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    Educare all'esperienza religiosa



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1996-08-8)


    Il titolo di questo mio contributo è molto ampio. Potrebbe indurre verso attese che non sono in grado di assolvere.
    Lo ridimensiono subito, ricordando i limiti che mi prefiggo e, soprattutto, la procedura logica con cui ho intenzione di lavorare.

    QUALCHE PREMESSA

    La prospettiva globale

    Molti si interessano dell'esperienza religiosa. Il fatto è analizzato da differenti punti di vista e con strumenti di lavoro diversi. Purtroppo, però, è abbastanza facile parlarne con la pretesa, più o meno esplicita, di esprimere una valutazione globale, anche se è utilizzato un approccio solo parziale. Per non cadere nello stesso rischio, dichiaro il mio punto di vista. Do così, in anticipo, il senso e il limite delle note che seguiranno.
    La mia è una ricerca di carattere metodologico in chiave pastorale.
    Il taglio «metodologico» indica come preoccupazione prevalente quella di suggerire alcune scelte concrete da realizzare per consolidare i segni positivi di esperienza religiosa che constato presenti nel mondo giovanile attuale e per integrare quelli carenti.
    La connotazione «pastorale» ricorda che mi interrogo sul «come fare», ponendo davanti a tutto, come criterio orientativo generale, l'orizzonte tipico di una riflessione pastorale.
    Lo so che queste due note aprono più interrogativi di quelli che tentano di risolvere, in una stagione di pluralismo come è quella in cui stiamo vivendo. Questa mia ricerca si colloca nel fuoco delle scelte che abbiamo maturato in questi anni. Esse servono a ritagliare uno spazio preciso nel pluralismo. Ne ricordo qualcuna, con rapide battute.

    Dalla parte della vita

    Ci preoccupiamo di esperienza religiosa non per fare del proselitismo, ma per assicurare pienezza di vita.
    Chi pensa all'esperienza religiosa con la preoccupazione di far diventare cristiani i giovani a tutti i costi, tende spontaneamente a verificare fino a che punto sono presenti i segni formali di appartenenza ecclesiale e si chiede come fare per consolidarli.
    Chi invece pensa all'esperienza religiosa «dalla parte della vita», si preoccupa, prima di tutto, di verificare se la qualità di vita presente può essere considerata soddisfacente e concentra impegni e progetti verso la sua maturazione.

    Quale vita?

    Quella della vita e della sua qualità non è, di certo, una questione semplice, in un tempo di complessità e di pluralismo. Devo almeno dichiarare qualche scelta, in linea di massima.
    Considero l'uomo un ricercatore e produttore di senso. Cresce in umanità quando vive la sua vita quotidiana come appello, continuo e progressivo, verso quel mistero in cui è collocata la sua esistenza.
    Le risposte che riesce a costruirsi nella fatica personale del confronto e dell'ascolto, e quelle che incontra mediante il contributo di coloro che condividono la sua stessa passione, saturano la sua attesa solo in modo parziale e provvisorio. La domanda si riapre, proprio nel momento in cui sta sperimentando la gioia della scoperta e dell'esperienza.
    Questo è un fatto strettamente personale, come personale è sempre ogni questione che riguarda la vita e la speranza. L'ambiente culturale e sociale condiziona però fortemente, in positivo e in negativo, l'esperienza di maturazione: al livello dell'interrogarsi sul senso dell'esistenza e a quello delle molte possibili risposte a queste domande e della loro qualità.
    Per questo, la scelta di porre la vita al centro della ricerca sulla esperienza religiosa connota immediatamente una dimensione anche collettiva e politica.

    Il metodo di lavoro

    La pastorale non è una disciplina solo applicativa, come sono quelle chiamate solamente ad assumere i risultati delle altre discipline. Essa invece pretende di possedere una sua struttura procedurale complessa.
    Legge la realtà, per fare progetti seri di trasformazione. In questa operazione si serve dei contributi suggeriti dalle discipline specialistiche. La sua lettura, però, viene realizzata attraverso un approccio particolare, che in gergo si chiama «sguardo di fede». Per questo, una lettura pastorale della realtà non è mai l'esito delle semplici letture sociologiche o psicologiche. Anche nel momento progettativo, dimensione importante della struttura scientifica della pastorale, essa realizza un dialogo e un confronto continuo con tutte le discipline di carattere progettuale. Tra il dato della realtà e la scelta delle strategie adeguate, la pastorale colloca, però, le esigenze normative della sua collocazione teologica ed ecclesiale.
    Questi orientamenti procedurali servono a ricordare il metodo di lavoro che intendo utilizzare anche in questa riflessione.
    - Va determinata una figura di esperienza religiosa che serva da ispirazione a tutta la riflessione. Quando le opportunità sono molte e tutte serie, è difficile scegliere. Sembrerebbe cosa migliore tentare di non precludersi nessuna alternativa. La pastorale però non può non scegliere. Essa è una disciplina «pratica», impegnata cioè ad organizzare le risorse disponibili per affrontare e risolvere «problemi» concreti. Tra le tante oggi sul mercato, devo scegliere perciò una figura di esperienza religiosa, su cui misurare la situazione e da cui progettare la trasformazione.
    - Va poi tentata una rilettura della situazione «in chiave pastorale». Un progetto pastorale muove, per forza di cose, dall'esistente. Non gli basta però recensire fatti. Ha necessità di fatti orientati e interpretati, frutto di una rilettura «teologica» dello stato di fatto a proposito di esperienza religiosa.
    Queste due esigenze rappresentano il limite e il significato delle note che seguono.
    Ricordo, prima di tutto, a quale figura di esperienza religiosa si ispira la riflessione.
    Propongo poi una rilettura interpretativa dei risultati della ricerca sulla esperienza religiosa dei giovani, documentata nel dossier precedente, per porre davanti alla mia attenzione un dato pastorale: un insieme di indicazioni che rappresentino una nuova lettura della situazione, a partire da quegli orientamenti che ho posto al centro della mia comprensione di esperienza religiosa.
    Questi due momenti fanno da premessa alla parte progettativa, con cui si conclude il mio contributo.

