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    I giovani nella cinematografia degli anni 80 e 90



    Eliana Vona

    (NPG 1996-02-53)


    Abbiamo sempre dato molto spazio alle scienze (umane) che ci parlano, descrivendo e interpretando, del mondo dei giovani.
    In effetti i nostri «destinatari», ma soprattutto i nostri compagni di viaggio nello scambio di vita e di ragioni di vita che è l'educazione (umana non meno che di fede), non possono essere sconosciuti che ci ritroviamo a fianco o che persino «intralciano» il nostro personale cammino.
    La loro conoscenza, rinnovata costantemente a mano a mano che qualcosa di nuovo o di sempre antico emerge nella scena sociale (talvolta come piccoli frammenti di vita, inconsapevolmente vissuti o che emergono all'autoconsapevolezza) è uno degli impegni più seri per un'autentica compagnia. Ma le fonti per tale conoscenza non sono solo gli studiosi del comportamento o della società, lo sappiamo bene. Possiamo gettare luce in questo universo attraverso la nostra conoscenza personale, attraverso le varie testimonianze da loro stessi offerte, attraverso gli occhi di altri testimoni, giovani o adulti, che li guardano con interesse e con simpatia. Tra questi, naturalmente, anche le «arti».
    È nostro intendimento offrire ai nostri lettori degli articoli che mostrino come i giovani sono stati visti dall'occhio «speciale» che è l'arte in questione: la letteratura, le arti figurative, la cinematografia.
    È una conoscenza «nuova», rivelatrice di intuizioni, talora di interessi, comunque sempre arricchente.
    L'articolo che inaugura questi «nuovi sguardi sul mondo giovanile» è stato scritto da una competente in materia: la segreteria nazionale dei Cinecircoli Giovanili Socioculturali, esperta sia in cinema che «appassionata» della realtà dei giovani.

    Sono trascorsi ormai diciassette anni da quel lontano 1977, anno in cui sugli schermi cinematografici di tutto il mondo è apparso il personaggio di Tony Manero, interpretato da John Travolta, nel film «La febbre del sabato sera». Un film che, al pari di «Gioventù bruciata» (1954) ed «Easy Rider» (1969), ha segnato un'epoca.
    È stata una svolta decisiva, un passaggio che ha spazzato via il periodo degli hippies e quello dell'impegno politico, aprendo le porte agli anni '80, un repentino giro di boa che ha portato alla ribalta nuovi modelli, con nuove tendenze, mode, nuovi idoli da imitare e in cui identificarsi, nuovi valori e/o non valori.
    Il fenomeno del «travoltismo» ha coinvolto migliaia di giovani per i quali la discoteca ha rappresentato e rappresenta tuttora un nuovo spazio, un territorio entro cui affermare le proprie frustrazioni, amarezze, disillusioni, un'isola felice, usciti dalla quale c'è un tuffo nel baratro.
    E purtroppo, quando per sentirsi realizzati, si continua a giocare con la propria vita, fino a metterla tragicamente in pericolo, quando il sabato sera la febbre continua a salire fino ad andare in delirio, allora una bravata si trasforma in dramma e l'avventura di una serata si muta in evento di cronaca nera e, come per incanto, ciò che si credeva solo un gioco diventa triste, allucinante realtà.
    «La febbre del sabato sera» è stato probabilmente il primo film che ha cantato il malessere dei giovani degli anni '80 ed anche '90, anticipandone frustrazioni, ansie, dubbi, fragilità e violenza, compagni inseparabili dell'attuale gioventù, riuscendo a non chiudere le porte alla voglia di vivere, di continuare a sperare, seppure amaramente.
    Per questo motivo mi è sembrato opportuno partire proprio da questo film, guida e punto di riferimento indispensabile nel cammino sulla cinematografia giovanile degli ultimi due decenni.
    È evidente che non si procederà su un unico versante, ma si tenterà un'analisi, il più possibile ampia e molteplice, cercando di dare voce alla svariata e confusa realtà dello spazio-giovani, di riunire insieme tutti i tasselli del gigantesco «puzzle giovanile», così come lo definisce Giancarlo Milanesi.
    Mai infatti, come negli ultimi quindici anni, il pianeta giovani si è presentato, ai nostri occhi, sotto le forme più svariate e contraddittorie, rendendo assai arduo riuscire a schizzarne un seppur provvisorio identikit. Esso può essere rappresentato come un volto a più facce, legate l'una all'altra indissolubilmente eppure contrapposte e nettamente diversificate, ognuna con una propria natura fisiognomica ben individuata, ognuna con una regola interna ben costituita.
    Per dare il giusto spazio a questa infinita natura, pur consapevole comunque di non riuscire ad esaurire completamente il discorso, ho suddiviso lo scritto in quattro paragrafi, i cui titoli si riferiscono a film particolarmente significativi sul tema in questione.

