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    Anche incrociando statistiche si incontrano i giovani



    Giovanni Fedrigotti

    (NPG 1997-06-37)


    Gli educatori attenti ai problemi dei giovani sono stati testimoni in questi ultimi venti anni di uno slittamento linguistico, che rispecchia uno slittamento giovanile.
    In un primo tempo si parlava di drogati e di giovani emarginati, poi di giovani a rischio e di disagio diffuso: quasi a dire che la mentalità educativa e la prevenzione del disagio devono essere presenti ovunque. In un incontro sul tema dell’emarginazione, si affermava: «Sono emerse esigenze di intervento fino a pochi anni fa imprevedibili, che richiedono sviluppo di nuove professionalità ed impiego diverso delle risorse ed energie a disposizione. Vorremmo dire subito in partenza che il carattere di trasversalità del disagio nel mondo giovanile esige che l’attenzione disagio sia pure essa di tipo trasversale e vada quindi a spalmarsi sull’operatività di tutti i settori della pastorale giovanile».
    E ancora: «Pare naturale pensare che si dovrebbe essere uniti quando tutti si è a servizio di ragazzi e giovani, con manifestazioni di disagio, leggero o grave che sia, pressoché generalizzati».[1]

    Lettori del «disagio diffuso»

    L’ambito che il Convegno ecclesiale di Palermo (20-24/11/1995) ha dedicato ai giovani ha fatto presente che «i giovani rappresentano una nuova categoria di poveri, che si trova ai margini della società: il loro grido di aiuto richiama la chiesa a collocarli al centro della sua azione pastorale per provocare un analogo fenomeno in tutta la società italiana. Ma la loro povertà diventa risorsa per la chiesa quando questa riesce a far silenzio e si mette in ascolto di quanto i giovani sanno esprimere».
    Ecco alcuni elementi che ci aiutano a riflettere.

    SEI CONTENTO DI ESSERE COME SEI: MASCHIO O FEMMINA (una sola risposta)
    – sì 86,5 (M 94,3 F 78,7)
    MI PIACCIO COME SONO (una sola risposta)
    – sì 64,7 (M 77,1 F 52,3)
    (R/COS).
    AMORE LIBERO?
    Solo 1/3 dei giovani intervistati (in maggioranza al Nord, e negli appartenenti) si dicono disposti a sottoporre la loro sessualità ad un codice etico (R/UPS).
    LAVORO? NO, GRAZIE
    Esso non è vissuto come una necessità ma soprattutto come un mezzo di «realizzazione personale» dal 61,6% degli intervistati. Per cui se il lavoro non è di qualità (=gratificante), si preferisce non lavorare (R/UPS).
    SALUTISMO?
    Il 75,9% dei giovani intervistati soffre per problemi di salute. Segue l’11,6%, che soffre di problemi «esistenziali» (R/UPS).
    INDIFFERENZA
    Parlando ai giovani don Ciotti confessava che ciò che gli fa più spavento nei giovani d’oggi, la loro malattia più insidiosa, non è né la droga, né l’aids, né il gusto temerario dei rischi mortali, ma l’indifferenza, il loro chiudersi su di sé e sui propri divertimenti infischiandosene degli altri.
    QUALI LE CAUSE DEL DISAGIO? (erano possibili tre risposte)
    – la famiglia disgregata (46,7%)
    – la mancanza di valori (35,4%)
    – compagnie pericolose (30,4%)
    – la disoccupazione (30,4%)
    – gli adulti che non sanno comprendere i giovani (25,1%)
    – difficoltà e insuccesso scolastico (23,8%)
    (R/COS, D 81).
    COME AIUTARE I GIOVANI IN DISAGIO? (erano possibili tre risposte)
    – non emarginando nessuno (dalla scuola, dal gruppo, dall’Oratorio) (65,3%)
    – informando su rischi e pericoli (45,3%)
    – allontanandoli dall’ambiente nocivo (39,8%)
    – rendendo scuola e lavoro più attenti ai bisogni dei ragazzi (35,6%
    – aiutando le famiglie che hanno difficoltà nell’educare (31,3%)
    (R/COS, D 79).

    «Uscire in strada non basta – si è detto a Palermo – se la comunità cristiana non diventa casa abitabile per i giovani, un luogo dove si trovano a loro agio e dove hanno la possibilità di sperimentare il calore e l’affetto che si respira in famiglia».
    Ma i giovani sono a loro agio?

