personali problemi. La metafora infatti è un modo di raccontare «in cui una cosa è espressa nei termini di un’altra cosa, così che questa riunione possa gettare nuova luce sul carattere di ciò che viene descritto» (S. Kopp).
    Non basta, di certo, qualsiasi racconto. Sulla scorta dell’esperienza e della letteratura, proponiamo cinque caratteristiche come condizioni decisive.

    La buona formazione della metafora

    La prima condizione riguarda la struttura semantica della metafora. Il racconto funziona come terapeutico solo se la sua struttura metaforica è formata adeguatamente.
    Per essere ben formata una metafora deve contenere una soluzione del problema che sia effettivamente alla portata della possibilità dell’ascoltatore. Questi deve, cioè, sentire che i cambiamenti che il racconto gli propone sono sotto il suo controllo, appartengono al dominio delle cose che lui e le altre persone coinvolte nella situazione esistenziale problematica possono realmente fare.
    Una metafora che propone una soluzione del problema distante dalle effettive possibilità dell’ascoltatore è, infatti, priva di efficacia; in alcuni casi può diventare persino controproducente.

    L’isomorfismo

    La seconda condizione viene espressa con una espressione un po’ sibillina. Serve a ricordare bene una esigenza importante.
    La spieghiamo.
    I personaggi, i loro rapporti reciproci, gli eventi della narrazione metaforica debbono avere una corrispondenza, quasi puntuale, con la situazione che vive l’ascoltatore. Anche se gli eventi narrati sono diversi da quelli vissuti e sono magari collocati lontano nel tempo o sono di fatto soltanto frutto di fantasia, essi però di fatto riprendono, in modo metaforico, quello che la persona sta vivendo in concreto, in quel frammento di vita quotidiana che gli sta facendo nascere i problemi.
    Isomorfismo vuol dire infatti possesso della stessa formula, coincidenza perfetta anche nella apparente differenza.

    Il risultato desiderato

    La terza condizione riguarda il rapporto tra il risultato suggerito dal racconto e quello desiderato dall’ascoltatore.
    Il racconto è terapeutico quando la soluzione del problema che viene proposta dalla metafora viene sperimentata come vicina, non «estranea» rispetto alle attese dell’ascoltatore. La forza del racconto sta nel fatto che egli intuisce come la soluzione prospettata è effettivamente quella che lui desidera.
    Questo non vuol dire che il racconto debba essere manipolatorio, ma solo che deve riuscire a far distaccare l’ascoltatore dalla pressione emotiva della situazione che sta vivendo e consentirgli di osservarla con maggior «freddezza» e «razionalità» o semplicemente da un punto di vista emozionale più positivo e costruttivo.

    La strategia di collegamento

    Con questa espressione si intende indicare la congiunzione tra il problema esistenziale dell’ascoltatore e la sua soluzione.
    Anche questa condizione merita una rapida nota di chiarificazione e di commento.
    Ogni racconto propone un problema e suggerisce una soluzione. Tra problema e soluzione esiste sempre una certa discontinuità: per questo uscire dal problema richiede sempre il rischio della decisione e della responsabilità personale. La questione però sta nel livello di discontinuità. Se esso è eccessivo e si avverte un salto troppo brusco dal problema alla soluzione, difficilmente il racconto spinge a ricercare la soluzione proposta, perché è difficilissimo cambiare i propri atteggiamenti e comportamenti in modo repentino.
    La strategia di collegamento offre invece dei suggerimenti intorno al percorso da compiere per realizzare un duraturo e significativo cambiamento. Non solo spinge a cogliere la soluzione come possibile e praticabile, ma soprattutto indica alcuni comportamenti intermedi che è necessario acquisire per poter mettere in atto il comportamento risolutivo del problema esistenziale.
    Questa strategia si basa su una specie di continua calibratura della situazione. In pratica questa azione è costituita dal fatto che il racconto riesce a:
    – far percepire a chi lo ascolta che la sua impossibilità di rispondere in modo positivo al problema che sta vivendo è dovuta al fatto che le varie parti che formano la situazione che vive non sono nella giusta proporzione. La sua situazione è cioè come quella di chi cerca di produrre un buon dolce utilizzando una ricetta di cucina e sbaglia la proporzione: gli ingredienti ci sono tutti ma il loro missaggio è sbagliato;
    – suggerire all’ascoltatore la scelta dei mezzi e delle attività necessarie per riproporzionare le parti che formano la situazione esistenziale problematica.

