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    Fede e esperienza religiosa



    Carlo Molari

    (NPG 1996-02-31)


    Nell'economia di questo dossier, il mio compito è quello di indicare la prospettiva teologica dell'esperienza religiosa e di esaminarne le componenti. Dovrei, quindi, fissare l'oggetto e introdurne i problemi, come li avverte chi vive l'esperienza religiosa nell'orizzonte della fede in Dio che si rivelato in Gesù Cristo. La stessa concezione di esperienza religiosa è diversa se elaborata all'interno di una fede in Dio o in altra prospettiva. La riflessione teologica, quindi, ha una sua specificità nei confronti delle analisi relative alle esperienze del sacro, che non si riferiscono a Dio e di quelle proprie alle altre scienze, come l'antropologia, la storia, la fenomenologia, la psicologia e la sociologia, che analizzano la religione con metodi e strumenti diversi. La riflessione teologica cristiana interpreta l'esperienza religiosa in un orizzonte dialogico o di alterità e insieme storico, in cui l'uomo si trova ad accogliere una parola ed un'azione che lo investono e lo sollecitano a nuove forme di umanità e alla propria identità di figlio di Dio.
    Occorre tener presente inoltre che la prospettiva teologica attuale è diversa da quella di altri periodi storici. Richiamarsi perciò alla tradizione cristiana non significa solo ripetere ciò che è stato detto nel passato, ma anche utilizzare strumenti inediti di analisi dell'attuale esperienza di fede compiuta dalle comunità cristiane nel mondo.
    Uno dei dati specifici del nostro tempo è una concezione nuova dello stesso lavoro teologico. Si è consapevoli che in teologia non ci si riferisce a messaggi celesti, ma ad esperienze umane; si parla di realtà umane, più che divine. Dio è incluso come termine del rapporto che l'uomo vive con lui. Anche se poi, nella riflessione, si conclude che l'esperienza è possibile solo per un'azione o iniziativa di Dio, il suo oggetto iniziale è sempre e solo una condizione umana.
    Contemporaneamente però la cultura ha acquisito la coscienza dei limiti della ragione. Questa acquisizione culturale ha rivalutato altri ambiti di conoscenza, in particolare il valore dell'esperienza non solo sensibile e psichica, ma anche spirituale.
    Una delle prime conseguenze di questi cambiamenti culturali ha riguardato il concetto di rivelazione. Quando si pensava che la rivelazione fosse una comunicazione di dottrine da parte di Dio agli uomini o di verità da credere, la teologia procedeva in modo deduttivo o almeno in modo speculativo. Partendo da affermazioni credute assolute, perché garantite da Dio, il teologo cercava di cogliere nelle affermazioni rivelate verità implicite e virtuali, collegandole in un sistema armonico. Se, invece, la rivelazione è concepita come una economia di eventi e questi sono il luogo dove la Parola creatrice risuona in modi sempre inediti, la memoria di una tradizione diventa narrazione di eventi salvifici e la testimonianza che induce fede è racconto delle esperienze salvifiche.
    Non possiamo richiamarci alla tradizione biblica o alla rivelazione divina per sapere che cosa sia esperienza religiosa, perché le notizie che ci sono pervenute nei libri della rivelazione e nelle tradizioni da loro riportate sono sempre segnate dai modelli culturali e religiosi di coloro che le vivevano.
    Anche le conoscenze di Dio o le esperienze religiose di uomini santi hanno un valore molto relativo per determinare che cosa sia esperienza religiosa. Esse infatti sono sempre di carattere vitale, maturano nella esperienza e quindi seguono il processo della crescita personale e della stessa storia umana. Anche l'esperienza religiosa, quindi, ha una sua storia e non può essere considerata in modo astratto. Questa nuova situazione culturale impone alla teologia di tener conto della concretezza dei dati relativi all'esperienza religiosa e delle acquisizioni delle altre scienze che la analizzano.
    Fatte queste premesse generali esaminiamo ora brevemente le due componenti del nostro problema: l'esperienza e la religione, per poi presentare una analisi teologica dell'esperienza religiosa.