    LA FIGURA DI ESPERIENZA RELIGIOSA

    Prima di verificare se, nell'attuale universo giovanile, esiste una esperienza religiosa, come eventualmente essa si esprime e, soprattutto, quali interventi vanno previsti, dobbiamo intenderci sull'oggetto della ricerca. Tra le tante figure di esperienza religiosa, presenti oggi nella letteratura, quale scegliamo come ipotesi globale?
    Non voglio allungare eccessivamente il discorso, perché su questo tema abbiamo già indicato scelte e orientamenti.
    Li ricordo soltanto, convinto che dare per scontato qualcosa, a questo riguardo, sarebbe molto pericoloso... in un tempo di pluralismo.

    Esperienza religiosa

    In questo contesto, chiamo esperienza religiosa l'insieme dei comportamenti (a prevalente natura «rituale») e degli atteggiamenti con cui una persona vive, in termini sufficientemente riflessi, la consapevolezza che ciò che dà senso alla vita e consistenza alla speranza è collocato «oltre» la propria esistenza, un dono sperato e almeno inizialmente sperimentato. Nasce all'interno del proprio mondo soggettivo, perché si tratta di sperimentare un fondamento alla propria esistenza e alle esigenze (per esempio di natura etica) che l'attraversano. Si sporge però oltre la propria soggettività, perché si è sperimentato quanto sia insufficiente fondare senso e responsabilità solo all'interno del proprio quotidiano vissuto.
    Questa esperienza si esprime dentro un ambiente culturale religioso molto preciso. Per questo è già «connotata» (nel nostro caso «cristianamente») e, in qualche modo, è resa possibile e sostenuta dalla presenza di testimoni che vivono la stessa ricerca e esperienza.

    L'invocazione

    Il punto centrale del processo che conduce ad una matura esperienza religiosa, secondo l'ipotesi appena tracciata, è determinato dalla «capacità di invocazione». Essa rappresenta la meta del cammino di maturazione dell'esperienza religiosa e, nello stesso tempo, la condizione che lo rende possibile e praticabile.

    Se questa è invocazione...

    Per precisare cosa è, per me, «invocazione», invito a pensare agli esercizi al trapezio, che abbiamo visto tante volte sulla pista dei circhi.
    In questo esercizio l'atleta si stacca dalla funicella di sicurezza e si slancia nel vuoto. Ad un certo punto, protende le sue braccia verso quelle sicure e robuste dell'amico che volteggia a ritmo con lui, pronto ad afferrarlo.
    Il trapezio assomiglia moltissimo alla nostra esistenza quotidiana. L'esperienza dell'invocazione è il momento solenne dell'attesa: dopo il «salto mortale» le due braccia si alzano verso qualcuno capace di accoglierle, restituendo alla vita. Nell'esercizio al trapezio, nulla avviene per caso. Tutto è risolto in un'esperienza di rischio calcolato e programmato. Ma la sospensione tra morte e vita resta: la vita si protende alla ricerca, carica di speranza, di un sostegno capace di far uscire dalla morte.
    Questa è l'invocazione: un gesto di vita che cerca ragioni di vita, perché chi lo pone si sente immerso nella morte.

    Invocazione è esperienza di trascendenza

    L'invocazione è una esperienza di confine. Essa è esperienza personale, legata alla gioia e alla fatica di esistere, nella libertà e nella responsabilità, alla ricerca delle buone ragioni di ogni decisione e scelta importante. Nello stesso tempo, essa è già esperienza di trascendenza, sporgenza verso il mistero dell'esistenza.
    Lo è ai primi livelli di maturazione. L'uomo invocante si mostra disposto a consegnare le ragioni più profonde della sua fame di vita e di felicità, persino i diritti sull'esercizio della propria libertà, a qualcuno fuori di sé, che ancora non ha incontrato tematicamente, ma che implicitamente riconosce capace di sostenere questa sua domanda, di fondare le esigenze per una qualità autentica di vita.
    Lo è soprattutto nella espressione più matura, quando ormai la ricerca personale si perde nell'accoglienza del mistero dell'esistenza. Ci fidiamo tanto dell'imprevedibile, da affidarci ad un amore assoluto che ci viene dal silenzio e dal futuro.
    Anche quando la persona raggiunge il livello più alto di maturazione religiosa, l'invocazione non si spegne, come se la persona avesse finalmente raggiunto la capacità di saturare tutte le sue domande esistenziali. A questo livello è riconsegna al silenzio inquietante di una presenza che sta oltre la propria solitudine, che viene dal mistero della trascendenza.
    Superiamo il limite della nostra esistenza per immergerci nell'abisso sconfinato di Dio. Fondati nella fiducia, ci affidiamo all'abbraccio di Dio.