    La riconfigurazione

    E così siamo giunti all’ultima condizione: la riconfigurazione.
    L’espressione ricorda l’esigenza di ogni metafora terapeutica di aiutare l’ascoltatore a rileggere una sua precedente esperienza di vita dolorosa e indesiderata in modo tale da rimodellarla, trasformandola in una esperienza utile e costruttiva.
    La riconfigurazione si basa sulla constatazione che non vi sono esperienze, atteggiamenti, comportamenti positivi o negativi in modo assoluto. Essi, al contrario, ritrovano una loro positività o negatività dal contesto e dal momento in cui essi sono espressi. Una cosa buona, in un certo momento e in un certo luogo, è cattiva, mentre una cattiva può diventare buona in un altro momento o in un altro luogo.
    Un esempio può chiarire l’affermazione e i compiti che da essa scaturiscono, aiutando a scoprire che non stiamo parlando di relativizzazione dell’etica, ma di ricomprensione delle normali esperienze di vita.
    Manifestare, per esempio, la propria rabbia in una certa situazione può essere produttivo, mentre in un’altra situazione è assolutamente improduttivo se non deleterio.
    Riconfigurare la propria vita significa acquisire la capacità di esprimere i propri atteggiamenti e comportamenti in modo appropriato alla situazione. Il racconto deve perciò aiutare la persona ad apprendere dall’esperienza: a rendersi conto che un dato comportamento in una data situazione esistenziale non è adeguato mentre può esserlo in un’altra situazione.

    La costruzione della metafora terapeutica

    Abbiamo delineato, con qualche rapida nota, le caratteristiche che deve possedere una buona metafora terapeutica. L’impegno educativo non si limita a considerare le esigenze, ma cerca una immediata traduzione in processi. Con questa preoccupazione ricordiamo le tappe su cui si distende la costruzione di una metafora terapeutica. Le note sono schematiche, per forza di cose. Chi le legge con attenzione, costata facilmente che esse contengono una serie di indicazioni utili per costruire racconti. Sono, in ultima analisi, una proposta operativa sul come impostare un processo educativo in stile narrativo.

    La raccolta delle informazioni

    Prima di costruire una metafora è necessario raccogliere un insieme approfondito di informazioni su:
    – chi sono le persone significative coinvolte nel problema esistenziale delle persone o del gruppo di persone che lo vive e sui loro rapporti interpersonali;
    – gli elementi costitutivi della situazione esistenziale che è all’origine del problema;
    – i cambiamenti che la persona o le persone coinvolte nel problema intendono compiere per risolverlo verificando che essi siano appropriati e ben formulati;
    – ciò che la stessa o le stesse persone hanno già fatto in passato per affrontare il problema oppure ciò che la o le trattiene dal compiere i cambiamenti desiderati.

    La costruzione della metafora

    Raccolte le informazioni necessarie si può passare alla costruzione vera e propria della metafora:
    – scegliendo il contesto: la collocazione di spazio e di tempo e la struttura simbolica della storia;
    – creando i personaggi e l’intreccio in modo che siano coerenti con il contesto e che nello stesso tempo siano isomorfi con la situazione reale, quale risulta dalle informazioni prima raccolte;
    – predisponendo una soluzione al problema che includa la ricalibratura e la riconfigurazione della situazione originaria.

