Nicoletta Grieco
(NPG 1997-03-2)
Quando ti conobbi avevi un’aria persa.
Semisdraiato sul banco, con gli occhi socchiusi, ti facevi cullare dalle mie lezioni come fossero una canzone, cantata troppo sommessamente per comprenderne le parole.
La noia si disegnava sul tuo volto e non provavi alcun interesse per Foscolo o per Leopardi; ma neanche se, nel tentativo estremo di catturare la tua attenzione, cercavo di parlare dei problemi dei giovani o dell’attualità ti destavi. Continuavi nel tuo torpore soffuso, chiuso in un mondo lontano e triste.
I tuoi compagni ti prendevano in giro e dicevano che eri scemo, che ti facevi le canne. E forse un po’ fumato lo eri, ma non solo dalle canne, ma dalla lontananza che il mondo che amavi aveva frapposto fra te e la vita.
I tuoi genitori si separavano, bè succede a molti; ma da te la vita si allontanava perdendoti.
All’improvviso, per spezzare la mia voce che faticosamente aveva attirato l’attenzione dei tuoi compagni, per distruggere quell’orribile farsa di ruoli prestabiliti, ti alzavi e salivi sul banco.
Io urlavo ferita nel mio orgoglio di insegnante, con la voce sempre meno mia e così simile a quella di uno stereotipo romanzesco, ti urlavo di tornare al tuo posto, di seguire la lezione, sbraitavo che non ci si comportava così in classe.
Perché? mi chiedevi con i tuoi occhi grandi, aperti adesso più che mai; che significa quello che devo e non devo fare, che mi importa delle tue parole, della tua cattedra e della tua storia, non lo vedi che sto soffrendo?
Ed io continuavo ad urlare, lacerata dentro, Alex, dal tuo sguardo, prigioniera delle convenzioni e del mio ruolo.
I colloqui con tua madre ed io che tentavo di cancellare le mie responsabilità di persona integrata in questa vita parlando con lei per ore e ore, consigliandole una psicoterapeuta che ti avrebbe potuto aiutare, convinta che anche dalla tua sofferenza si potesse guarire.
La psicoterapeuta crollò contro il tuo muro, o meglio non riuscì a vedere i tuoi occhi aperti attraverso il fumo che li confondeva.
A scuola non sapemmo aiutarti; ti ritirasti prima della fine dell’anno.
Non avevi mai parlato con me, se non con i tuoi sguardi eloquenti, con i tuoi silenzi tristi e profondi.
Ti ho rivisto dopo alcuni mesi.
Nella sala Professori mi è venuto incontro un ragazzotto ingrassato con gli occhi spalancati che per la prima volta mi ha parlato, mi ha stretto la mano, e con un tono falsamente gioviale ed educato mi ha chiesto come stavo.
Non ti riconoscevo più, Alex; con un tono da ubriaco mi hai raccontato che adesso frequentavi una comunità terapeutica, che non ti drogavi più, o meglio non fumavi più ma seguivi una cura che ti aveva rimesso a nuovo.
Quello sguardo vuoto, gli occhi spalancati ma inespressivi, la tua tristezza avvolta nei farmaci, la terapia miracolosa aveva spento anche i tuoi sguardi.
Tua madre felice e soddisfatta dei tuoi progressi, orgogliosa dei tuoi modi educati ed urbani.
Ho riconosciuto solo la tristezza nel fondo dei tuoi occhi: taceva ingabbiata, non ancora guarita.