    METTERE I GIOVANI «AD AGIO»

    Aiutarli a «star bene nella propria pelle», a scoprire gli aspetti positivi della vita, a non sorvolare, ma piuttosto ad inquadrare quelli drammatici e dolorosi in un orizzonte di senso è il servizio che noi siamo chiamati a fare alla giovinezza.
    Una esperienza costruttiva, compiuta a questa età, non mancherà di lasciare un segno positivo in tutta l’esistenza. Il discorso è più semplice per i ragazzi, più complesso per gli adolescenti, che vivono normalmente un autentico «disagio evolutivo», che raggiunge il suo vertice sui 16-17 anni (2° e 3° superiore), che non deve generare nei genitori ed educatori «una crisi speculare», ma invitarli ad una «coevoluzione», graduale e dialogante.
    Dalla R/COS emerge che il modello educativo familiare è decisivo nel creare un eventuale «disadattamento». Per evitarlo occorre:
    – dedicare una precisa attenzione alla personalità del ragazzo;
    – coinvolgerlo, gradualmente, nelle scelte;
    – impegnarlo con piccole responsabilità famigliari;
    – condurre con pazienza, un «dialogo motivante» (R/COS, pp. 338-9).
    Indico alcune strade che genitori ed educatori possono imboccare per realizzare tale Progetto.

    Occorre, anzitutto, sintonizzarsi sui loro valori

    IDEALISMO?
    I ragazzi del campione appaiono degli «idealisti”: e dipendono da un
    – ideale di vita 83,8%
    – ideale di uomo 65,2%
    – di società 60,7%
    – religioso 57,1%
    (R/UPS, pag. 19).
    VALORI (R/COS)
    Quali le cose che più contano e di cui hai più bisogno? (tre risposte)
    – amarsi, volersi bene 55,2% (46,4/64.0)
    – salute 49,8%
    – cultura e studio 34,2%
    – lavoro sicuro 32,3%
    – formarsi una bella famiglia 22,4%
    – onestà 22,3%
    – avere una fede religiosa 10,7%.
    PROBLEMI SOCIALI DI INTERESSE (R/COS)
    – la pace 88,7%
    – criminalità violenza corruzione 87,1%
    – razzismo 83,5%
    – diffusione droga 82,2%
    – fame nel mondo 80,7%
    – disoccupazione giovanile 75,6%
    – aspirazione alla libertà dei paesi oppressi 71,2%.
    VITA (R/COS)
    Come sarai fra dieci anni? (una risposta per riga)
    – felice 94,1%
    – con un lavoro 89,5%
    – credente 80,2%
    – sposato con figli 49,7% (44,8/54,5)
    – sposato senza figli 23%
    – single 19% (22/16)
    – ancora in famiglia 18,6% (22/15)
    – non riesco ad immaginarmelo 24,3%
    – non voglio pensarci 22,3%.
    «Al giorno d’oggi solo degli incoscienti mettono al mondo figli»: per nulla d’accordo i giovani 18-21 anni nella misura del 93,5% (R/CEI, D5).

    Aiutarli a superare l’autoreferenzialità e a riprendere il dialogo col mondo adulto