    LOST ANGELS

    Sicuramente la maggior parte della cinematografia sui giovani preferisce focalizzare la propria attenzione su una gioventù fragile e ribelle, violenta e insicura, i «lost angels», appunto, gli angeli perduti, la cosiddetta «gioventù bruciata», per dirla con un titolo di un film diventato ormai mito.
    Giovani «arrabbiati», alla deriva, alla ricerca di se stessi, giovani sbandati, confusi, privi di affetti familiari, come potrebbe semplicisticamente dedursi, con addosso una forma di malessere e di malcontento nei confronti della società, verso la quale segni di disadattabilità spesso sfociano in una insana, inconcepibile e quanto mai discutibile sete di violenza.
    In questo genere di film, come già avvenuto per James Dean, simbolo delle insofferenze, delle ribellioni dei giovani delle generazioni di tutti i tempi, tra attore e personaggio si viene a creare una totale, fascinosa, fatale aderenza, da far scomparire i confini tra vita reale e finzione cinematografica. Frequentemente, purtroppo, gli attori diventano schiavi e vittime allo stesso tempo degli eccessi dei loro personaggi: vedi i casi di Dennis Hopper, interprete del famoso «Easy Rider», di Mickey Rourke o di River Phoenix (interprete di «My own private Idaho»), per riferirsi ad esempi più recenti.
    Eroi segnati da un tristo destino, sempre pronto ad aspettarli dietro l'angolo, sognano una vita migliore, per molti difficilmente realizzabile.
    Prendendo spunto ancora una volta da «La febbre del sabato sera», si veda la scena in cui, davanti allo specchio, Tony si «agghinda» per recarsi alle danze, dando inizio alla sua trasformazione, da anonimo commesso in un negozio di vernici, al re della pista, capo di una banda di disperati come lui. Il sabato sera incomincia per lui e il suo gruppo la «vita», la «riscossa», potremo dire: una spedizione punitiva contro i portoricani, la discoteca e poi via, una corsa in automobile, verso il ponte, pronti ad un gioco di equilibrio che li diverte tanto, al limite tra la vita e la morte che per qualcuno non tarderà ad arrivare.
    Le scorribande notturne appaiono ai loro occhi grandi gesta, una sorta di riscatto alle proprie sconfitte.
    In film quali «Lost Angels», «Rusty il selvaggio», «Schegge di follia», la situazione non cambia di molto e, seppur con le dovute varianti, vengono presentate analoghe storie di giovani: la medesima crisi di identità; la voglia di riscatto; la disperazione che diventa coraggio nelle scorribande notturne che si trasformano in pericolosi giochi di morte; la paura che nel gruppo si muta in aggressività, nel desiderio di possesso del proprio territorio; il tentativo di emulazione nei confronti di quelle persone che vengono reputate eroi senza paura; un fatalismo oscuro e ineluttabile. Tim, protagonista del film «Lost Angels», imparerà a sue spese la vera natura del fratellastro che lui venerava, cercando di imitarlo ed eguagliarlo nelle imprese. Anche Rusty vede nel fratello il suo idolo, cerca di emularne le non proprio gloriose gesta, ma il destino è in agguato e Rusty, segnato da un tragico fato, pagherà amaramente la sua voglia di vivere libero e senza compromessi. Come già per Tony, anche Tim e Rusty ci vengono presentati come «bravi ragazzi», la cui purezza non viene intaccata dalle avventure vandaliche. J.D. invece, così si fa chiamare il protagonista del film «Schegge di follia», è un violento per natura, il regista non lesina di mostrarci la sua furia incontrollata e inspiegabile, solo nel finale sarà redento dall'amore sincero di una ragazza, grazie alla quale troverà il coraggio di dare un taglio netto alla sua vita.
    Spesso questi personaggi ci vengono presentati addirittura come «vittime» di una società che cammina ormai sempre più veloce e ha poco tempo da dedicare alle loro crisi e difficoltà di inserimento in essa. Tim, in una delle frasi più significative del film, dirà ad un certo punto: «Voglio solo un posto cui appartenere», espressione che la dice lunga sull'esigenza di adesione e connessione territoriale esterna ed interna di questi ragazzi.
    Possiamo classificare «Schegge di follia» e «Rusty il selvaggio» alla stregua di «Easy Rider», cioè «film on the road», mentre «Lost Angels» mantiene la stessa struttura narrativa di «Gioventù bruciata» e de «La febbre del sabato sera», con i momenti di tensione vissuti nelle «scene di casa»; i classici scontri generazionali; le avventure notturne (che siano «la corsa del coniglio», leggendaria scena del film con James Dean o il riuscire a mantenersi in equilibrio sui pilastri di un ponte, «divertimento» preferito dai protagonisti de «La febbre del sabato sera» o la sanguinaria lotta tra bande rivali in «Lost Angels» ha poca importanza); un forte desiderio di affetti e di amore e perfino un epilogo più roseo, che lascia intravedere un barlume di speranza. Non si modifica di molto la situazione se cambiamo scenario e sostituiamo la metropoli americana con le città di casa nostra.
    Così tra i bassifondi della città eterna, nel periferico e disastrato quartiere di Tor Bella Monaca, nel film «Notte di stelle», si incontrano personaggi e situazioni dal destino analogo. Anche per Carlo, tossicodipendente, come già per Rusty, il fato sarà beffardo e crudele, facendogli scontare definitivamente il suo debito con la società, dalla quale nulla o poco aveva ottenuto. Vani risulteranno gli sforzi di Lucio, filmaker e collaboratore del Centro Sociale del quartiere, né potrà qualcosa l'amicizia e il bagno di fiducia e ottimismo offertogli da Luana, nel cui spontaneo e sincero sorriso si nasconde tutta la sua voglia di vivere e di riuscire a tutti i costi.
    Anche per i protagonisti di «Crack» non ci sarà redenzione e possibilità di salvezza, la violenza chiama violenza, il sangue chiede altro sangue e vendetta in una escalation senza fine, come in una senechiana tragedia che non conosce catarsi, per chi non conosce altra legge che quella della bruta forza di mano.
    Anche per i giovani di «Ultrà» non esiste altra norma che la violenza, e la manifestazione sportiva si trasforma in valvola di sfogo per combattere il malessere del vivere quotidiano.
    Le tifoserie delle due squadre non diventano altro che «bande rivali», in un vero e proprio combattimento di guerriglia urbana, incivile rituale che si ripete alla scadenza di ogni incontro; vincere significa ottenere la supremazia del territorio, affermare la propria superiorità.
    Soli e disperati, ai margini delle strade vivono gli angeli... perduti nel buio e infido tunnel della droga.
    La cinematografia non ha tralasciato questo campo, affrontando il problema sotto vari risvolti: i rapporti con la famiglia («Figlio mio infinitamente caro», «Atto di dolore»); il film-inchiesta dai toni crudi e realistici («Christiana F. Noi i ragazzi dello zoo di Berlino», «Amore tossico»); rapporti di coppia, amori difficili e precari («Pianoforte»); terribili conseguenze della droga, AIDS, flagello del 2000 («Che mi dici di Willy?»).