    Riunificare l'esistenza attorno all'invocazione

    L'invocazione non è riducibile ad una delle tante esperienze che riempiono la vita di una persona, paragonabile per esempio alla ricerca del lavoro o a qualche hobby che impegna le energie nel tempo libero... Essa rappresenta invece, di natura sua, il tessuto connettivo di tutte le esperienze di vita: quasi una nuova radicale esperienza che interpreta e integra le esperienze quotidiane, in un qualcosa di nuovo, fatto di ulteriorità cosciente e interpellante.
    La capacità di riunificazione sta nella ricerca di un significato per la propria vita, sufficientemente armonico e capace di dare consistenza al senso e alla speranza.
    Al livello iniziale l'invocazione è soprattutto tensione verso un ulteriore, capace di dare ragioni e fondamento all'esistenza personale. Ogni frammento di vissuto ed ogni esperienza personale, infatti, lancia e satura qualcuna delle tante domande di senso e di speranza che salgono dalla nostra quotidiana esistenza.
    Queste diverse domande si ricollegano in una più intensa che attinge le soglie profonde dell'esistenza: a questo livello, la domanda coinvolge direttamente il domandante e, normalmente, resta domanda spalancata verso qualcosa di ulteriore, anche dopo il necessario confronto con le risposte che ci costruiamo o che accogliamo come dono che altri ci fanno.
    Al livello più alto e maturo, quando la domanda stessa si perde nell'abisso del mistero incontrato e sperimentato, l'invocazione è affidamento ad una «presenza» che è sorgente della vita dello stesso domandante.
    Nell'abbandono ad un tu scoperto e sperimentato, l'io ritrova la pace, l'armonia interiore, la radice della propria speranza.
    Come si nota, la riunificazione non sta nel «possesso», ma nella «ricerca»: non sono i dati sicuri quelli che possono fondare l'unità, ma la tensione, sofferta e incerta, verso un ulteriore e la riconsegna di tutta la propria esistenza a questo «evento», sperimentato e incontrato, anche se mai posseduto definitivamente.

    LA SITUAZIONE

    Ho indicato nella capacità di invocazione il punto centrale dell'esperienza religiosa. Di conseguenza, sulla presenza e sulla qualità dell'invocazione posso verificare se e fino a che punto nella situazione giovanile attuale è presente una reale esperienza religiosa e come essa si manifesta in concreto.
    Per rispondere, faccio riferimento ai dati della ricerca. Li rileggo però nell'ottica specifica dell'approccio pastorale.

    Alla ricerca dei germi di invocazione

    Nel mondo giovanile attuale esistono esperienze di invocazione... in modo esplicito o almeno in termini germinali? Quali segni la esprimono? Quali elementi la disturbano?
    Nella notevole varietà di situazioni in cui si frastaglia la condizione giovanile, mi lascio orientare, come sempre, dalla pretesa di dialogare con tutti i giovani e, di conseguenza, mi misuro con gli «ultimi» e i più poveri. Faccio mia la preoccupazione di profonda ospitalità educativa, documentata da questa bella citazione: «La Chiesa è come una grande rete che raccoglie ogni sorta di pesci (cf Mt 13, 47-50), un grande albero presso cui nidificano a loro vantaggio molte specie di uccelli (cf Mt 13, 31-32). Una Chiesa che è sotto il primato di Dio Padre universale sente il dovere di essere ospitale, paziente, longanime, lungimirante. Non può arrogarsi il giudizio definitivo sulle persone e sulla storia, che spetta solo a Dio. La Chiesa è una grande città, le cui porte non devono essere chiuse a nessuno che chieda sinceramente asilo» (Martini C. M., Ripartiamo da Dio, Centro Ambrosiano, Milano 1995, 43).

    La pratica religiosa

    Chi definisce l'esperienza religiosa sul livello di invocazione, non è prima di tutto preoccupato di misurare l'indice di presenza e di fruizione di pratiche religiose o di verificare la correttezza delle espressioni linguistiche relative.
    Se però diamo uno sguardo, anche rapido, a queste realtà... non possiamo di certo concludere, troppo sbrigativamente, sulla ripresa del vissuto religioso né sul riemergere di richieste a questo livello.
    Alcuni segnali:
    - è in crisi il rapporto con la Chiesa: considerata prevalentemente nella sua forma istituzionale e caricata di attese che in qualche modo sembrano svuotarne la specificità;
    - l'impegno etico è molto soggettivizzato e si traduce in responsabilità che interessano prevalentemente la sfera personale, con scarsa apertura verso le dimensioni comunitarie e collettive;
    - anche la pratica religiosa risente notevolmente del momento personale e di variabili meno significative rispetto alla cosa in sé (l'appartenenza al gruppo...);
    - le formulazioni linguistiche dell'esperienza cristiana sembrano povere... con vistose lacune.
    Questa costatazione non può essere generalizzata. Esistono eccezioni che mostrano, ancora una volta, la complessità del fatto analizzato.