    Il racconto

    La forza terapeutica del racconto poggia sulla possibilità che chi l’ascolta riesca a dare senso agli eventi che la metafora descrive incorporandoli nel proprio mondo. In questa particolare narrazione l’educatore deve creare un racconto che la persona possa vivere nel suo mondo. È anche questo un modo di realizzare quell’ospitalità accogliente che la narrazione esige e realizza. Spesso infatti siamo sottratti a noi stessi, costretti a vivere fuori di noi per il clima che ci circonda. Nel racconto, il narratore ospita il destinatario, restituendolo alla gioia di abitare il proprio mondo.
    Per assicurare questa esigenza, il racconto deve possedere un livello di indeterminazione tale da rendere possibile la proiezione in esso del mondo dell’ascoltatore. Alcune condizioni operative rendono possibile questo tipo di indeterminazione. Ne ricordiamo tre: la mancanza di indici referenziali, l’uso di verbi non specificati, le nominalizzazioni e l’incorporamento nel racconto di comandi e contrassegni.
    Ci spieghiamo, indicando il senso dell’affermazione e soprattutto i compiti che da esso scaturiscono. La mancanza di indici referenziali si ottiene facendo in modo che nelle parti del racconto in cui la specificazione di un nome o di un luogo non è essenziale allo sviluppo della storia, questo sia sostituita da un pronome o da una indicazione generica. L’assenza di indici referenziali consente all’ascoltatore di determinare lui stesso il nome e/o il luogo, favorendo, quindi, la sua proiezione nella storia.
    Ecco un esempio. Una frase con indici referenziali è la seguente: «Giovanni si era nascosto nel ripostiglio». La stessa frase senza indici referenziali diviene. «Qualcuno si nascondeva da qualche parte nella casa». Anche i verbi possono essere più o meno dotati di indici referenziali. Se per le parole non specificate da un indice referenziale è spontaneo il chiedersi «chi?», «che cosa?» e «dove?», per i verbi non specificati è altrettanto naturale chiedersi «come?» e «in che modo?», in quanto i verbi descrivono appunto come e perché una qualche azione si produce.
    Anche per i verbi non specificati vale la regola già indicata per i nomi privi di indice referenziale: la non specificazione del verbo non deve disturbare la narrazione e deve favorire la proiezione dell’ascoltatore. Riprendiamo l’esempio precedente. Un’azione in cui il verbo non è specificato potrebbe essere la seguente: «Andrea entrò nel ripostiglio»; mentre quella in cui il verbo è specificato potrebbe essere: «Andrea aprì la porta del ripostiglio con circospezione e poi balzò all’interno furiosamente rinchiudendo la porta alle proprie spalle con un violento calcio».
    Spesso per neutralizzare i riflessi emotivi di alcune esperienze personali si trasforma un processo, quindi un qualcosa di dinamico e molto personale, in una cosa o in un evento, ossia in qualcosa di statico e un po’ più impersonale. È infatti diverso dire «ero davvero furioso» rispetto a «avevo una furia in me». Il processo immateriale privo di sostanza diviene in questo modo una cosa dotata di una sua materialità che può essere sottoposta ad una sorta di anatomia. Il nome di questa azione linguistica di trasformazione del processo in cosa è quello di nominalizzazione. Se questa azione è sconsigliabile nelle relazioni con gli altri e con se stessi in quanto cancella importanti significati, è indubbiamente utile nel racconto metaforico, perché consente a chi ascolta il racconto di trasformare la cosa nominalizzata in un processo a sua scelta.
    Nel racconto metaforico è, infine, assai importante richiamare l’attenzione dell’ascoltatore su un suggerimento particolare.
    In questo caso si deve inserire nella frase che contiene il suggerimento, un comando che è costituito dal nome dell’ascoltatore o da un pronome personale. Un esempio di frase con comandi incorporati può essere il seguente: «Dopo un lungo periodo di torpore Gianni si decise ad agire per trarsi da quella situazione». La frase senza questi comandi sarebbe stata: «Dopo un lungo periodo di torpore si decise ad agire per trarsi da quella situazione».