    SENZA TETTO NÉ LEGGE

    Il cinema non ha trascurato di presentarci quei giovani che non esiterei a definire «senza tetto né legge», prendendo in prestito il titolo del significativo film della regista francese Agnes Varda. Viene così messa a fuoco la gioventù che vive ai margini delle strade, senza meta, senza fissa dimora, in una società nella quale non si riconosce, che rifiuta e da cui è rifiutata, dalla quale fugge, calpestandone le regole e non rispettandone le leggi.
    Monà, la protagonista del film suddetto, si fa portavoce di questa tendenza, lascia il suo lavoro di segretaria per vivere alla giornata, in una quotidianeità che diventa sempre più disordinata e caotica, in cui rifugge tutto ciò che appare stabile e sicuro. Vuole provare ogni tipo di esperienza, droga compresa, vivendo di espedienti e modesti lavori, alla mercé di chi generosamente le concede ospitalità, a stretto e diretto contatto con la Natura, madre di tutte le genti, simbolo per eccellenza di libertà, nel cui seno trova sostegno e protezione e nel cui abbraccio Monà si stringe per il suo ultimo, eterno rifugio.
    La disillusione e la ribellione nei confronti delle strutture istituzionali, il desiderio di porsi al limite della legge, se non addirittura contro di essa, spalancando quindi le porte al mondo dell'illegalità, «senza legge», appunto, diventa la sola possibilità di sopravvivenza in una società che sembra non lasciare scampo e che raramente offre possibilità di salvezza e di speranza.
    Così i protagonisti del film «Subway» vivono in una città sotterranea, dai colori grigi e spenti, senza cielo, senza nome, una città che scorre sotto i binari della metropolitana inglese, non ha strade, ma cunicoli, stretti e lunghi corridoi, mai raggiunti dai raggi del sole; in queste «vie» che sembrano non avere mai fine, spuntano specie di «appartamenti», locali di una sola stanza, sovente non arredata; il vuoto, la desolazione, lo squallore, il senso di non appartenenza alla città, la difficoltà di non inserimento nella società, l'incapacità e l'impossibilità di vivere all'interno delle sue regole ne costituiscono il paesaggio dominante.
    Gli abitanti di questa città sono tutti quei giovani che rifiutano o sono stati rifiutati dalla realtà ufficiale, che cercano nuovi spazi, non più aperti, colorati dai fiori e dal «giallo del sole», ma nascosti, bui, bagnati dalla pioggia e stabiliscono la loro «dimora» nei seminterrati.
    La parola legge non fa parte del loro vocabolario e vivono rubacchiando, mantenendo forte un alto senso di aiuto, alleanza e disponibilità. Emarginati, persino dalla strada, si sono costruiti un mondo a parte, regolato da norme interne, un mondo che ha scelto di non appartenere ai piani alti.
    Anche i protagonisti del film «Point Break» vivono «senza tetto né legge», ma mentre Monà, accompagnata solo dalla sua solitudine, vuole sfuggire alla stabilità e alla legalità della vita sociale, e gli abitanti dei sotterranei si sono costruiti una città su misura, i quattro di «Point Break» sfidano la società, la monotonia del quotidiano lavoro, vogliono vivere grandi emozioni, producendo «adrenalina al cento per cento», come amano ripetere durante le loro imprese più rischiose; sono beffardi, ironici, provocatori e non vivono di piccoli furtarelli come la popolazione della «città-subway» ma, con al volto le maschere che riproducono le effigie di quattro presidenti americani (Johnson, Carter, Nixon, Reagan) rapinano importanti banche, utilizzando il denaro ricavato per il loro passatempo preferito: il surf. D'inverno terrorizzano gli impiegati di banca, l'estate si divertono con il surf, provando emozioni sempre più forti e coinvolgenti. Le onde dell'oceano sono la loro dimora, la vita è avventura, rischio, sempre più alto, niente va preso sul serio, tutto va vissuto, assaporato intensamente giorno per giorno. Anche un giovane investigatore dell'FBI, messo alle loro calcagne, rimarrà affascinato dalla loro vita, riuscirà a far catturare la banda, ma non sarà del tutto dispiaciuto nel non aver braccato il loro capo, che riuscirà a scappare sulle spiagge australiane, concretizzando finalmente il suo sogno, di fare surf su quelle altissime e travolgenti onde dell'oceano. «Eroi al negativo», potremmo definirli, prendendo in prestito un'espressione cara agli esperti di fumetto, atta a definire quelle storie i cui protagonisti vivono ed operano ai margini della legalità o addirittura nella illegalità vera e propria. La loro forza sta nel fascino che emanano, in quel magico potere suggestivo che il male e la trasgressione da sempre continuano ad esercitare.