    Nell’ambito giovani, il convegno ecclesiale di Palermo notava: «Esiste certamente una difficoltà di comunicazione fra generazioni, che rende particolarmente arduo l’annuncio dei valori fondamentali della fede ai giovani. Le tradizionali agenzie educative, come la famiglia e la scuola, sono da tempo entrate in crisi e risultano così incapaci di svolgere la mediazione dei valori essenziali per la maturazione delle giovani generazioni». Eppure «non bisogna aver paura dei giovani, anzi bisogna dare loro fiducia, accoglierli e credere che sono una ricchezza per l’oggi (perché portatori di quell’inestimabile tesoro che è la giovinezza) e per il domani (ad essi è affidato il Vangelo per il terzo millennio).
    Per cui «la pastorale giovanile non può essere delegata a pochi specialisti, ma deve diventare impegno comune di tutta la comunità cristiana per i giovani: una comunità che si mette in missione verso i giovani e con i giovani».
    C’è un disimpegno dei giovani nei confronti degli adulti. Si parla con insistenza di «autoreferenzialità» del mondo giovanile che, chiudendo il giovane su di sé o – nella migliore delle ipotesi – dentro il suo gruppo, rischia di privarlo di stimoli educativi essenziali ritardandone la maturazione complessiva.
    R/COS evidenzia nei nostri adolescenti un orizzonte valoriale definito «dall’attenzione all’individuale più che al sociale e dalla dominanza del relazionale-affettivo», oltre che dall’esposizione ad una «esigenza di gratificazione immediata» (R/COS, pp. 339-40).
    L’89% è molto o abbastanza soddisfatto del periodo che sta vivendo, ma il 42% ha poca o nessuna voglia di diventare adulto.
    Il 92% è molto o abbastanza soddisfatto del rapporto coi genitori, ma il 70% afferma che solo con gli amici può parlare liberamente.
    Il 63% dei giovani afferma di esprimersi con gesti e linguaggio comprensibili solo al gruppo degli amici che frequenta (Censis 1994).
    Il 93,8% degli adolescenti trascorre «con gli amici» il tempo fuori casa (R/COS).
    Emerge l’isolamento generazionale dei giovani. Meno della metà dei giovani del campione (44,6%) dice di aver incontrato adulti significativi nel proprio passato. Ed ancor meno lo sperimenta oggi (29,5%). La carenza di adulti educatori è un dato negativo per la formazione dei giovani. La ripresa della responsabilità educativa degli adulti anche in ambito ecclesiale, oltre che sociale, appare necessaria e improrogabile» (R/UPS pag. 9-10). È un esame di coscienza che devono fare gli ambienti educativi, ma anche tutti gli adulti che desiderano interventi educativi appropriati per i figli.
    La famiglia, tuttavia, ha rappresentato un soggetto che, più degli altri, è stata capace di tenere aperto un canale di comunicazione (Censis 1994). Appare l’urgenza:
    – di una «nuova» collaborazione con la famiglia, nella quale si sta manifestando una vera «asimmetria culturale» a favore dei figli (per cui i genitori diventano loro discepoli nei media, computer, mode...), che deve armonizzarsi con la «asimmetria pedagogica», che dovrebbe restare a favore dei genitori, ma rischia di essere compromessa dal «gap» culturale, che impedisce loro di essere, per i figli, dei modelli convincenti;
    – di una maggiore valorizzazione della figura paterna: «Da questa prima analisi dei risultati emerge come gli atteggiamenti ed i comportamenti del padre sia nei confronti del figlio che della religione influiscano fortemente nel futuro atteggiamento di questi nei confronti della vita religiosa e della chiesa» (R/UPS, pag. 4);
    – di una continuità di dialogo, anche in vista di una necessaria «autodisciplina». Appare chiaro in R/COS quanto il dialogo aiuti gli adolescenti a gestire meglio il loro tempo libero, mentre gli interventi autoritari ne facilitano lo spreco (R/COS, p. 336);
    – di una maggiore capacità di conferire responsabilità ai propri figli e partecipazione crescente alle decisioni, che interessano la vita della famiglia: ciò alimenta in essi la «fiducia di base» e la capacità di essere progressivamente autonomi. Il sociologo Francesco Belletti affermava (cf Avvenire 21.3.1995): «ora, dentro la famiglia, i giovani nuotano bene, anche se la vedono vincolante per la capacità di conoscere se stessi e assumersi la propria responsabilità. Ma qui il gioco si fa doppio. Da un lato la famiglia non emancipa i figli, dall’altro i figli non sembrano attrezzati a volerlo fare. È un patto di non aggressione reciproco. (...) La sensazione è che la responsabilità venga certamente chiesta ma non trasmessa, come se i genitori si aspettassero che i figli la imparino da qualcun altro». È proprio questo il disagio che Giovanni esprime scrivendo al Vescovo Ablondi, di Livorno: egli, «ricordando l’insistenza del Vescovo sul ‘cercare’, lamenta quella particolare eterodirezione o ‘schiavitù familiar’ che, a fin di bene, ti impedisce di maturare, perché tutti gli altri hanno cercato per te. Mi hanno cercato la vita e nessuno che mi accompagnasse come fratello e sorella; mi hanno cercato la scuola; mi hanno cercato le amicizie; mi hanno cercato le cose, mi hanno cercato i colori degli abiti. Ora pretenderebbero di cercare chi mi accompagna al di là della mia famiglia’»;[2]
    – di una autentica educazione all’amore, realizzata anche in collaborazione con la scuola, nello spirito del recente documento del Pontificio Consiglio per la famiglia.[3]
    La scuola è chiamata a:
    – incarnare una pedagogia che dona sicurezza e chiede responsabilità, con un sistema di «regole», essenziali ma reali;
    – donare l’esperienza di adulti, capaci di impostare una pedagogia della speranza, diventando «concreativi» con loro ed impostando relazioni cordiali ed incoraggianti;