    Modalità nuove

    Ho ricordato, molte volte ormai, che intendo misurare la presenza e la qualità dell'esperienza religiosa dei giovani sull'indice dell'invocazione (o dei suoi segni germinali). I dati della ricerca indicano la presenza di un'esperienza di invocazione?
    Chi legge la realtà attento soprattutto ai comportamenti e agli atteggiamenti che i giovani esprimono nella concretezza «feriale» del loro vissuto, coglie la presenza diffusa di molti segnali interessanti. Nel loro insieme spingono a dichiarare l'esistenza di una forte esperienza di invocazione. Di conseguenza, sono convinto che esistano almeno i germi di una intensa e inedita esperienza religiosa.
    Ricordo quei segnali che mi sembrano particolarmente rilevanti:
    - la centralità personale della pratica religiosa: anche se alcuni momenti della vita sono speciali, è superata la dicotomia tra sacro e profano;
    - la riscoperta di alcuni testi della Bibbia (alcuni Salmi, pagine del Vangelo...), come documenti importanti di riferimento personale;
    - l'innegabile forte presenza di Dio (a livelli diversi) nella vita personale: spesso come amico, padre misericordioso, fonte di speranza, qualcuno con cui «parlare» e, magari, «litigare»;
    - anche se il riferimento a Gesù Cristo non riporta sempre verso le autentiche esigenze teologiche, il richiamo alla sua persona è frequente, intenso, carico di influsso nella vita personale;
    - verso la Chiesa sono alte le attese, anche se risultano prevalentemente collocate sul piano relazionale e di servizio all'uomo: il giudizio negativo nei confronti dell'istituzione nasce da attese ampie nei suoi confronti;
    - la ricerca di esperienze di preghiera, di festa, di silenzio...
    - la ricerca di un originale rapporto con la natura, anche attraverso esperienze estetiche;
    - una diffusa fiducia verso la vita e una sua fiducia che si traduce in speranza e in impegno: anche l'impegno sociale e politico corre su questa attenzione al personale e alla vita (con attenzione speciale alla relazione con chi è conosciuto o con chi vive nello stesso spazio territoriale);
    - la fiducia nelle persone al di là di frequenti elementi di discriminazione, fino a riconoscere nella relazione con l'altro un principio di trasformazione della propria esistenza;
    - il riferimento ad alcune persone, valutate come significative per la propria esistenza, da cui si attende una parola accogliente e autorevole;
    - il richiamo all'esperienza del dolore e, persino, alla morte come inquietudine, confronto, paura... speranza;
    - dalla consapevolezza del proprio limite (che si fa accettazione) nasce un modo originale di rapportarsi con Dio e dà origine ad un rapporto con gli altri all'insegna del confronto e della tolleranza;
    - il riferimento al lavoro corre più verso la dimensione di utilità sociale, relazione interpersonale, realizzazione di sé, che verso quelle del guadagno o della carriera;
    - la disponibilità al servizio in espressioni concrete anche se faticose (volontariato...).

    I condizionamenti

    Di fronte alla radiografia dell'esistente è importante verificare quali sono i condizionamenti che stanno all'origine di quello che si costata e le cause che lo scatenano.
    Solo dopo questo riconoscimento è possibile procedere nella fase progettativa.
    Riconosco la presenza di influssi (cause o condizionamenti) a tre livelli:

    Il peso della cultura attuale

    È innegabile il peso determinante della cultura attuale. I tratti con cui i giovani vivono la loro esperienza religiosa sono segnali eloquenti dei modelli culturali in atto: essi vivono una esperienza religiosa molto in contesto.
    Basta pensare a:
    - scarsa progettualità, che si traduce in presentismo e in pragmatismo;
    - forte livello di scristianizzazione, che spinge i giovani a vivere in un ambiente in cui circolano modelli e valori molto lontani dalle esigenze evangeliche;
    - frammentazione culturale e istituzionale, che spinge verso la soggettivizzazione e alla eccessiva rilevanza del privato e personale sul sociale e comunitario;
    - deistituzionalizzazione, con conseguente rincorsa verso mondi protetti e vitali.

    L'influsso della socializzazione religiosa

    Le storie di vita mostrano l'influsso positivo e, spesso, negativo delle agenzie tradizionali della socializzazione religiosa:
    - in genere, sembra poco rilevante l'esperienza di catechesi;
    - tolte rare eccezioni, anche l'insegnamento scolastico della religione cattolica incide poco, anche perché si esprime secondo modalità abbastanza problematiche;
    - persiste in molti giovani il ricordo di esperienze negative vissute in momenti religiosi e ecclesiali;
    - la reattività rispetto alla figura di Chiesa (compresa prevalentemente solo nel suo aspetto istituzionale) risente innegabilmente del modo con cui si parla (dentro e fuori) della Chiesa e di molte realizzazioni ecclesiali ancora troppo segnate dai limiti denunciati;
    - le motivazioni all'impegno etico risentono notevolmente di quel modo di determinare il bene e il male, il lecito e il proibito, che dà come unica motivazione il volere di Dio o della Chiesa.