    ESPERIENZA E RELIGIONE

    Credo sia opportuno precisare i due concetti secondo la prospettiva da cui mi colloco.

    Esperienza

    Non credo sia necessario approfondire molto la nozione di esperienza, perché nella prospettiva del dossier essa non viene richiamata come strumento di conoscenza, nella logica cioè dell'induzione, ma semplicemente come uno specifico ambito di esercizio vitale, che prendiamo in considerazione per una particolare attenzione operativa, in vista cioè di interventi pastorali. Esperienza designa generalmente un modo empirico di conoscenza, ma noi qui non ne discutiamo il suo valore in ordine ad acquisizione di dottrine, ma la esaminiamo come un particolare ambito di vita. Esperienza include pure la consapevolezza del proprio atto di percezione per cui, in senso esatto, ci riferiamo all'esperienza come riappropriazione riflessa del proprio vissuto religioso.
    Vorrei ancora ricordare che la certezza indotta dall'esperienza non è mai riconducibile pienamente alla chiarezza intellettuale o alla logicità della ragione. Essa procede infatti da acquisizioni emergenti per sintonie vitali e per connaturalità ed ha quindi un proprio specifico carattere di evidenza.
    Possiamo ancora ricordare che a volte la conoscenza concettuale, perché indotta da altri, precede la sperimentale, ma generalmente l'esperienza precede il concetto e lo rende possibile. Siccome una persona può avere riguardo allo stesso oggetto alcune conoscenze concettuali e altre sperimentali, che sono state acquisite in modo e secondo ritmi diversi, capita spesso che nelle riflessioni su un particolare argomento, come la religione, si intreccino contenuti ambigui e confusi, perché ci si richiama a categorie desunte da ambiti conoscitivi diversi. Non sempre inoltre si tiene conto delle crisi e delle mutazioni che tutti i modelli religiosi subiscono nello sviluppo delle esperienze lungo gli anni della maturazione personale.

    Religione

    Quando si parla di esperienza religiosa si considera la religione come virtù e insieme come struttura di appartenenza. Come virtù la religione, in questo contesto, designa il complesso degli atteggiamenti che esprimono e sviluppano la fede di Dio. In termini più esatti: il rapporto comunionale con Dio (ordo ad Deum) vissuto ed espresso in atti che mirano all'adorazione e glorificazione di lui.
    Come struttura la religione è l'organizzazione operativa di quelle comunità che nascono e si sviluppano attorno all'esercizio della fede in Dio. Essa quindi è il complesso dei simboli che richiamano gli ideali assoluti dell'esistenza (che hanno in Dio il loro fondamento) e che ne verificano il significato nelle diverse fasi della crescita personale e del cammino storico. Il complesso simbolico svolge anche il ruolo di socializzazione delle persone nella comunità, di cui quindi garantisce l'unità. Ogni gruppo umano, che abbia ideali e quindi traguardi storici da perseguire, necessariamente ha simboli e rituali per formulare gli ideali accolti, per riordinare le interpretazioni degli eventi, per dire la speranza comune, per evocarne le ragioni e per fondare i rapporti in ordine alla loro realizzazione. Ogni comunità quindi attraverso i suoi simboli vitali esprime una fede, si struttura nella sua identità e si rinsalda nell'unità.
    Come non può svilupparsi esistenza umana senza una fede, così non può esistere una fede senza ritualità simbolica. Che la fede debba ricorrere a simboli per mantenersi viva, per dirsi e per svilupparsi, dipende dal fatto che le realtà alle quali essa fa riferimento, non possono essere compiutamente percepite né mai espresse direttamente, essendo sempre più ricche delle situazioni in cui l'uomo si trova e quindi sempre oltre la portata delle sue forme espressive. I simboli richiamano la memoria degli eventi attraverso i quali gli ideali sono emersi, ne anticipano nella speranza la piena attuazione e rinsaldano i rapporti fra i diversi soggetti che, vivendo insieme, li debbono realizzare.
    Anche per la fede in Dio i rituali sono momenti essenziali. La religione perciò è strutturata come complesso di simboli attraverso i quali l'uomo vive la propria condizione di creatura e si immerge ogni giorno nel flusso della vita che lo investe e lo porta al suo destino.