    – articolare e diversificare l’intervento educativo, in un diverso approccio all’allievo e all’allieva;[4]
    – creare dialogo fra le diverse agenzie educative, che, singolarmente si sono fatte tutte più deboli, ed hanno bisogno di appoggiarsi a vicenda;
    – impegnarsi, da subito, nel proprio rinnovamento, tenendo conto dell’insoddisfazione crescente degli adolescenti nei confronti del sistema-scuola;[5]
    – fare di nuovo i conti con cotesta «età incompiuta», che non prelude più ad una condizione di adulto abbastanza vicina ed appare esposta a nuovi «rischi evolutivi»: ciò significa creare nell’adolescente la categoria della «formazione permanente», abilitando a misurarsi col «policentrismo formativo» che l’accompagna.
    La chiesa è chiamata ad attrezzarsi per fare dell’annuncio di fede una risposta all’esigenza dei giovani, che evidenziano un certo disagio nei suoi confronti.
    Rispondendo alla domanda: «In sintesi qual è il tuo giudizio complessivo sulla chiesa cattolica in Italia?», i giovani 18-21enni manifestano la punta massima – fra tutti gli inchiestati – del giudizio «negativo o critico», oppure «incerto», e la punta minima del giudizio «positivo».[6] Lo stesso disagio appare dal fatto che gli stessi giovani danno la risposta più alta alla domanda: «Hai avuto uno o più momenti di forte crisi religiosa»? (R/CEI D.) 191: 38,0 % su media di 31,8%).
    Essi sembrano avere della fede una visione intensamente esistenziale, poiché fra le varie definizioni della fede scelgono questa: «Per me credere è soprattutto avere delle ragioni che mi aiutano a vivere e a sperare » (R/COS: 62,0% M 54,9% F 69,0%).
    Legare dunque la fede alla vita e alla sua pienezza, inquadrarla in un clima di apertura al futuro e di speranza è il lasciapassare che la introduce nel cuore dei giovani. Alla domanda di R/CEI (D. 82): «In che modo la tua esperienza religiosa ha inciso sulla tua vita?», i giovani (18-21 anni) rispondono: «Mi ha reso più responsabile» nella misura del 34,3% (risposta «massima» su una media del 32,5%). Il massimo (72,9% su una media del 68,1%) essi esprimono anche nel sottolineare che «impegnarsi per gli altri» è dovere di chi dice di credere in Dio.
    Coi giovani dai 18 ai 21 anni appare particolarmente efficace la testimonianza: «Ho conosciuto alcune persone religiose, la cui testimonianza mi ha convinto». Su una media di 15,1% della R/CEI (D 28), essi esprimono il massimo di adesione col 20,7%.
    Ma appare indispensabile fondare le «ragioni» sull’energia propria che viene dalla grazia. Il 35,3% degli adolescenti ammette di avere la fede e la pratica religiosa (R/COS, p. 367). Il 26,9% di avere la fede senza la pratica religiosa, annunciando una divaricazione che rischia di crescere ancora e che già caratterizza larghe fascie del mondo adulto. Anche nella R/CEI (D. 99) i giovani sono al di sotto (36,4%) della media nazionale (38,1%) per quanto riguarda «andare a messa la domenica o partecipare a riti religiosi».
    Appare dunque necessario seguire due linee complementari:
    a) passare da una «religione dello scenario» ad una «fede della coscienza», passando dalla conformità sociale, dove prevale l’esteriorità e la tradizione, ad una fede interiormente motivata; questo bisogno di «interiorizzazione», proprio di chi crede in Dio, è per i 18-21enni espresso (ed è la punta massima della R/CEI) nel «conoscere ed approfondire le verità della fede» (D. 102), nel «cercare Dio» (D. 108), nel «leggere e meditare la Bibbia o altri testi sacri» (D. 110), nel pregare «per fare chiarezza dentro di me, per riflettere su me stesso» (D. 143).
    b) al tempo stesso, è necessario far comprendere che la fede cristiana è storica ed incarnata, fatta di «segni», che – prolungando nella Chiesa il mistero della carne di Cristo – comunicano la grazia, che essi significano.[7] Da questo sforzo sarà aiutato un nuovo orientamento sociale, che appare una delle urgenze del momento presente. Per Censis 1994, fragile appare il legame dei giovani col sociale.
    Cresce dal 1991 l’attenzione alla politica (dal 33% al 44%), ma solo il 12%, nell’ultimo anno (1994) ha partecipato ad attività di volontariato;
    – il 30% partecipa ad attività di una organizzazione giovanile;
    – il 70% non ha mai partecipato ad iniziative o manifestazioni di carattere sociale.
    La R/CEI presenta una serie di elementi, che potrebbero fare temere un «nuovo yuppismo» all’italiana, di stampo borghese consumista.[8]
    Avrà bisogno di essere riscoperta e riproposta la dimensione sociale della famiglia, che è la cellula base di costruzione della società. Anche virtù «impopolari» come la castità vanno tolte da una certa atmosfera troppo privatista ed intimista e ricollocate sull’orizzonte della socialità: «Non si deve mai dimenticare che il disordine nell’uso del sesso tende a distruggere progressivamente la capacità di amare della persona, facendo del piacere – invece che del dono sincero di sé – il fine della sessualità e riducendo le altre persone a oggetti della propria gratificazione. (...) La banalizzazione della sessualità infatti è tra i principali fattori che stanno all’origine del disprezzo della vita nascente: solo un amore vero sa custodire la vita» (cf Sessualità umana: verità e significato, n. 105).
    Di grande rilievo, sotto questo profilo, è l’appartenenza dei giovani a qualche aggregazione sociale, che accompagni il loro cammino. Gli «appartenenti» della ricerca UPS ripropongono esattamente il profilo degli «aggregati» della ricerca Milanesi di 10 anni fa. Davanti alle numerose proposte di «aggregazione edonistica», occorre stimolare i giovani ad accogliere proposte di «aggregazione solidaristica» (cf Sessualità umana: verità e significato, n. 106).