    Una maturazione in atto

    Inoltre, non possiamo dimenticare che le reazioni a certi modi di fare, la presa in carico personale, il bisogno di esprimere giudizi e decisioni in cui la persona sia rispettata nella propria autonomia... indicano un livello interessante di maturazione, quasi come indice di punti di non ritorno.

    Le sfide

    Il vissuto giovanile, documentato dalla ricerca, non è solo un dato di cui prendere atto. Chi lo legge da una precomprensione educativa e pastorale ci scopre dentro segnali che interpellano e provocano. Sono una specie di richiesta implicita di condizioni da assicurare e di sfide di cui farsi carico.
    Tra le tante ne ricordo alcune, che valuto particolarmente urgenti.

    La forza dell'educazione

    Il consolidamento e lo sviluppo della capacità di invocazione sono un tipico problema educativo. Riguardano, in altre parole, la qualità della vita e l'influsso dell'ambiente culturale e sociale in cui essa si svolge. L'educazione dell'esperienza religiosa passa quindi attraverso l'educazione: l'educazione della vita e il servizio alla sua maturazione secondo quel modello di crescita in umanità che ho indicato nell'esperienza di invocazione.

    Un problema di qualità di vita: a confronto con la cultura

    Per dirci cosa significhi vivere autenticamente la nostra umanità, è indispensabile il confronto con le differenti proposte che oggi si rincorrono nel crogiuolo delle culture attuali. I cristiani possiedono una esperienza di esistenza, che riconoscono normativa per ogni ricerca: la storia di Gesù di Nazareth, raccontata dalla fede dei suoi discepoli, nella Chiesa. Per questo, in ogni ricerca sulla qualità della vita, accogliamo come irrinunciabile il confronto e lo scambio con tutti coloro che hanno qualcosa da offrirci e, nello stesso tempo, assumiamo come criterio interpretativo, ultimo e normativo, l'ispirazione evangelica.
    Questo ci sembra il modo più autentico per fare cultura. Questa consapevolezza sollecita a quella doppia esigenza che sta alla radice della proposta:
    - la cultura attuale e i profondi cambi in atto sollecitano a verificare ogni progetto pastorale, per non correre il rischio di far passare come normativo ciò che invece è soltanto residuo nostalgico del passato;
    - dall'altra, è indispensabile rileggere la cultura attuale, in tutte le sue espressioni, a partire dalla «memoria pericolosa» della nostra tradizione ed esperienza pastorale, per inserire nel cuore dell'esistente un principio di valutazione e di critica.

    Riscoprire il tempo come discontinuità

    Da molte parti si invoca la necessità di progettare interventi educativi, capaci di aiutare i giovani ad uscire dalla prigione di una soggettività esasperata e totalizzante.
    Anche la ricerca conferma l'urgenza. Fa intravedere una via di uscita interessante: la gestione «discontinua» del tempo.
    Da una parte, risulta urgente aiutare i giovani a riscoprire la complessità del fluire del tempo, per non ridurre tutto a presente, tagliando i ponti con il passato e bloccando ogni prospettiva di futuro.
    Dall'altra, sembra necessario oggi aiutare i giovani a percepire come nella scansione della vita esistano tempi diversi, con ritmi, esigenze, influssi differenti. Come l'impegno esige tempo di preparazione, di attesa, di realizzazione, di verifica, così nella vita ci sono i momenti formativi e quelli operativi, i momenti forti e quelli di routine, i tempi speciali e quelli normali.
    La ricerca conferma tutto questo sul piano dei problemi e su quello delle realizzazioni positive.

    Luoghi dove sperimentare

    Molti dei problemi con cui ci scontriamo, pur essendo chiaramente di ordine culturale, possiedono radici strutturali.
    La costatazione, se è vera, riduce a risultati scarsi gli sforzi condotti solo all'insegna della buona volontà o del rinnovato coraggio propositivo.
    Buona volontà e coraggio propositivo vanno invece collocati sul piano strutturale: nella creazione cioè di luoghi dove fare esperienza di qualcosa di alternativo: spazi dove sperimentare «storie» comunitarie di vita e di speranza, significative e trasmissibili.
    Questi luoghi sono quelli «normali» di vita e quelli «speciali». Tra i primi la ricerca segnala la forza educativa dell'oratorio (comunque sia chiamata questa realtà di convivenza giovanile) e del gruppo.

    Un appello agli adulti

    Dalla ricerca emerge un forte appello verso gli adulti: alla loro presenza e alla funzione che possono esercitare.
    Un tempo, l'adulto doveva chiedere il permesso per farsi accettare dai giovani. Ora è desiderato e atteso.
    Alcune condizioni sono però pregiudiziali e non ci permettono una generalizzazione indebita dell'esigenza.
    Sono desiderati gli adulti che sanno accogliere ed esprimono il significato della loro presenza né sul piano della «rivincita» né su quello della riproposta dei vecchi schemi propositivi, ma su quello della «testimonianza» (povera... ma convinta) e della chiamata alla responsabilità e della restituzione matura di protagonismo.
    Emerge, in altre parole, il bisogno di «fare proposte»... ma in un modo nuovo rispetto ai modelli tradizionali.