    Esperienza religiosa

    Per chiarire l'esperienza religiosa occorre partire dai dati fondamentali della nostra condizione di creature.
    Quando comincia a riflettere sulla propria esistenza, l'uomo scopre all'origine di ogni suo movimento, cose, situazioni, persone diverse da lui. Egli si muove perché chiamato o sollecitato da altri, che lo coinvolgono in nuove avventure di vita, lo spingono oltre se stesso e gli suscitano il fascino di traguardi inesplorati. Questa scoperta comporta la caduta del sogno narcisista, l'illusione cioè di essere il tutto e di bastare a se stessi, e costituisce perciò la prima grande delusione dell'esistenza.
    Una delle esperienze più drammatiche dell'uomo è appunto la scoperta della sua precarietà. Nessuno, quando viene al mondo, ha in se stesso le forze sufficienti per crescere. Egli può diventare persona solo per le continue offerte vitali che gli pervengono attraverso gli incontri e i rapporti. L'equilibrio dell'uomo perciò è instabile e precario, condizionato com'è da continue offerte a livello fisico-chimico, biologico, psichico. Basta un semplice cambiamento nelle condizioni esteriori, perché la sua esistenza sia messa in causa. Ma più ancora egli ha urgenza assoluta di essere amato: se l'amore non raggiunge un livello minimo, l'uomo non può sopravvivere.
    Ma dalle stesse realtà che offrono un sostegno alla sua insufficienza, l'uomo viene sempre rinviato oltre la condizione in cui si trova. Tale rimando si realizza in modi molto diversi secondo le età e le circostanze. Prima o poi, perciò, anche quando le conquiste della vita corrispondono ai desideri alimentati, l'uomo coglie una loro radicale insufficienza e continuamente viene rimandato avanti: è l'esperienza di essere creatura. Tale esperienza ha una doppia faccia: interna ed esterna.
    La faccia interna conduce alla certezza: io non sono la vita, quella esterna alla conclusione che la vita è. Per giungere alla certezza di non essere la vita l'uomo deve percepire di essere in un continuo processo di crescita di cui egli non possiede la fonte. Per concludere che la vita è, egli deve percepire l'energia vitale come una forza positiva che lo attraversa e la cui fonte è più ricca di quanto egli possa immaginare.
    Per poter vivere intensamente occorre che egli prenda coscienza di questa condizione e che la accetti senza riserve. I rituali religiosi dovrebbero maturare questa consapevolezza per rendere capaci di accogliere gioiosamente i doni di vita.
    L'esperienza religiosa consiste appunto nella percezione della fonte inesauribile della vita e nella certezza, quindi, che i beni vitali vengono alimentati in ogni situazione, a condizione che si assumano congrui atteggiamenti. Nell'esperienza religiosa quindi «il soggetto ritiene di sperimentare ciò che crede essere la realtà ultima o suprema delle cose e il nostro modo di essere rispetto alla medesima» (Vagaggini).

    OGGETTO DELL'E.R.