    Educandoli all’amore

    L’ambito giovani del convegno di Palermo sottolineava che «è necessario proporre ai giovani ideali alti, capaci di far percepire loro la novità di un Dio che, mentre dà risposte d’amore, pone domande esigenti invitandoli a seguirlo ogni giorno sulla via della croce».
    Scopo dell’impegno educativo resta l’orientamento a progettare una famiglia «consegnata come capolavoro dell’amore» (Convegno ecclesiale di Palermo, sintesi dell’ambito) e costruita, fin dal suo sbocciare, aperta alla diakonia (ibidem).
    E il lungo cammino, la preparazione alla fedeltà coniugale è il coraggio della castità da promuovere in relazione alle tappe di maturazione dell’amore: fidanzamento, coniugalità, genitorialità. Non manca nei giovani l’apertura a questi valori. Occorre aiutarli a recuperare alcune virtù ed atteggiamenti decisamente «controculturali» come il pudore, la modestia, la giusta intimità, l’autodominio (cf Sessualità umana: verità e significato, nn. 56-58).
    Né va trascurato lo sforzo di abilitare il giovane alla stabilità della scelta. Alla domanda di R/CEI: «Quali sono oggi i principali ostacoli ad una scelta di vita sacerdotale o religiosa», i 18-21enni raggiungono il massimo del campione nell’indicare «una scelta che impegna per sempre» (28,3, M 22,3 F 25,3, media 23,8). Nell’affrontare questa problematica, occorre dare fiducia alle giovani generazioni, che si presentano spesso con una disponibilità etica inattesa, nonostante la precaria atmosfera morale di certe culture ed ambienti moderni.
    Nell’avvicinare un coetaneo dell’altro sesso, il sentimento dominante è:
    – amicizia (34,7%);
    – gioia, piacere (17%);
    – attrazione sentimentale (13,4%);
    – timidezza, imbarazzo (8,3%);
    – attrazione erotica (13,4%) (R/COS 82.1).
    Avere il ragazzo/a significa principalmente affetto e amore (49%), ma anche appoggio reciproco (10,8%) (R/COS, D 83.2).
    E per il 65,2% di loro il rapporto sessuale è una relazione di amore (e solo per il 12% (17,6 e 6,3), una ricerca di piacere fisico (R/COS, D. 84).