    In ascolto dei giovani
    La ricerca è stata una esperienza gradita dai giovani, grazie soprattutto al modello utilizzato («raccontarsi» attraverso la storia della propria vita). Non solo quindi pone una esigenza, molto avvertita, ma indica la strada per realizzarla.
    L'esperienza deve continuare nelle comunità ecclesiali, per restituire protagonismo, raccontando e raccontandosi.
    Molto esiste già e molto va inventando con coraggio, fantasia, urgenza.

    PROSPETTIVE DI AZIONE

    Una riflessione pastorale, come ho già ricordato, non si limita a costatare, ma, sotto la spinta dei fatti, cerca di fare progetti.
    Le pagine che seguono rispondono a questa esigenza.
    Sono una specie di lungo itinerario educativo verso l'invocazione, pensato sotto l'urgenza delle sfide che i fatti ci lanciano.
    La proposta non va interpretata come un cammino obbligato, su cui tutti sono sollecitati a scorrere. Al contrario, esso è l'indicazione di alcune preoccupazioni educative, che ogni comunità dovrà poi riscrivere, se le condivide, sulla misura delle necessità concrete dei giovani con cui si lavora e sui ritmi su cui si può contare operativamente.
    La scelta di tracciare solamente una mappa di lavoro giustifica la decisione di suggerire prospettive e strategie in uno stile tanto sintetico da assomigliare quasi ad un indice ragionato.

    Alla radice: un impegno sulla qualità della vita

    Sono convinto che la maturità e l'autenticità dell'esperienza religiosa e, di conseguenza, di quella cristiana, sono oggi minacciate dal modo con cui viene compresa e vissuta la vita. La qualità della vita condiziona infatti la qualità dell'esperienza religiosa. Per questo, dobbiamo aiutarci a crescere in umanità, se vogliamo vivere una matura dimensione religiosa.
    La questione è molto rilevante.
    Da una parte si tratta di educare verso l'invocazione, per abilitare i giovani a diventare uomini capaci di invocare. Dall'altra si tratta di suggerire e sostenere un modello di vita religiosa cristiana dove continui ad avere spazio l'esperienza (e l'esigenza) dell'invocazione.
    Propongo alcune linee operative di un itinerario di crescita in umanità.

    Prendere la vita con serietà

    Considero, come atteggiamento preliminare da ricostruire nell'esistenza dei giovani, una certa predisposizione verso la serietà: la capacità, riconosciuta teoricamente e realizzata esistenzialmente, di lasciarsi misurare dalle esigenze dell'esistenza che dipendano dalla vita stessa e non sono pattuibili. Esse riguardano l'immagine di uomo e donna riuscita, verso cui ci sentiamo in tensione, e le condizioni esistenziali che ci permettono di raggiungere e consolidare questa figura.
    Spesso, purtroppo, questo atteggiamento viene contrapposto alla voglia di vita e di felicità. Sembra che serietà e voglia di felicità vadano considerate come prospettive alternative.
    Nei modelli educativi tradizionali, prevaleva l'attenzione alla serietà. Oggi, tutto sembra sbilanciato verso la vita e la felicità, a scapito della serietà. Viviamo in una cultura in cui le cose, anche le più banali, sono offerte come capaci di risolvere tutti i problemi. L'esito di maturità non è il frutto della fatica di vivere, ma il risultato sicuro del possesso di ciò di cui possiamo facilmente disporre.
    È importante risolvere l'alternativa, a pieno vantaggio della vita e della felicità.
    Punto di attenzione è la vita e la felicità. Essa «è sempre un bene» (EV 34). Lo riconosce, con una forza speciale, il cristiano che confessa: «È proprio nella sua morte che Gesù rivela la grandezza e il valore della vita, in quanto il suo donarsi in croce diventa fonte di vita nuova per tutti gli uomini (Gv 12, 32)» (EV 33).
    «La vita porta indelebilmente iscritta in sé una sua verità. L'uomo, accogliendo il dono di Dio, deve impegnarsi a mantenere la vita in questa verità, che le è essenziale. Distaccarsene equivale a condannare se stessi all'insignificanza e alla infelicità, con la conseguenza di poter diventare anche una minaccia per l'esistenza altrui, essendo stati rotti gli argini che garantiscono il rispetto e la difesa della vita, in ogni situazione» (EV 48).
    Vivere la vita in «serietà» significa in concreto:
    - riconoscere l'esistenza di una verità che ha dei diritti sulla libertà. Questo atteggiamento restituisce la capacità di porsi di fronte alla realtà in modo maturo: la responsabilità (soprattutto quella a carattere collettivo) diviene così la «forma» della soggettività;
    - riconoscere gli altri come «ospiti graditi» della propria esistenza. Con questo atteggiamento si supera quello stile di esistenza, diffuso e pervasivo, che mette in rapporto con gli altri in termini di competitività e di aggressione: l'altro è sempre un nemico da combattere o da cui difendersi o una preda da conquistare;
    - accogliere nella propria vita le domande e le inquietudini che gli altri ci lanciano. Con questi atteggiamenti ci impegniamo a far risuonare nella nostra esistenza la voce sommessa della coscienza morale e ci abilitiamo ad ascoltare il grido dell'altro e quello che sale dalla realtà (pace, ecologia, rispetto della natura...) come impegnativo «imperativo etico».