    Parlando dell'esperienza religiosa dobbiamo sempre distinguere i dati soggettivi, cioè gli atti personali, e il loro oggetto. Questo, infatti, suppone sempre una interpretazione e ingloba quindi una componente soggettiva. Noi attingiamo la realtà solo attraverso la mediazione di modelli interpretativi e delle rappresentazioni che ce ne facciamo. Anche nell'esperienza religiosa non percepiamo Dio nella sua realtà trascendente, ma prendiamo coscienza delle dinamiche sollecitate in noi da stimoli di creature, che interpretiamo come simboli o rivelazioni di Dio. Ogni manifestazione della Parola o della forza (Spirito) di Dio diventa creatura, e solo incontrando creature siamo in grado di percepire echi di Parole più grandi e di accogliere doni di vita eterna. Le risposte alle domande fondamentali della vita, quindi, nascono dal profondo della storia umana e scaturiscono dall'esperienza di ogni persona. Vengono dalla storia, perché nessun uomo basta a se stesso: egli deve avere riferimenti sicuri già consolidati dalla verifica delle generazioni precedenti. Ma risuonano nell'esperienza, perché non sono sufficienti le parole a farla scoprire.
    Che la vita umana sia fondata, abbia cioè una fonte, lo si può dimostrare anche argomentando, ma tale eventuale conclusione non è sufficiente alle decisioni dell'esistenza. Lo si deve scoprire nella profondità della propria esperienza, intrapresa per l'influenza di testimoni inseriti in una tradizione storica e lo si può mostrare agli altri nella trasparenza della propria vita fedele. Per questa scoperta non ci sono altre alternative praticabili. D'altra parte ogni situazione quotidiana la può consentire: è sufficiente avere riferimenti ideali chiari per vivere intensamente la condizione in cui ci si trova, cogliendo a piene mani ciò che essa offre.
    Sono due i momenti fondamentali di questa scoperta: il primo è la forza dell'amore che dall'inizio ci nutre, il secondo è la forza della vita che, a nostra volta, esercitiamo.
    Quando siamo investiti da un amore incondizionato e gratuito, siamo in grado di andare oltre alla superficie del dono che ci è fatto. L'amore diventa come una «porta aperta sul cielo». Quando il figlio chiede il pane, egli vuole più del pane e chiede amore, ma quando chiede amore egli pone domande sul Bene. Perciò quando i genitori offrono cibo, cultura o svago essi sanno che tutto ciò non basta. Essi debbono offrire amore, ma in modo tale da far sentire che il Bene esiste ed è più grande di loro.
    Quando a nostra volta attraverso gesti di un amore disinteressato apriamo orizzonti nuovi alla nostra esistenza, o quando fidandoci della Giustizia compiamo le nostre scelte con rigorosa onestà ed evitiamo inganni, o quando abbandonandoci alla Verità, superiamo compromessi, allora avvertiamo, senza ombra di dubbio, che il Bene fonda la nostra vita e siamo in grado di cogliere il fine del nostro cammino e sperimentiamo con evidenza che la nostra ricerca ha una ragione reale.
    Attraverso l'esperienza religiosa quindi, all'interno della sua tensione di vita, l'uomo coglie un Amore, che si offre sempre in una situazione storica, e ne accoglie un dono, sufficiente per intravvedere la sua fonte e per rinnovare la speranza in una risposta ulteriore, anche se mai, in sé, pienamente esauriente. Per questo motivo i valori assoluti, cui l'uomo nella fede si abbandona, acquistano caratteristiche diverse secondo le varie situazioni della storia umana, e la fede in Dio non ha sempre i medesimi contenuti. Le modalità che essa acquista, con cui si vive la fede in Dio, sono quindi diverse secondo le molteplici stagioni dell'esistenza. Per questo la vita riserva all'uomo sorprese continue e assume forme inedite, quando trova persone accoglienti e fedeli.
    Il valore di una ritualità religiosa sta appunto nella validità delle esperienze che può offrire attraverso i suoi simboli e nella ricchezza della tradizione che essa riflette. Ogni rito religioso richiama figure di testimoni e invita ad una verifica per la scoperta del fondamento reale della nostra esistenza per lo sviluppo armonico di tutte le componenti spirituali. La verità di una religione, quindi, non sta primariamente nelle sue dottrine, cioè nelle interpretazioni che offre del mondo o dell'uomo, ma nei valori per cui sollecita la fede e nella efficacia dei suoi rituali simbolici. Questi, per essere completi, devono far capire in modo esauriente la condizione umana per farla vivere con gioia. In particolare debbono esprimere la precarietà della vita umana, inquadrare e rendere sensata l'esperienza della morte, alimentare continuamente la tensione trascendente del cuore indicandone il fondamento.