    Formare nei giovani la «resilienza»

    Sono rimasto alquanto sorpreso – ad un convegno europeo sulla scuola – al vedere il peso dato da uno dei relatori (prof.ssa An Hermans di Lovanio e parlamentare Cee) a quella che lei ha chiamato «la résilience», cioè la «capacità di resistenza» del giovane. Alla sua radice sta la convinzione «che una relazione educativa è essenzialmente una relazione di fiducia e di speranza, che permette all’uomo di espandersi come persona». L’attenzione ad essa nasce dalla constatazione che i giovani hanno in sé una forza straordinaria, che li rende capaci di resistere alle più difficili situazioni, pressioni, ferite, ecc. trasformandole – a certe condizioni – addirittura in occasioni di crescita.
    Il Bice (Bureau International Catholique de l’Enfance) ha sviluppato vari progetti, in tal senso, per i paesi in via di sviluppo. Ed esso tende a diventare un «approccio pedagogico globale» del quale fa parte:
    – l’accoglienza radicale del giovane come persona;
    – l’elaborazione di un significato vitale;
    – lo sviluppo della capacità di assumere se stessi responsabilmente;
    – il rispetto di se stessi;
    – il senso dello humor.
    Non è questo «realismo della speranza» un bisogno anche del primo mondo? Chissà che, insegnandola agli altri, non la acquisiamo meglio noi stessi?
    Con una parola più semplice potremmo indicare la stessa qualità con una parola più familiare: la pazienza.
    Essa è chiamata, non a caso, «la virtù dei forti», ossia una fondamentale dimensione dell’educando.
    Non abbiamo bisogno di soffermarci su forme di impazienza giovanile, che si traduce nei noti fenomeni del presentismo (i giovani nell’attimo fuggente); del «piccolo cabotaggio» progettuale; della ricerca della gratificazione immediata, accompagnata dalla paura della sofferenza e della croce, che si traduce in terrore del fallimento, cui si supplisce con pericolose evasioni (droga, violenza, ricerca del rischio, sesso facile, suicidio, ecc.); della fatica ad incanalare l’indubbia generosità in forme stabili di servizio e di diakonia. Sarà essa che permetterà al giovane quell’apertura e flessibilità al cambiamento che sarà una esigenza dell’epoca sua più di quanto lo sia stata della nostra.[9]
    Essa è atteggiamento proprio dell’educatore, derivante dal rispetto profondo della libertà del giovane; dalla convinzione che, alla fine, il fascino del Bene sarà vittorioso; dalla coscienza dei «tempi lunghi», entro cui si gioca l’esito dei cammini educativi; dalla esperienza di «inganno» e «disinganno», attraverso cui passano i giovani; dalla viva coscienza che «Dio è paziente» e i suoi tempi non sono i nostri...
    La pazienza è la terapia contro forme di impazienza pedagogica, che danneggiano l’azione educativa, quali: il «tutto e subito», in campo educativo, che allontana i giovani, oppure li rende tendenziamente falsi o troppo dipendenti da educatori iperprotettivi; dare la precedenza all’esecuzione di compiti o di pratiche, senza prestare sufficiente attenzione ai processi interiori che le motivano; lasciarsi sopraffare dal criterio dell’efficienza, che riduce i tempi di dialogo e di formazione delle persone; «tagliare fuori» coloro che non ci seguono, dimenticando l’elementare principio cristiano e pedagogico del perdono e della riconciliazione.
    L’ambito giovani del convegno ecclesiale di Palermo ha sentito intensamente questa difficoltà, quando ha notato che «i giovani sono spesso utilizzati come fornitori di servizi ecclesiali prima ancora di essere veramente motivati e di aver compiuto quel cammino interiore che consente loro di assumere responsabilmente degli impegni. Si riscontra inoltre una necessità ormai irrimandabile di formare i formatori educandoli a saper rispettare i tempi della semina e ad aspettare con pazienza e speranza evangelica i tempi della raccolta». Occorre, dunque, come ad Emmaus, mettersi sulla strada con loro. «È un cammino che, per giungere in alto, spesso deve prima scendere; per dirigersi verso est, propone delle deviazioni verso ovest, che non può essere conosciuto con esattezza se non si è compiuto fino in fondo».
    Importante sotto questo profilo è il compito della famiglia. R/COS teme che i nostri adolescenti siano dei «quieti adattati», non abbastanza stimolati, o magari contestati, dai loro genitori, che tenderebbero a ritardarne il distacco della famiglia, con uno stile «amicale», che potrebbe ingenerare compromessi nei confronti dei valori. «Sembra che in più casi si stia annebbiando quel compito di trasmissione transgenerazionale, che è necessario ai giovani per ricevere un’autentica eredità educativa e per saper affrontare in modo davvero personale le vicende della vita» (L’età incompiuta, pagg. 333-334).