    EDUCARE – NARRARE – ANIMARE

    Abbiamo disegnato un modello rinnovato di relazione educativa. Esso ha la pretesa di collocarsi nel cuore dei problemi e delle sfide che l’attuale situazione culturale lancia a chi sta dalla parte della vita e della speranza e, per questo, crede con forza all’educazione.
    L’educatore è impegnato a produrre vita attorno a sé, giocando tutte le risorse per restringere il cerchio soffocante della morte. Sa che la vita è come un piccolo seme, capace di autodeterminarsi progressivamente per la forza che si porta dentro, quando sono rispettate e protette le condizioni che gli permettono di esprimersi. Per questo, chi sta dalla parte della vita, non si sente mai «padrone» del processo educativo e cerca modalità che permettano di realizzare tutto questo secondo uno stile rinnovato di presenza e di relazione.
    Non mancano di certo né problemi né difficoltà.
    La passione per la vita e la speranza della sua vittoria non sono l’abito di circostanza che l’educatore assume quando è in servizio. Si esprimono nell’atto educativo solo se rappresentano lo stile quotidiano di vita. Ma questo pone problemi e getta in crisi.
    La morte investe la vita quotidiana dell’educatore, come quella di ogni uomo. La sua speranza frana spesso sotto il peso delle delusioni e delle incertezze. Persino le grosse parole «vita» e «morte» restano senza contenuti, quando ci si chiede in concreto: questo gesto è per la vita o favorisce la morte?
    Questo è il dramma quotidiano dell’educatore: è costretto a dire parole e a produrre gesti che gli cadono addosso come macigni. Parla e produce per gli altri. E si sente coinvolto lui, prima di tutto: perché parla di sé e per sé.
    Gli verrebbe voglia di tacere, rifugiandosi nel silenzio timoroso di chi rinuncia a parlare perché troppo consapevole della sua povertà. O si sente esposto alla tentazione di riversare sugli altri le sue crisi, trasformando i giovani in cavia dei suoi esperimenti.
    Chi crede all’educazione non è soddisfatto di questi esiti. Sente il dovere impellente di parlare e riempie le parole del timore e della speranza che traspaiono dalla sua esistenza.
    Rifiuta di estraniarsi tanto da sé, da riuscire a dire parole solo per gli altri. Anche lui però ha la sua piccola grande storia da raccontare.
    Per questo parla, con coraggio e fierezza. Spesso resta «solo»: a difendere appassionatamente la vita e la pretesa inquietante che essa si porta dentro. Ritrova in questa solitudine operosa la spinta a diventare sempre di più un uomo impegnato dalla parte della vita.
    Ponendo gesti concreti dalla parte della vita, fonda l’autorevolezza di cui ha bisogno per sollecitare verso l’ulteriore e l’inedito, aiutando a maturare secondo quel progetto di vita che è offerto a ciascuno come ipotesi normativa di autorealizzazione.
    Esprime questo suo servizio raccontando, in un’unica storia impegnativa e affascinante, la storia della vita, piena di pretese per chiunque voglia vivere, la sua storia personale, perché non riesce a parlare di vita se non trasformando in messaggio la sua quotidiana esperienza, la storia dei suoi interlocutori, a cui restituisce protagonismo e parola.
    In questi anni, felici e impegnativi, molti educatori stanno tentando esperienze nuove, per ridisegnare la qualità del loro servizio.
    Una formula ritorna con insistenza per descrivere questa nuova immagine: «fare educazione» è oggi per molti «fare animazione».
    Raccolta dalla letteratura specializzata, è stata ormai riempita di connotazioni caratterizzanti. Propone un punto di riferimento significativo, capace di suscitare impegni, responsabilità, prospettive di futuro, a chi crede alla vita e la vuole piena e abbondante per tutti; e per questo si impegna nell’educazione.