    Senso di appartenenza e di dipendenza

    Il culmine dell'esperienza religiosa, quando si sviluppano armoniosamente tutte le sue componenti, è, da una parte, la percezione dell'appartenenza a un Tutto, come una immersione nell'oceano dell'essere, e dall'altra il fluire di un dono che alimenta la vita consegnandoci alla nostra condizione di creature redente dal nulla dell'origine e dal peccato della storia.
    Il nucleo centrale dell'esperienza religiosa consiste appunto nel percepire di essere parte di un'avventura più grande, inseriti in una storia vitale molto più ricca e densa, avvolti da una energia immensa. Anche R. Garaudy, a 80 anni, al compimento del suo cammino spirituale ha compreso che la vita di fede «è l'esperienza di una chiamata ad essere di più, è la presa di coscienza di una forza che è in noi senza appartenerci... Questa esperienza non può essere descritta con concetti o con parole, come quelli che ci consentono di definire le cose già presenti o già esistenti». Egli ammette che è possibile pervenire alla radice di questa esperienza senza mai nominare Dio o l'assoluto, ma sostiene che, in ogni caso, essa esige che l'uomo oltrepassi gli ambiti della ragione fino a vivere una fede che egli pervenga all'amore oblativo così da superare le barriere dell'io e da cogliere il centro della persona, e infine essa esige che l'uomo percepisca la trascendenza della vita. Questa consiste nel fatto che io prendo coscienza «di una realtà che mi sovrasta e alla quale io appartengo, nella quale io divento uno con il tutto».
    Riprendendo una formula di David Steindl-Rast, un monaco benedettino americano, possiamo affermare: «Siamo alla ricerca di senso, di appartenenza, e ciò vuol dire che stiamo tutti esplorando il territorio Dio... Se noi apparteniamo a Dio, Dio appartiene a noi.
    Ci troviamo all'interno di una relazione».[1] In modo molto generale quindi si potrebbe definire l'esperienza religiosa come la percezione di essere alimentati da una Energia personificata che ci attraversa e ci costituisce viventi, senza che perdiamo la nostra condizione di creature.

    DIMENSIONI DELL'E.R.