    La strada è lo spazio ideale di John Ryder, protagonista del film «The hitcher»; John riceve un passaggio in macchina dal giovane Jim Halsey che cerca di uccidere, ma il ragazzo riesce a mettersi in salvo. È l'inizio di un inseguimento allucinante, da incubo, in quella atavica lotta tra il Male e il Bene, John conosce solo la legge della violenza e del sangue e, il giovane, suo malgrado, si troverà invischiato nelle folli imprese di un pazzo che ha sete omicida. Ambientato nella California meridionale, che appare allo spettatore in una veste insolita, non più ricca di colori solari, ampia, infinita come la libertà, ma tetra, dai colori lividi, dalle strade estese e larghe che sembrano preannunciare le innumerevoli e celate direzioni da cui può giungere il pericolo.
    E il pericolo giunge all'improvviso, si nasconde sotto svariate e molteplici forme e un viaggio verso la tanto amata California, lungo le strade dell'America, alla ricerca dei luoghi - teatro degli omicidi più celebri d'America, si trasforma in un incubo senza fine, dominato dalla violenza e dal sangue. È quanto accade nel film «Kalifornia» (significativamente scritto con il K) a David e Michelle, i quali, nel tentativo di dividere le spese del viaggio con altri giovani, si ritrovano fatalmente a compiere il percorso con Early ed Adele, una coppia dall'aspetto e dal comportamento assai insolito. «Kalifornia» è un film attualissimo e agghiacciante, pare tristemente segnare le generazioni degli ultimi anni; nei primi piani di Early, nel suo sguardo fisso e penetrante, si ritrova la follia, l'inquietudine, l'insensatezza, l'incoscienza, la fragilità interiore, l'inconsapevolezza di chi compie gesti atroci come se fossero atti di normale vita quotidiana, di chi uccide con il gusto sadico del divertimento e si esalta alla vista del sangue. Nella sequenza iniziale, tristemente presaga, Early lancia da un'altura un sasso, sfondando il parabrezza di una macchina e uccidendo i due passeggeri, una giovane coppia; poi, raccolte le scarpe rosse della donna, le porterà in dono alla sua fidanzata. È una scena raccapricciante, in cui finzione cinematografica e vita reale sembrano fatalmente andare di pari passo e il film, amaramente, preannuncia i folli comportamenti ripetuti dai giovani lungo le nostre reti ferroviarie e stradali.
    Early è il rappresentante di quella gioventù incosciente, violenta e allo stesso tempo insicura e fragile, vive in un mondo dove non esistono né regole, né leggi, né tanto meno valori. Un po' selvaggi, un po' animali, soli, abbandonati, questi giovani compiono azioni inspiegabili senza riflettere sulle loro future, possibili conseguenze.
    Early non conosce redenzione e il regista ci lascia senza un briciolo di speranza, in una visione sempre più oscura nei confronti di giovani sbandati, senza valori, confusi, disorientati, spinti verso una escalation che non conosce tregua. L'attore Brad Pitt che dà corpo al personaggio di Early incarna perfettamente questo modello di gioventù e rappresenta il capostipite della nuova generazione di «attori maledetti». A differenza dei precedenti James Dean, Marlon Brando, Matt Dillon e John Travolta, Brad Pitt sembra non conoscere la strada della salvezza; non ha come gli altri un cuore puro, sincero e leale, la sua non è una ribellione al sistema e alle istituzioni alla ricerca di un mondo migliore, le sue «bravate» sono fini a se stesse, ed è per questo motivo che, più di ogni altro (vedasi anche il film «Thelma e Louise»), rappresenta il vuoto della generazione degli anni '90 cresciuta senza valori.
    Ritengo che una frase pronunciata da David possa ben sintetizzare la natura del personaggio di Early e racchiudere la mentalità di tanta gioventù odierna, senza tetto, senza legge e senza ogni limite: «Io non ho mai varcato quel limite. Credo che Early Greice non sapesse neanche che esistesse un limite da varcare».
    Dai buchi sotterranei della metropolitana inglese, da una tetra California, passiamo allo squallore, al grigiore, alla desolazione del quartiere Zen di Palermo. Qui vivono i protagonisti del film «Mery per sempre». I loro tetti sono gli anonimi e abbandonati appartamenti del tristemente famoso rione palermitano, enormi palazzoni di cemento; la legge che vige all'interno di quel luogo è quella della sopravvivenza e poi naturalmente l'eterna legge di mafia. Ecco allora i piccoli furtarelli, il traffico di droga, la prostituzione, ecco l'omicidio per vendetta, allora l'ingresso al carcere minorile diventa d'obbligo. Giovani cresciuti troppo in fretta, dagli sguardi intensi e profondi, cui la costanza, la determinazione del prof. Marco Terzi sarà solo una piccola luce in un tunnel oscuro. Il film lascia intravedere nella sequenza finale un barlume di speranza.
    La finestra della classe è aperta, fuori c'è un albero, simbolo della tenacia, della robustezza, della voglia di resistere, di lottare, nonostante tutto.