    La verifica del cammino motivazionale

    Il passaggio dall'autonomia assoluta dal punto di vista religioso, verso un'apertura alla dimensione trascendente della vita o almeno ai germi inconsapevoli di questa presenza, e il passaggio da questo atteggiamento fondante ad una reale esperienza di fede (la maturazione dell'esperienza religiosa in esperienza di fede cristiana) non è spontaneo. Esiste qualcosa che lo scatena. Spesso si colloca all'esterno dell'esperienza soggettiva del giovane. In ogni caso, però, fa risuonare un processo motivazionale interiore. Solo in questo momento, la persona vive un'esperienza religiosa (così come abbiamo definito la sua figura).
    Cosa si realizza «dentro»?
    La radiografia della situazione giovanile attuale, nei confronti dell'esperienza religiosa, indica tre ragioni come quelle che giustificano i modelli diversi di attenzione al trascendente:
    - il «bisogno di Dio»: nasce dalla percezione, riflessa e sofferta, del proprio limite;
    - il riconoscimento della propria creaturalità, come dimensione positiva, che appella al suo fondamento (siamo vivi... anche se non siamo la vita, perché qualcuno ci ha donato la vita...; l'impegno etico, scoperto come esigenza di controllo della propria libertà);
    - la percezione riflessa di una presenza, intensa e viva, che dai segni concreti sa raggiungere la radice misteriosa: un clima di amore in cui ci si sente avvolti, che dà sicurezza e speranza anche nei momenti più difficili.
    L'educazione all'esperienza religiosa comporta una «reazione» educativa a questa constatazione. Può essere espressa attraverso questi momenti successivi:
    - il riconoscimento di queste ragioni «verso l'esperienza religiosa», nella loro specificità personale e nella loro eventuale precarietà...
    - la proposta di esperienze educative capaci di suscitare alcune di queste ragioni (qualora fossero assenti): esperienze di riconsegna al proprio limite esistenziale contro pretese di onnipotenza, esperienze di accoglienza incondizionata e di amore educativo, ricostruzione di esigenze etiche, incontro con segni significativi della vicinanza di Dio...
    - l'accompagnamento educativo che aiuta a discernere le ragioni e permette un cammino di consolidamento e di maturazione dai livelli più immediati ed emotivi a quelli più profondi e motivati.

    Un cammino di serietà intellettuale

    Il consolidamento dell'esperienza religiosa e la sua autenticazione percorre la via del «fare esperienza». Non è l'esito di operazioni intellettuali. La sfida è sul piano delle «sensazioni», per coglierne e discernere la loro verità e la loro autenticità.
    Il «lasciarsi convincere ad una esperienza» è dunque il primo passo del cammino che porta verso l'esperienza religiosa.
    Presto o tardi, però, è ugualmente necessario percorrere anche la via stretta di una riflessione sulla verità data, da accogliere e riconoscere: per scoprire quanto la verità abbia dei diritti anche sulla libertà.
    Gli elementi sono quelli «classici» della tradizione educativa:
    - le dimostrazioni dell'esistenza di Dio;
    - il contributo dell'apologetica, soprattutto per verificare e validare le basi di ragione della decisione di fede;
    - il riconoscimento di quella verità (sull'uomo e su Dio), che costituisce l'ortodossia ecclesiale;
    - il senso autentico e insostituibile del magistero, come custode nel cammino della storia del mistero della verità.

    Il coraggio di prendere decisioni

    La nostra cultura ci spinge a decisioni mai definitive, verso un'attenzione esasperata a non precludersi nessuna possibilità. L'eccedenza delle opportunità giustifica appartenenze deboli, dove sembra compatibile un orientamento e il suo contrario.
    Questo è principio pericoloso: la persona è frastagliata proprio al livello della sua qualificazione.
    Non mi accontento di scelte coerenti con un quadro oggettivo di valori. È troppo facile assumerle con entusiasmo e poi, in altro ambiente e sotto un altro tetto, giocare lo stesso entusiasmo nella direzione opposta. Il limite non è di coerenza; sta invece in quella mancanza di decisionalità forte che sembra la condizione irrinunciabile per sopravvivere oggi.
    In che direzione educare al coraggio di prendere decisioni?
    La risposta è facile: impegnando a scegliere le cose che contano veramente. Il problema è dunque di confronto con i valori.
    Ma, a questo livello, le difficoltà riemergono con la stessa intensità: dove incontrare i valori, per cui decidersi, per una autentica qualità di vita?
    Sono convinto che ogni tentativo di oggettivizzare la decisione sia perdente oggi. In genere non è praticabile, o lo diventa a costi educativi ingiustificati.
    La pretesa di curare la soggettivizzazione con una buona cura di oggettività può diventare rimedio peggiore del male. Non coglie la radice della disfunzione e, in qualche modo, la perpetua.
    Vedo invece la possibilità di intervenire nei confronti della soggettivizzazione sfrenata, riconsegnando la persona in modo serio all'interiorità. Le risorse educative possono essere spese per far nascere l'esigenza, sostenere l'esperienza, progettare la realizzazione. E ce ne vorranno molte in una cultura che fa di tutto per trascinare verso l'esteriore, anche con la scusa di salvaguardare meglio l'oggettività.
    In un ambiente di complessità e di pluralismo la formazione esige, perciò, come condizione di possibilità e di autenticità, l'impegno di restituire ad ogni persona la capacità di comprendersi e di progettarsi dal silenzio della propria interiorità.
    Interiorità dice spazio intimissimo e personale, dove tutte le voci possono risuonare, ma dove ciascuno si trova a dover decidere, solo e povero, privo di tutte le sicurezze che danno conforto nella sofferenza che ogni decisione esige.
    Il confronto e il dialogo serrato con tutti sono ricercati, come dono prezioso che proviene dalla diversità.
    La decisione e la ricostruzione di personalità nascono però in uno spazio di solitudine interiore, che permette, verifica e rende concreta la «coerenza» con le scelte unificanti la propria esistenza.