    Per capire queste affermazioni possiamo analizzare i tre livelli dello sviluppo integrale della persona: fisico, psichico e spirituale.
    L'ambito fisico, che riguarda il corpo e tutte le sue esigenze biologiche, segue leggi rigorose ed assolute. Ma già le offerte necessarie allo sviluppo fisico e biologico (il cibo, l'aria, il vestito, la casa, ecc.) debbono essere accompagnate dalla vicinanza amorosa di persone che stimolano la creazione di nuovi spazi vitali. Il mondo psichico è sviluppato appunto da queste stimolazioni affettive. Esse creano nella persona lo spazio delle conoscenze e delle libere scelte. L'apprendimento di un linguaggio e il necessario inserimento in una tradizione culturale offrono gli strumenti per l'ampliamento degli ambiti conoscitivi e operativi della persona. Le conoscenze e le scelte potenziano il mondo psichico, e sollecitano l'ampliamento della coscienza all'ulteriore livello: quello spirituale.
    Gli orizzonti della fede o degli ideali perseguiti dalla persona costituiscono il nuovo ambito vitale nel quale cresce l'uomo definitivo. Essi sviluppano processi di inserimento in una tradizione culturale, sostenuti da strutture comunitarie.
    Ma le offerte vitali possono essere accolte solo attraverso processi attivi di assimilazione, che richiedono ampi spazi interiori. Crescere perciò è imparare a interiorizzare i doni degli altri, è intrattenere rapporti intensi per accogliere tutte le offerte vitali. La vita spirituale è costituita, quindi, dai processi con cui la persona interiorizza i doni che essa riceve nel suo cammino di crescita, all'interno di una tradizione culturale e religiosa. La vita spirituale è appunto la crescita dell'uomo interiore (cf 2 Cor 4, 16; Ef 3,16), fino alla identità personale, completa e definitiva, di figlio di Dio.
    Mentre, quindi, nella dimensione biologica la persona si percepisce determinata dalle cose e dagli altri, e nell'ambito psichico si coglie come soggetto attivo, nello spazio spirituale essa avverte una presenza altra da sé, che fonda la sua realtà, rende possibile una nuova consapevolezza e permea tutte le sue azioni. Egli avverte di non essere lui a conoscere, amare, agire, ma percepisce una forza vitale, che lo pervade e in lui si esprime.
    Mentre l'ambito corporale è caratterizzato dalle leggi della fisica e della biologia, e quello psichico è qualificato dalla coscienza di essere principio attivo di conoscenza e di decisioni, l'ambito spirituale è segnato dalla coscienza di una forza che fluisce dal di dentro e si dipana attraverso le molte dimensioni della persona. Chi attiva il livello spirituale coglie le creature, attraverso cui pervengono gli stimoli di vita e i doni di identità, non come fonte, bensì come spazio entro cui si esprime in modo unico e irrepetibile la Parola di vita Per questo i gesti delle creature appaiono come simboli, perché riflettono e richiamano una Realtà altra, la cui azione tutto alimenta e sostiene.
    Le ritualità religiose rappresentano l'allenamento a vivere secondo la dimensione spirituale dell'esistenza e realizzano un ampliamento progressivo dell'interiorità. Quando si trascura questo aspetto, la vita spirituale diventa pigra e superficiale, l'interiorità si contrae, e l'esistenza umana perde spessore.
    Ma spesso succede anche che nello sviluppo personale ci si fermi al livello psichico e morale, senza dare spazio alla dimensione spirituale. In tale caso la fede in Dio viene ridotta a dottrine, la religione viene vissuta in modo superficiale, ridotta all'esteriorità dei riti o a recita di formule, ad osservanza di prescrizioni o ad esecuzione di leggi.
    Ogni grande religione è stata attraversata dalla dialettica tra queste due polarità, che a loro volta possono assumere connotazioni diverse, anche all'interno di uno stesso orizzonte culturale. L'appartenenza può essere fondata sulla accettazione di dottrine e non sull'esercizio della fede in Dio o sulla esperienza religiosa. La religione può essere vissuta o solamente come rapporto con un Dio trascendente, o semplicemente come ingresso nel santuario interiore, dove ci si trova di fronte al mistero del proprio destino. Analogamente l'esperienza religiosa può esprimersi come accoglienza pura e silenziosa della vita che si espande, ovvero come puro esercizio attivo di un dialogo con Dio, cantico della sua lode, obbedienza alla sua parola. In realtà ciascuna di queste componenti è essenziale, ma deve integrarsi e arricchirsi nell'altra: ogni atto religioso deve coinvolgere l'interiorità profonda e deve esprimersi nei rapporti.
    Non si può negare tuttavia che di fatto alcuni sottolineano talmente la soggettività umana da dimenticare la trascendenza che la fonda e il dialogo che la concretizza, mentre altri conferiscono una tale importanza alla trascendenza e ai rapporti da trascurare la componente soggettiva.
    Quando si vive solo un aspetto della religione, insorgono squilibri personali e si inducono conflitti nella società. L'uomo si ripiega su se stesso, dimentica di essere creatura e non cura i rapporti, luogo delle offerte quotidiane di vita, ovvero fugge nell'immaginario, o viene trascinato nel vortice delle opere buone nelle quali finisce per identificarsi. Una società priva di alimento spirituale si disgrega e non offre i necessari stimoli di vita alle nuove generazioni. Una religione che voglia essere salvifica deve costituire un ambito vitale per la crescita di tutte le dimensioni personali. Il luogo di questo sviluppo è il cuore dell'uomo, la sua interiorità, mentre lo spazio delle offerte vitali è il dialogo. Come sono inutili i rapporti se non ci sono ambiti per l'interiorizzazione dei doni, così è sterile il cuore se non si apre alle offerte vitali che fluiscono dalle altre creature. Non vi è quindi esperienza religiosa autentica che non supponga spazi interiori, e non si alimenti nei rapporti o non avverta l'esigenza della solidarietà.

    COME DIRE L'E.R.