    UN MONDO SENZA PIETÀ

    L'indifferenza, l'apatia, il rifiuto di vivere, di lottare, la perdita di ideali, di valori, una abulica sfiducia verso il mondo intero, stanno diventando tessuto integrante di una parte di giovani che non crede più a niente. In questa passiva atmosfera si svolge la vita di Hippo, protagonista del film che dà spunto al titolo. Egli, mantenuto dal fratello, non studia, non lavora, è sfiduciato nei confronti di un mondo che non dimostra pietà per gli uomini, rinuncia ad un amore sincero e ad una nuova vita.
    Hippo è il simbolo di quella generazione stanca della vita, annoiata, delusa, inerte, abbandonata a se stessa, senza più forza, né speranze, disillusa del cosiddetto «mondo adulto», che rifiuta e dal quale si sente estranea perché non è in grado e non vuole assumersi responsabilità.
    Hippo non affronta la vita con coraggio, la rifiuta e rinuncia ad essa, osserva la vita dietro i vetri di una finestra, senza esserne coinvolto pienamente. Il regista ha così, significativamente, definito il suo personaggio: «È un eroe il cui unico eroismo è l'atteggiamento di rifiuto nei confronti della vita». Questa tendenza sta diventando purtroppo sempre più diffusa nella realtà generazionale di oggi, che pare nutrire un atteggiamento fortemente indifferente e passivo nei confronti della vita, ormai priva di attese.
    Non appare poi così lontano il giorno in cui l'indifferenza potrebbe portare ad uno stato avanzato di completa deresponsabilizzazione e menefreghismo, in quel caso si perdono di vista i veri valori della vita, svaniscono i sentimenti, niente più conta e la paura di crescere, il rifiuto di inserirsi nel mondo del lavoro e di affrontare un serio confronto con la «società degli adulti», si trasformano in arroganza, violenza, desiderio di un guadagno subitaneo e facile.
    Ecco allora il caso di chi come Vittorio nel film «I pavoni», la cui storia è liberamente ispirata alla tragedia di Pietro Maso, uccide, insieme ad un gruppo di amici, i genitori per poterne riscuotere l'eredità e continuare, senza lavoro, a fare la bella vita: un esempio traumatico ed agghiacciante, in cui è la realtà a superare la fantasia. Si apre un vuoto, una ferita lacerante e, colpiti profondamente i sentimenti più sacri, questo mondo veramente diventa senza pietà.
    Se Vittorio cerca nel denaro e nel successo le proprie, uniche affermazioni, incapace di affrontare dignitosamente la sua vita e il passaggio all'età degli adulti, i protagonisti del film «Il branco» riversano nella coinvolgente e seducente realtà del gruppo le proprie insicurezze e disillusioni che, scaricate, diventano rabbia cieca, violenza, furia inumana. Allora il gruppo diventa «branco», nel quale i nostri cinque, bravi ed insospettabili ragazzi, fanno emergere i loro più bassi ed animaleschi istinti, attraverso una filosofia di vita secondo la quale nel «branco» tutto diventa possibile e lecito, persino ciò che da soli non si sarebbe mai neanche immaginato.
    Anche il protagonista di «Teste rasate» cerca nel gruppo dei naziskin un'affermazione, un modo per emergere dalla propria grigia, vuota, fallimentare vita quotidiana.
    Se da una parte ci confrontiamo con «ragazzi in celluloide» che non hanno alcuna pietà, dall'altra assistiamo allo stesso tempo ad una generazione giovanile cui non viene riservata alcuna pietà.