    PER APROFONDIRE LA RICERCA

    * Bourdieu P., La parola e il potere, Guida, Napoli 1988.
    * Centro di educazione alla mondialità, Per una pedagogia narrativa. Riflessioni, tracce, progetti, Editrice Missionaria Italiana, Bologna 1996.
    * Cravotta G. (ed.), Catechesi narrativa, Edizioni Dehoniane, Napoli 1985.
    * Della Torre L., Per una catechesi narrativa, Edizioni Paoline, Roma 1979.
    * Eliade M., Immagini e simboli, Jaca Book, Milano 1981.
    * Elias N., Saggio sul tempo, Il Mulino, Bologna 1986.
    * Ferroni G. (ed.), Modi del raccontare, Sellerio, Palermo 1987.
    * Foucault M., Le parole e le cose, Rizzoli, Milano 1967.
    * Fraser J. T., Il tempo, una presenza sconosciuta, Feltrinelli, Milano 1993.
    * Galimberti U., La terra senza il male, Feltrinelli, Milano 1984.
    * Gordon D. Metafore terapeutiche, Astrolabio, Roma 1992.
    * Halbfas H., Esperienza e linguaggio, (s. e.), Stuttgart 1975.
    * Jung C. G., L’uomo e i suoi simboli, Longanesi, Milano 1980.
    * Jüngel E., Verità metaforica, in: Ricoeur P. – Jüngel E., Dire Dio. Per un’ermeneutica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia 1979, 109-180.
    * Lanza S., La narrazione in catechesi, Edizioni Paoline, Roma 1985.
    * Lotman J., Testo e contesto, Laterza, Bari 1980.
    * Lyotard J. F., La condizione post-moderna, Feltrinelli, Milano 1982.
    * Molari C., Natura e ragioni di una teologia narrativa, in: Wacker B., Teologia narrativa, Queriniana, Brescia 1981, 7-29.
    * Ong J.W., La presenza della parola, Il Mulino, Bologna 1970.
    * Pollo M., Il gruppo come luogo di comunicazione educativa, Editrice Elle Di Ci, Leumann 1988.
    * Pollo M., Uomo, cultura e comunicazione, Piemme, Casale Monferrato 1986.
    * Ricoeur P., Tempo e racconto, Jaca Book, Milano 1983.
    * Scholes R. – Kellogg R., La natura della narrativa, Il Mulino, Bologna 1966.
    * Steffen U., Incontro col drago: immagini e simboli della lotta col male, Red, Como 1988.
    * Tonelli R. – Gallo L. – Pollo M., Narrare per aiutare a vivere. Narrazione e pastorale giovanile, Editrice Elle Di Ci, Leumann 1992.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


    Saper essere
    Competenze trasversali


    L'umano
    nella letteratura


    I sogni dei giovani x
    una Chiesa sinodale


    Strumenti e metodi
    per formare ancora


    Per una
    "buona" politica


    Sport e
    vita cristiana
    rubrica sport


    PROSEGUE DAL 2023


    Assetati d'eterno 
    Nostalgia di Dio e arte


    Abitare la Parola
    Incontrare Gesù


    Dove incontrare
    oggi il Signore


    PG: apprendistato
    alla vita cristiana


    Passeggiate nel
    mondo contemporaneo
     


    NOVITÀ ON LINE


    Di felicità, d'amore,
    di morte e altro
    (Dio compreso)
    Chiara e don Massimo


    Vent'anni di vantaggio
    Universitari in ricerca
    rubrica studio


    Storie di volontari
    A cura del SxS


    Voci dal
    mondo interiore
    A cura dei giovani MGS

    MGS-interiore


    Quello in cui crediamo
    Giovani e ricerca

    Rivista "Testimonianze"


    Universitari in ricerca
    Riflessioni e testimonianze FUCI


    Un "canone" letterario
    per i giovani oggi


    Sguardi in sala
    Tra cinema e teatro

    A cura del CGS


    Recensioni  
    e SEGNALAZIONI

    invetrina2

    Etty Hillesum
    una spiritualità
    per i giovani
     Etty


    Semi e cammini 
    di spiritualità
    Il senso nei frammenti
    spighe


    Ritratti di adolescenti
    A cura del MGS


     

    Main Menu