    Le riflessioni che oggi facciamo sull'esperienza religiosa si svolgono in un nuovo orizzonte culturale. Dopo la svolta linguistica della cultura siamo consapevoli dei limiti delle nostre formule relative a Dio e dei nostri simboli teologici.
    Vi sono tre tipi fondamentali di simboli per esprimere una fede: iconici, gestuali, verbali. Il credo e le diverse formule di fede appartengono all'ambito dei simboli verbali, i sacramenti ed i riti all'ambito gestuale, le immagini e le raffigurazioni sacre all'ambito iconico.
    Ogni simbolo ha due riferimenti essenziali: l'esperienza vitale di cui parla, e l'orizzonte culturale in cui è inserita come segno. I simboli, infatti, significano per il rapporto che hanno con le altre componenti del sistema espressivo (linguistico, rituale e iconico) e con le altre formule del complesso dottrinale cui appartengono.
    L'orizzonte culturale, da cui trae significato ogni simbolo umano, è in continuo movimento. Le simbologie della vita perciò devono continuamente adeguarsi alla vita che si sviluppa e agli orizzonti culturali che la esprimono. Quando questo adeguamento è in atto, il rituale religioso alimenta la vita e permette lo sviluppo armonico delle società umane. Altrimenti si riduce a semplice formalità, a folclore, a tradizioni pie e facilmente degenera in superstizione.
    Le espressioni dell'esperienza religiosa si caratterizzano o per una prevalente incidenza della dimensione concettuale o per una rappresentazione di tipo esperienziale, che a sua volta può essere molto annebbiata, oscura, incerta, o intuitiva e chiara.[2]
    Solo le simbologie ierofaniche consentono la conoscenza intuitiva ed esprimono il divino in modo proprio. Tutte le altre sono simbologie metaforiche, in cui il segno è talmente preponderante nel proprio significato da nascondere la realtà cui rimanda. In questo caso la conoscenza resta circoscritta alla realtà del significato proprio del segno e ha solo una vaga percezione di un rinvio ad altro che non viene conosciuto.
    La conoscenza delle realtà divine quindi in questi casi è analogica e di una analogia povera o debole perché si rifà a conoscenze di realtà create.
    La possibilità di simboli di Dio di primo tipo sta nella verità ontologica delle creature, cioè nel carattere che le cose hanno in quanto costituite dall'azione creatrice di Dio. La verità delle cose create non ha origine in loro, ma nell'archetipo divino che le fonda. Per questo ogni creatura porta in sé, anzi è, il sigillo di un trascendente che la costituisce, e che possiede in modo esauriente e pieno tutti gli elementi della sua realtà. Von Balthasar descrive bene questa condizione quando scrive nel 1° volume della Teologica: «Essendo l'archetipo in Dio... la creatura si sa sicura e coperta (geborgen) in quest'archetipo. Essa ha sì un'esistenza in se stessa, e questa esistenza ed essenza è una realtà in sé e per sé, che non è Dio; ma ha anche questa realtà in se stessa non fuori di Dio. È quello che è, unicamente nelle braccia del creatore. Una creatura non può neanche pensare indipendentemente dall'idea con cui Dio la pensa. L'idea della copia ha la sua misura nell'idea dell'archetipo, la prima idea passa ininterrottamente nella seconda idea. Se la creatura venisse nell'idea di considerarsi per un attimo fuori di Dio, comincerebbe subito [...] ad affondare: nel nulla che si trova sotto di lei. L'essere che ha, è un'esistenza ed essenza tenuta da sopra, sospesa sull'abisso del nulla».[3]
    I simboli teologici sono appunto possibili per il fatto che le creature sono presenti in Dio e sono pervase dalla sua azione creatrice. Esse esprimono quindi una presenza del divino di tipo ierofanico o sacramentale, e come tali sono simboli di Dio. L'uomo in particolare per l'altro uomo rappresenta il massimo simbolo divino che egli possa avere. All'uomo, infatti, il massimo che può essere rivelato di Dio è ciò che viene tradotto in perfezione umana. Tutto il resto sfugge necessariamente all'uomo e per sempre resta impenetrabile. La sua esperienza di Dio, quindi, e la conoscenza che l'uomo acquisisce in Lui, sono sempre proporzionate alla perfezione umana raggiunta dalle persone e dalle loro comunità. Esse sono cioè corrispondenti alle dimensioni di amore, di libertà, di interiorità conseguite nel lungo