Carmine Di Sante
(NPG 1996-03-5)
Secondo la comune testimonianza sinottica, Gesù riassume tutta la sua predicazione nell'annuncio del «regno di Dio» o, secondo la leggera variante matteana, «dei cieli»: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 'Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo'» (Mc 1,14; cf Mt 4,12-17; Lc 4, 14-15). .
L'espressione «regno« di Dio significa, in primo luogo, la «regalità di Dio», il fatto cioè che egli è «re», come non si stanca di ripetere l'Antico Testamento e come esprime continuamente tutta la liturgia ebraica in cui si proclama: «Benedetto sei Tu, Signore, Dio nostro re dell'universo».
Una duplice regalità
L'affermazione di Dio «re dell'universo» coincide con la sua regalità universale: «re» non solo di un popolo o di alcuni popoli ma di ogni cosa.
Entro questa affermazione di regalità universale, i testi biblici definiscono con nitidezza due figure di regalità che, pur profondamente correlate, non sono, però, riconducibili ad unità: la prima relativa al mondo (regalità cosmologica), l'altra agli uomini (regalità antropologica). Una tale distinzione, che nelle concezioni organiche è ininfluente essendo l'antropologico assorbito (o ri-assorbito) nel cosmologico, nella tradizione ebraico-cristiana acquista una rilevanza sostanziale, essendo l'antropologico non dentro il cosmologico ma suo momento costitutivo, secondo la logica dell'alleanza che fa dell'uomo non una parte del mondo ma il partner di fronte a Dio di tutto il mondo.
La regalità cosmologica - l'affermazione di Dio «re del mondo» - istituisce la radicale alterità e impossibile appropriabilità delle cose e coincide con l'esperienza stessa della creazione. Questa, per la bibbia, non consiste nel fatto che il mondo dipende causalmente da Dio, quanto nel fatto che l'uomo non può disporne perché appartenente a Dio. Per l'uomo biblico l'esperienza della creazione è di carattere etico - il divieto di disporne - e solo a partire da questa esperienza etica originaria la creazione è anche, secondariamente e limitatamente, «produzione».
La regalità antropologica - l'affermazione di Dio «re dell'uomo» - istituisce invece il rapporto unico e peculiare tra Dio e l'uomo. Quest'ultimo non si definisce più in base alle sue appartenenze (di razza, di popolo, di cultura, di ideologia o di religione) bensì per la relazione d'amore instaurata da Dio con il suo gesto di amore gratuito e sorprendente: «Il Signore disse: 'Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido... Sono sceso per liberarlo dalla mano dell'Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso...'» (Es 3,7-8).
La regalità e l'istituzione del Senso
La proclamazione della regalità di Dio sulle cose, tradotta concettualmente, coincide con l'affermazione dell'esistenza del Senso: non il senso soggettivo che l'io e l'insieme degli io (le culture) producono, bensì il senso oggettivo anteriore all'io e vincolante l'io.
Affermare la regalità di Dio sul mondo è affermare che in esso, allo stesso modo di una parola scritta o parlata, si sedimenta un'intenzionalità che l'uomo non può né ignorare né cancellare.
Certo, si può sempre utilizzare un quadro o una poesia contro l'intenzionalità in essi iscritta (per farne un supporto o accenderci il camino), ma ciò a prezzo di una duplice violenza che cancella l'autore e si ritorce contro il fruitore. Il peccato, per la bibbia, è la situazione di alienazione nella quale versa il mondo a causa della cancellazione che della sua intenzionalità opera l'uomo vanificandone il senso.
Ma la regalità divina, oltre ad affermare la presenza del senso oggettivo, precisa anche in che cosa esso consiste: nella dimensione di dono che inabita le cosa e le fa essere: dono non in senso metaforico-naturale ma reale-personale. L'affermazione della regalità divina è l'affermazione del mondo come dono che Dio offre all'uomo per amore e che attende di essere accolto nella riconoscenza.
La regalità instaura la dignità e la responsabilità
Scoprirsi amati è la nuova autocomprensione che la regalità divina dischiude al soggetto umano: autocomprensione stra-ordinaria se si pensa che, ad esempio, nella concezione platonica o aristotelica, Dio, se è oggetto di amore da parte dell'uomo, non può esserne a sua volta soggetto, potendo egli amare solo se stesso. Sono amato e, per questo, sono: è questa l'incomparabile dignità del soggetto umano che, libero dall'io, si scopre avvolto dallo sguardo d'amore del suo Dio.
Ma il sapersi amato da Dio, lungi dal lasciare il soggetto umano nella recettività della fruizione, lo eleva alla indeclinabile responsabilità della bontà, della gratuità e del disinteressamento: «sono in quanto chiamato ad amare allo stesso modo con cui sono amato». Il significato radicale della regalità divina è nella transustanziazione dell'uomo da essere di bisogno, centrato sul proprio io, ad essere responsabile capace di bontà o santità come Dio.
Invocando «venga il tuo regno», l'orante attesta la presenza del Senso come dono (regalità antropologica) e si impegna, nella fedeltà, a questo compito dal quale dipende la riuscita del reale.