Piergiorgio Odifreddi
(NPG 1996-02-47)
Quanto sareste disposti a spendere per comprare un milione? A prima vista la domanda può sembrare strana, anche se chiunque abbia dovuto stipulare un mutuo con una banca, o chiedere prestiti agli strozzini, ha dovuto farsela.
Non vogliamo però rinnovare il dolore di quei poveri sfortunati, ma parlare di un gioco (speriamo) più divertente: noi poniamo un milione all'asta e siamo disposti a cederlo al miglior offerente, in cambio delle offerte dei due migliori offerenti. Ad esempio, se dieci persone offrono rispettivamente 10.000, 9000, ...1000 lire, noi daremo il nostro milione alla prima, in cambio delle 19.000 lire delle prime due. Da parte nostra, ci sembra di essere abbastanza generosi. Da parte vostra vi conviene certamente offrire una minima somma, sperando di guadagnare in cambio il milione. Il problema è: qual è il comportamento razionale in questo gioco?
Limitiamoci per semplicità al caso in cui due sole persone decidono di partecipare all'asta. Uno dei due, che chiameremo Primo, offre ad esempio una lira; se l'altro, che chiameremo Secondo, non offre di più, Primo guadagna 999.999 lire (non preoccupatevi del fatto che le perdiamo noi). Ma Secondo sarebbe sciocco a non essere disposto a offrire ad esempio due lire: se egli lo fa, e Primo non rilancia, Secondo guadagna 999.998 lire, e Primo ne perde una. Ma perché Primo dovrebbe perdere anche una piccola somma? Gli conviene certo rilanciare, ad esempio 3 lire, e così via.
Il problema è: a che punto si dovrà fermare uno dei due? Certamente, direte voi, sotto il milione, perché altrimenti si comprerebbe il milione in perdita, e si tornerebbe all'incubo dei mutui che volevamo dimenticare.
Ma supponete che, lira dopo lira, Secondo sia ormai arrivato a offrire 999.998 lire per il nostro milione, e che Primo abbia rilanciato con 999.999 lire. Se i due decidono di fermarsi proprio adesso, Primo guadagnerà una misera liretta, ma Secondo perderà quasi un milione, il che non gli conviene certo! Egli è dunque costretto a rilanciare, con un milione tondo: in questo modo non guadagnerà niente, ma almeno non perderà 999.998 lire, mentre sarà invece Primo a perderne 999.999.
A questo punto Primo non sarà soddisfatto della piega che hanno preso le cose, ma non sarà comunque disposto a perdere quasi un milione, e preferirà rilanciare con 1.000.001 lire: in questo modo perderà solo una lira, e scaricherà la perdita su Secondo. Il quale però, ovviamente, non ne sarà lieto, e rilancerà 1.000.002 lire nella speranza che Primo si fermi, permettendogli di perdere solo due lire. Il problema è che non c'è nessun motivo di fermarsi né ora né mai, perché più si procede nel gioco e più si rischia di perdere fermandosi. Poiché un bel gioco dura poco, un gioco che non si possa fermare e debba durare in eterno deve essere pessimo. L'unica strategia razionale era dunque che Secondo non fosse entrato in campo dopo la prima offerta di Primo, e gli avesse concesso di guadagnare un milione: è stata la mancanza di collaborazione fra i due a creare il pasticcio, e i giocatori si sono accorti di essersi messi in un gioco maledetto soltanto quando stavano ormai giocando, ed era troppo tardi per tirarsi indietro.
Questo gioco, inventato dall'economista Martin Shubik nel 1971, è un modello matematico di quelle situazioni della vita reale in cui si continua a fare qualcosa soltanto per non sprecare ciò che già stato fatto finora, e così facendo si finisce solo con l'aggravare la situazione: si continua a guardare un brutto film o a leggere un brutto libro perché siamo già arrivati a metà, si sta ad aspettare qualcuno ancora un po' perché lo si è già aspettato a lungo, si continua a riparare una macchina perché ci si è già speso tanto, si continua a giocare perché si è già perso troppo e ci si vuole rifare, si continua una politica fallimentare solo perché è troppo tardi per cambiare...
In tutte queste situazioni, la strategia migliore era di non cominciare neppure a giocare, e la seconda migliore strategia è di smettere appena possibile. Ed è quello che facciamo immediatamente.
(La Stampa - 11 ottobre 1995)