    NOTE

    [1] Sullo sfondo della nostra riflessione terremo presenti tre ricerche apparse recentemente. La religiosità in Italia, a cura di V. Cesareo (Milano Mondadori 1995). Si tratta della ricerca, finanziata dalla CEI, a cura dell’Università cattolica, su un campione di 4.500 italiani. È stata presentata al Convegno ecclesiale di Palermo. La indicheremo con la sigla R/CEI. L’età incompiuta, a cura di S. De Pieri e G. Tonolo (Torino LDC 1995). È la ricerca fatta dai Cospes italiani, a seguito dell’Età negata, su 5446 soggetti (1/2 femmine), fra i 14 e i 19 anni. La indicheremo con la sigla R/COS. La ricerca sull’Esperienza religiosa dei giovani italiani, a cura di Mario Pollo, Torino LDC 1997. È una ricerca «qualitativa» che analizza 112 storie di vita, tratte da 16 gruppi dislocati in varie parti d’Italia, raccolte in circa 3.000 pagine. Le percentuali vanno considerate soltanto indicative. La indicheremo con la sigla R/UPS.
    [2] No, una predica no. Dialogo fra i giovani e il Vescovo Ablondi, Roma, Borla, 1994, pag. 125.
    [3] Sessualità umana: verità e significato (Roma 1995). Cf specie i nn. 65-75 con una specifica insistenza su alcune dimensioni: formazione individualizzata, realizzata possibilmente dal genitore dello stesso sesso, in un contesto etico pieno di stima per l’amore umano «vero», motivando adeguatamente la correzione dei comportamenti sbagliati, nel contesto globale di educazione della persona all’amore e alla vita spirituale, coniugando insieme – nella comunicazione educativa – chiarezza, tempestività, gradualità, delicatezza di linguaggio.
    [4] Si tratta di una delle realtà che ha sorpreso i ricercatori di R/COS, i quali hanno evidenziatoalcuni tratti caratteristici:
    In positivo:
    – nella gestione delle relazioni familiari di vicinanza/distacco, la ragazza appare più soddisfatta e più serena;
    – davanti all’istituzione scuola e chiesa, la ragazza si sente più coinvolta, rispettata, interessata relazionalmente;
    – nella scelta del lavoro, prevale nella ragazza l’aspetto della realizzazione personale, meno quello del danaro;
    – nell’esperienza affettiva, la ragazza vive di più l’aspetto relazionale, di reciproco appoggio, di progettualità familiare rivolta al futuro, ed appare meno coinvolta del maschio sotto il profilo ludico, erotico e sentimentale;
    – nel giudizio morale, la ragazza appare più severa ed esigente, specie nei confronti della vita, del corpo, del matrimonio, di Dio;
    In negativo:
    – riguardo alla propria immagine corporea, l’insoddisfazione della ragazza è quasi doppia di quella del maschio;
    – nel gestire le relazioni coi coetanei, la ragazza appare più insoddisfatta, con una tendenza a protestare e a ritirarsi: «È troppo cercare di staccarsi da quella società consumista dove, per essere accettata, devi avere il maglione di Valentino? È troppo cercare che la gente non guardi tanto il colore dei tuoi occhi, ma quello della tua anima?» (No, una predica no. Dialogo fra i giovani e il Vescovo Ablondi... pag. 49);
    – nei momenti di frustrazione e di sconforto, la ragazza fa più fatica a riprendersi e a reagire ed è più esposta a pensieri di suicidio;
    – nei rapporti coi coetanei, la ragazza adolescente appare alquanto «antimaschilista», e trova i maschi inadeguati a comprendere i propri problemi. Ciò appare particolarmente acuto nell’ambiente scuola, data la sfasatura dei ritmi di maturazione che, specie nell’adolescenza, connotano i due sessi. In generale, la ragazza ama di più la casa e gli spazi di intimità, il maschio ama di più la strada e la vita all’aperto. «I maschi, meno inseriti in famiglia, si espandono più felicemente fuori. Le femmine, meglio stabilizzate in casa, incontrano più difficoltà nell’ambiente esterno» (cf L’età incompiuta, pagg. 341-345: Le due adolescenze?).