    È il caso del film «Little Odessa», il cui protagonista Joshna, un giovane killer, ritorna nel quartiere russo di New York, dal quale era fuggito alcuni anni prima, dopo aver ucciso un boss del luogo e dopo l'acuirsi dei contrasti con il padre. Joshna è un personaggio complesso e contraddittorio, spietato e crudele nel suo lavoro, affettuoso e tenero vero la madre e il fratello minore. Vorrebbe smettere, tornare indietro, ma capisce che ormai è troppo tardi e continua a vivere così, chiudendo ogni porta alla speranza. È un film amaro, pervaso da una forte dose di pessimismo. Invece una piccola finestra sembra aprirsi per la protagonista del film «Nikita». Da tossicodipendente - omicida ad assassina su commissione per conto dei servizi segreti; terminati i tre anni di addestramento, reinserita nella società, Nikita, completamente trasformata, incomincia a prendere gusto alla vita e tenta di ricostruirsi un'esistenza uguale a quella di tante giovani nella sua età. Scopre l'amore e, per un certo periodo, riesce a mantenere una duplice personalità: a casa giovane donna innamorata e felice, fuori, killer spietato e senza pietà, ma, dopo l'ennesimo omicidio, si rende conto che non può più vivere una doppia vita e decide di abbandonare tutto e tutti per fuggire lontano dove nessuno la conosce e la può cercare, per vivere finalmente la sua vita e scoprire la sua vera identità.
    Se Joshna in «Little Odessa» non aveva trovato il coraggio di voltare pagina e va inesorabilmente incontro a un cieco destino, Nikita, dopo aver pagato a caro prezzo il suo debito con la giustizia, rappresenta la speranza di chi trova la determinazione di dire basta e di ricominciare.
    Una disperata solitudine, un senso di vuoto, di abbandono pervadono il film «L'aria serena dell'Ovest», i cui personaggi, giovani che vivono in una fredda ed immobile Milano, sono immersi in uno sconfortante anonimato.
    Il titolo del film assai significativo sta ad indicare che, mentre nell'Est tutto è in fermento, all'Ovest, invece, tutto è incredibilmente fermo ed immodificabile. Così questi giovani, più che vivere si trascinano all'interno di un'esistenza che sembra non offrire loro certezze e possibilità di sorta, chiusi in uno sfrenato consumismo, in un apparente benessere, in cui i sogni sembrano morire all'alba.
    Qualcuno troverà la forza di reagire e di rialzarsi, di dire no alla superficialità e alla futilità dei rapporti, altri invece non avranno lo stesso coraggio e verranno sempre più inglobati nel ciclo massificatorio e spersonalizzante della cosiddetta «società dei consumi».
    La voglia di rifarsi una vita è il desiderio di Alia, giovane immigrata russa che cerca a Roma, nel film «Un'altra vita», un'esistenza migliore. Un amaro sentore di infelicità, di tristezza, di disperata solitudine, un senso profondo di scontentezza nei confronti di una vita ingenerosa ed avara avvolge tutti i personaggi dei film. Saverio, un giovane dentista, si innamora di Alia, cercando di colmare il vuoto delle sue giornate. Mauro è attratto da guadagno facile e senza scrupoli, il suo volto il suo sorriso di bambino contrastano con la furia violenta e quasi animalesca delle sue azioni, è anche lui solo, disperatamente solo e, insieme ai suoi amici, vaga da un locale all'altro in una Roma notturna deserta e squallidamente abbandonata. Alia è debole, fragile, insicura, come tanti nelle sue condizioni, non ha trovato a Roma ciò che desiderava. Tre personaggi, tre giovani esistenze provenienti da ambienti e situazioni diverse, avvolti e accomunati da un'unica coltre di nebbia nel grigiore quotidiano di chi vive in «un mondo senza pietà» e cerca disperatamente «un'altra vita».