cammino dell'evoluzione umana. L'uomo, quindi, riesce a percepire Dio solo secondo la misura della sua perfezione. Conseguentemente, più cresce in qualità umane, più l'uomo riesce a ricevere rivelazioni e a parlare della realtà divina. Per questo le formule teologiche, più che di Dio, parlano dell'uomo al quale egli si rivela, o meglio parlano di quel tanto di umano che è contenuto nella Parola divina e che ha avuto la possibilità di emergere e di essere rivelato nella storia. L'umanità che è in Dio è quel tanto che di Dio può essere noto agli uomini. Però in Dio l'umanità esiste in modo molto più perfetto che nell'uomo, perché esiste come archetipo e in forma assoluta. Della perfezione umana che è in Dio, l'unica che ci è dato conoscere, noi percepiamo solo quella che è diventata carne. Il resto di Dio per noi è oscuro e non può essere neppure detto o simboleggiato, se non come diverso da ciò che è creato, in modo quindi solo negativo. In base a questi elementi l'uomo è in grado di cogliere ed esprimere il valore simbolico delle cose e i loro rapporti.
    L'esperienza religiosa quando viene espressa e tradotta in simboli riflette le dinamiche vissute, ma non sempre in tutta la loro completezza. In modo sommario ma sostanzialmente esatto Berger ha indicato come simboli della diversità delle principali religioni oggi esistenti, le due città di Gerusalemme e di Benares. La prima come simbolo della religione del dialogo e della alterità, la seconda come simbolo della interiorità religiosa. Egli scrive: «l'Asia occidentale è stata caratterizzata da un'esperienza del divino inteso come il Dio personale che parla all'uomo [...] Dio non si rivela dall'interno dell'uomo, ma dall'esterno, con gesti di incontro [...] Questo Dio si manifesta come persona, volontà, parola. Nell'incontro con il Dio che si rivolge a lui, l'uomo diventa consapevole di se stesso come uomo. Ciò comporta anche una fondamentale rottura fra l'uomo e il cosmo..., concepito ora come il teatro dell'azione di Dio e, nello stesso tempo, delle azioni dell'uomo. In altre parole, questa particolare esperienza religiosa è sia storicizzante, sia moralizzante... Se l'esperienza religiosa tipica dell'Asia occidentale si può chiamare di confronto, allora quella tipica dell'India è contrassegnata dall'interiorità. Il divino non si manifesta all'uomo dall'esterno, ma l'uomo lo deve cercare dentro se stesso come il fondamento divino del proprio essere e del cosmo. Qui il divino è metapersonale e al di là di tutti gli attributi, compresi quelli della volontà e della parola».[4]
    Credo che tali differenze riguardino l'interpretazione e l'espressione più che l'esperienza religiosa in sé. Questa infatti, quando è autentica, comprende tutte le componenti. La differenza dipende dal modello utilizzato per esprimerla. Da questo derivano poi tutte le forme che costituiscono la simbologia religiosa di una cultura. Certamente i simboli incidono nel modo stesso di vivere l'esperienza religiosa, ma non ne possono annullare le dinamiche profonde, che prima o poi rivendicano i loro diritti. Questo spiega perché l'attuale dialogo interreligioso consenta alle diverse religioni di utilizzare anche simbologie altrui, ma soprattutto stimoli le varie religioni a valorizzare aspetti fino ad ora trascurati.


    NOTE

    [1] Capra Fr - Steindl-Rast D., L'universo come dimora. Conversazioni tra scienza e spiritualità (Milano 1993) 116-117.
    [2] Eliade parla in questo senso di ierofania: «Per essere esatti il termine simbolo andrebbe riservato a simboli che prolungano una ierofania o costituiscono a loro volta una rivelazione»: Trattato di storia delle religioni (Torino 1972) 465.
    [3] Hans Urs v. Balthasar, Verità del mondo (Milano 1987) 264.
    [4] Berger P.L., L'imperativo eretico (Leumann-Torino 1987) 157-159.


    T e r z a
    p a g i n A


    NOVITÀ 2024


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    Competenze trasversali


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    nella letteratura


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    per formare ancora


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    rubrica sport


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    alla vita cristiana


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