    [5] L’urgenza è sottolineata dal fatto che a 14 anni l’82,8% degli allievi riconosce che l’istituzione scolastica li aiuta a crescere. Ma, a 19 anni, solo il 64% ripete l’apprezzamento. Nella scuola circa uno su due si sente coinvolto e il 43% la ritiene strumento efficace per scoprire i valori della vita (L’età incompiuta, pag. 334)
    [6] R/CEI (D. 292)
    – negativo o critico 33,3% (M 30,6 F 23,9 media 27,2);
    – incerto 31.0% (M 26,5 F 25,0 media 25,8). (M 42,8 F 51,1 media 47,0).
    – positivo 35,7%
    [7] R/CEI suggerisce una riflessione particolare sulla dimensione «penitenziale» della fede dei 18-21 enni.
    Le loro risposte, infatti, raggiungono il massimo:
    – nel dire che l’esperienza religiosa ha creato in essi sensi di colpa (D. 85: 12,4 sulla media di 11.0);
    – nel riconoscere che chi crede in Dio deve fare atti di penitenza (D. 112: 9,9 sulla media di 6,8);
    – nel pregare per domandare perdono (D. 140: 26,1 sulla media di 21,4). Bisogna anche dire che, dall’insieme, si desume una certa insoddisfazione di detti giovani sul modo in cui il Sacramento viene celebrato: fa ad essi problema il modo di confessare di alcuni preti (22,2 sulla media di 18,6) e pensano che vada cambiato il modo di confessarsi previsto dalla chiesa (26,5 su una media di 22,9).
    [8] Alla domanda «Perché una persona possa dirsi soddisfatta della propria vita, quali tra le seguenti cose ritieni più importanti?» i 18-21enni raggiungono il massimo nelle risposte:
    – la carriera (22,9, M 15,7 F 10,0, media 12,8)
    – il denaro (16,3, M 14,6 F 10,8, media 12,7)
    – divertirsi (26,6, M 14,2 F 9,2, media 11,7)
    – avere degli amici (54,4, M 42,2 F 33,9, media 38,0)
    – fare esperienze nuove (16,5, M 9,9 F 7,7, media 8,8)
    – avere un rapporto affettivo (38,8 M 30,3 F 39,1, media 34,8).
    La tendenza si conferma con la successiva domanda che chiede: «Se avessi due ore libere in più al giorno, come impiegheresti questo tempo?»:
    – fare un secondo lavoro (per i miei interessi) (8,5, M 6,1 F 4,6, media 5,4)
    – stare con i miei amici o parenti (45,5, M 33,3 F 31,2, media 32,2)
    – sport, ginnastica, passeggiate a piedi (47,1, M 33,0 F 21,1, media 27,0)
    – attività di svago (tv, musica, ballo) e riposo (27,7, M 20,9 F 14,0 media 17,4)
    – attività di impegno sociale e di aiuto per gli altri (questo è in controtendenza, ma solo per il contributo delle femmine) (28,2, M 18,8 F 30,6, media 24,8).
    [9] Sintetizzando la ricerca Cospes, Silvano Sarti nota: «Forse l’obiettivo ottimale nella maturazione come individui, nella costruzione concreta della identità personale e sociale, sta diventando un altro: quello di acquisire la capacità relativamente costante di gestire e progettare il cambiamento. Allora l’adolescenza sarà più una fase di vasto addestramento che un periodo destinato al raggiungimento di traguardi prestabiliti. Sarà più il momento dell’acquisizione dell’attitudine a pianificare le proprie scelte, che un momento dell’acquisizione di risultati previsti e fissi. Perché la stabilità che l’adolescente dovrà raggiungere forse sarà prevalentemente quella di abituarsi a mantenere la continuità e la intenzionalità nel mutamento».


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