    IL RAGGIO VERDE

    Il raggio verde è un fenomeno atmosferico che si verifica solo in particolari condizioni metereologiche e logistiche. Non capita facilmente di vederlo; una delle località in cui lo si può osservare è Biarritz, sul litorale occidentale francese e, come vuole la tradizione, tramandataci da Jules Verne, chi assiste alla sua visione, vedrà esaudito un desiderio.
    È quanto accade a Delphine, la protagonista dell'omonimo film diretto dal maestro francese Rohmer. Timida, insicura, scontrosa, estremamente sensibile, Delphine soffre enormemente la solitudine e, ormai alle soglie dell'estate, non sa con chi trascorrere le vacanze. La sua timidezza non le consente di fare amicizia facilmente e, mentre tutti non pensano che a divertirsi e si buttano in avventure occasionali, Delphine accusa maggiormente il suo stato di solitudine e la mancanza di un rapporto stabile e duraturo. Quando tutto sembra andare per il verso sbagliato, ecco improvvisamente l'incontro che attendeva da tempo: il grande amore. Delphine riacquista fiducia in se stessa e voglia di vivere.
    Una storia semplice, quasi banale che mostra una gioventù alle prese con le piccole-grandi difficoltà del quotidiano.
    Delphine conduce «un'esistenza normale», quasi anonima, comune a tanti e tanti giovani della sua età: ha un lavoro sicuro, vorrebbe solo trascorrere una vacanza riposante e serena, avere delle amicizie sincere e fidate e trovare un ragazzo. Più normale di così! Forse non sono questi i desideri di molti giovani? Di quei giovani che costituiscono, fortunatamente, la maggioranza della «popolazione giovanile» che non fa parlare di sé attraverso la cronaca nera dei giornali?
    Il cinema ha dedicato una pagina, seppur breve, anche a questa parte di mondo giovanile, quella nelle cui vicende molti di noi si possono rispecchiare e incontrare in un comune destino. Storie apparentemente banali e vicine alla vita vera, storie in cui non si vivono i grandi drammi ma i piccoli, giornalieri drammi legati a quelle «semplici-importanti» scelte che ognuno di noi è costretto prima o poi a fare.
    Così anche Blanche e Léa in «L'amico della mia amica», ancora di Rohmer, vivono le stesse vicissitudini e, attraverso un cinema cosiddetto minimalista, in una girandola di incontri, scambi, abbandoni, che nulla ha da invidiare alla costruzione del teatro leggero francese, vedranno rafforzare la loro amicizia e troveranno il vero amore.
    Piccole storie di vita autentica, con personaggi timidi come Delphine e Blanche o estroversi come Léa, il racconto di una gioventù i cui giorni sembrano scorrere monotoni, in modo quasi insignificante, così simili e vicini al comune quotidiano tran tran.
    Il raggio verde costituisce il filo conduttore che unisce le storie dei personaggi di questi film.
    Il raggio verde, cioè quel filo di speranza che si intravede sottilmente all'orizzonte è dedicato soprattutto a quella generazione di ragazzi che lotta ogni giorno con coraggio, fierezza, anche a rischio della propria vita o del proprio poste di lavoro, per un futuro più giusto e migliore. Piccoli, grandi eroi del vivere civile, le cui quotidiane gesta rimangono spesso oscurate dal clamore di una gioventù perduta e bruciata.
    Ecco allora i volti dei protagonisti del film «La scorta», giovani carabinieri che vengono destinati a fare da scorta ad un magistrato scomodo; la forza, il coraggio, la determinazione di chi vuole cambiare il mondo, di chi si ribella alla mafia, alla corruzione, alle tangenti non solo a parole, non con un atteggiamento di rifiuto, di opposizione al mondo intero, ma rischiando in prima persona.
    Allo stesso modo Antonio, non a caso ancora un carabiniere, protagonista de «Il ladro di bambini», dà tutto se stesso per aiutare, contro un sistema cieco ed ottuso, Rosetta e Luciano, due bambini affidatigli dopo l'arresto della loro madre, che aveva costretto la figlia a prostituirsi. Antonio riesce a conquistarsi a poco a poco la fiducia dei due ragazzi e, nonostante sia costretto dalla severa legge a portarli in Sicilia in un istituto, fa conoscere ai bambini per la prima volta quell'affetto che non avevano mai avuto e restituisce loro serenità, spensieratezza, ignota a chi, come loro, è stato costretto a bruciare troppo in fretta le tappe e a non assaporare le dolcezze e i bei giorni dell'infanzia. Antonio ha spirito di sacrificio, ha deciso di fare il carabiniere per aiutare la gente, si ribella alle stupide decisioni di una legge crudele e insulsa, è un giovane che ha negli occhi la speranza, negli sguardi dell'intenso volto di Enrico Lo Verso, il desiderio di non mollare, un «raggio verde» di fiducia anche nei momenti in cui tutto sembra crollare, ecco perché, nonostante l'amaro finale, è un vincitore verso se stesso e verso la vita.
    Una giovinezza spesa bene quella di Antonio, un esempio per tanti, un impegno serio e coscienzioso in un momento della vita così delicato.
    Sì, la giovinezza, una tappa determinante per ciascuno di noi, l'età felice dell'incoscienza e della libertà, in cui tutto è permesso, l'età verde, appunto, proprio perché è l'età dei sogni, delle promesse, non sempre purtroppo mantenute nella maturità.
    E proprio sui desideri non avverati, sui sogni che si scontrano davanti alla dura realtà, si centra il film «Volevamo essere gli U2». Proprio perché rappresenta la fine di questa età, mi riservo di concludere questa carrellata sull'universo giovanile cinematografico con una frase tratta dal film, assai significativa che ben sintetizza quel periodo così fragile, così drammatico, quel momento che segna il famoso «salto del fosso», non sempre facile a superarsi. Così dice uno dei ragazzi che avrebbero voluto essere gli U2: «La giovinezza è come una moneta d'oro che abbiamo sul palmo della mano. Piano piano ci scivola via e non la riusciamo più a prendere».

    Conclusioni

    La mappa che, pazientemente, quasi come Indiana Jones, si è seguita, ora è completamente leggibile. Certo per arrivare a questo punto non si son dovute superare le avventure del dinamico e famoso archeologo, ma si sono comunque percorse molte strade, incontrati molti volti e raccontate mille e variegate storie.
    Il ritratto uscito, sicuramente non esaustivo, risulta sfaccettato e diversificato: il cinema ci dice così come d'altronde la realtà, che non esiste un tipo di giovane in assoluto ma più giovani appartenenti a mondi diversi che, come la suddivisione in paragrafi effettuata dimostra, seguono più e varie regole, dentro o fuori la società. Ciò che sembra accomunarli tutti è quel senso di disagio, di difficoltà nei confronti di una vita che diventa sempre più complessa e problematica; qualcuno rischia in prima persona, altri continuano ancora a sperare, qualcuno è fragile e rimane inghiottito dalle maglie di una società-rete, per alcuni, invece, la violenza diventa l'unico strumento di comunicazione. È, come già detto inizialmente, un «puzzle», un puzzle costruito con tanti tasselli che si uniscono diversi, eppure così simili tra loro, per la realizzazione di un volto che appare quanto mai indefinito e indefinibile, a volte ricco di mille e diverse gamme di colori, a volte tristemente in bianco e nero. L'augurio, per dirla con una frase oggi diventata celebre, è che riescano ad andare «lì, dove il cuore li porta».


    FILMOGRAFIA ESSENZIALE

    - Un'altra vita, C. Mazzacurati, 1992
    - Le amiche del cuore, M. Placido, 1992
    - L'amico della mia amica, E. Rohmer, 1987
    - L'amore necessario, F. Carpi, 1991
    - Amore tossico, C. Caligari, 1983
    - Amori in corso, G. Bertolucci, 1989
    - L'aria serena dell'ovest, S.Soldini, 1990
    - Atto di dolore, P. Squitieri, 1991
    - Belli e dannati (My own private Idaho), G. van Sant jr., 1992
    - Cercasi Susan disperatamente, S.Seidelman, 1985
    - Che mi dici di Willy?, N. René, 1989
    - Christiana F., Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, U. Edel, 1981
    - Il colore dei soldi, M. Scorsese, 1986
    - Colpire al cuore, G. Amelio, 1982
    - Crack, G.Base, 1991
    - Un cuore in inverno, C. Sautet, 1992
    - Figlio mio infinitamente caro, V. Orsini, 1985
    - Giovani, carini, disoccupati, B.Stiller, 1994
    - The hitcher. La lunga strada della paura, R. Harmon, 1985
    - Impiegati, P. Avati, 1985
    - Kalifornia, D. Sana, 1993
    - Il ladro di bambini, G. Amelio, 1992
    - Little Odessa, J. Gray, 1994
    - Lost Angels, H. Hudson, 1989
    - Marrakesh Express, G. Salvatores, 1988
    - Mery per sempre, M. Risi, 1989
    - Un mondo senza pietà, E. Rochant, 1989
    - Nella mischia, G. Zanasi, 1995
    - Nikita, L. Besson, 1990
    - Notte di stelle, L. Faccini, 1991
    - Padre e figlio, P. Pozzessere, 1994
    - I pavoni, L. Manuzzi, 1994
    - Pianoforte, F. Comencini, 1984
    - La piccola ladra, C. Miller, 1988
    - La piccola Vera, V. Pichul, 1988
    - Point Break, K. Bigelow, 1991
    - Police, M. Pialat, 1985
    - Racconto di primavera, E. Rohmer, 1990
    - I ragazzi della 56 strada, F. F. Coppola, 1983
    - Il raggio verde, E. Rohmer, 1986
    - Rusty il selvaggio, F.F.Coppola, 1983
    - Schegge di follia, M. Lehmann, 1990
    - La scorta, R. Tognazzi, 1993
    - Scugnizzi, N. Loy, 1989
    - Senza pelle, A. D'Alatri, 1994
    - Senza tetto né legge, A. Varda, 1985
    - Il socio, S. Pollack, 1993
    - Soldati - 365 all'alba, M. Risi, 1987
    - Storia d'amore, F. Maselli, 1986
    - Subway, L. Besson, 1987
    - Il tagliaerbe, B.Leonard, 1992
    - Teste rasate, C. Fragasso, 1993
    - La timida, C. Vincent, 1990
    - Top gun, T. Scott, 1986
    - Ultrà, R. Tognazzi, 1991
    - Verso sud, P. Pozzessere, 1992
    - Vivere in fuga, S. Lumet,1988
    - Volevamo essere gli U2, A. Barzini, 1992
    - Wall street, O. Stone, 1988


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