    La dimensione «politica» dell'esistenza

    Non possiamo considerare l'attenzione alla vita e alla sua qualità come un fatto a carattere individuale e privatistico. Purtroppo non pochi giovani lo stanno vivendo così, forse per reagire (inconsapevolmente) allo spossessamento che ha caratterizzato molti modelli educativi del passato e alla eccessiva politicizzazione dei tempi appena trascorsi.
    La dimensione personale è collocata all'interno dei processi sociali e collettivi. Si apre verso tutte le persone e richiede un confronto critico e liberante con il potere e la sua gestione.
    Per questo, la restituzione della vita e della sua qualità possiede una innegabile risonanza «politica», da riscoprire e da riaffermare, reagendo contro le ipotesi privatistiche.
    La passione per la vita si traduce, di conseguenza, in assunzione di competenze, di responsabilità, di compiti collettivi.

    Oltre quello che si vede...

    Siamo abituati a considerare vero e reale solo quello che possiamo manipolare. La nostra cultura parla attraverso le immagini. Lo strumento espressivo diventa contenuto, ci ha insegnato uno che di problemi della comunicazione se ne intendeva a fondo. Per questo siamo diventati presuntuosi e saccenti. Per ogni cosa abbiamo una spiegazione e di ogni avvenimento sappiamo responsabilità, positive o negative. Se qualche male ci sovrasta, ne conosciamo il rimedio o, almeno, è solo questione di giorni: presto o tardi, troveremo il nome giusto per identificarlo e gli strumenti adeguati per risolverlo.
    L'uomo maturo non si trova davvero a proprio agio in questo modo riduttivo e falso di vedere la realtà. Si impegna per comprenderla fino in fondo, felice di poter utilizzare tutto quello che la scienza e la sapienza dell'uomo hanno saputo produrre.
    Riconosce però l'esistenza di un altro mondo, fatto di eventi un po' misteriosi, la cui trama ci sfugge completamente e di cui possiamo parlare solo nel modo strano del linguaggio religioso.
    Riconosciamo che la stessa realtà ha due facce: una si vede, si può manipolare, può essere letta e interpretata attraverso le categorie della nostra scienza e sapienza; l'altra, invece, si sprofonda nel mistero. La fatica di vivere in modo autentico la propria esistenza comporta la fatica quotidiana di integrare le due dimensioni della realtà, decifrando l'una a partire dall'altra.

    Riscoprire il limite della propria esistenza

    La lettura dei risultati della ricerca sulla esperienza religiosa dei giovani indica una serie di elementi che credo importante richiamare per giustificare la proposta che sto per fare.
    Esiste un collegamento, spesso molto stretto, tra ricerca di sicurezza (nella direzione più impegnativa: quella che riguarda il senso della vita e della speranza) ed espressioni simboliche che sembrano capaci di sostenere e sollecitare questa ricerca. Si va dagli amuleti, dall'astrologia e da frammenti di esoterismo, alla ricerca di esperienze di solidarietà, fino al «bisogno di Dio» e alla esperienza della sua vicinanza (in momenti di particolare difficoltà).
    A qualcuno risultano sufficienti i rimedi più superficiali; qualche altro ha messo in crisi la sua esperienza religiosa a partire dalla costatata insufficienza a risolvere i problemi personali. Altri vivono il rapporto con l'esperienza religiosa e il riconoscimento del suo significato nella vita, in una oscillazione pendolare tra situazioni di crisi e raggiungimento del benessere.
    Questi sono, in qualche modo, i «dati di fatto». Una proposta educativa chiede l'interpretazione dell'esistente e, soprattutto, sollecita verso interventi trasformativi.
    Suggerisco due sentieri. Il primo percorre la via più inquietante: quella della morte come provocazione alla vita. Il secondo, facendo eco a molte indicazioni della ricerca, spinge a riscoprire il limite come autenticità e grandezza della persona.

    Il confronto con la morte dalla parte della vita

    Rilancio, prima di tutto, una esigenza che ha percorso la nostra tradizione educativa, modificandone però radicalmente il punto di prospettiva: il confronto inquietante con la morte. Lo considero uno dei nodi dell'educazione all'esperienza religiosa.
    La morte provoca la vita quotidiana e mette sotto verifica il suo senso e la sua qualità. Per questo, davanti alla morte non è sufficiente la scelta di chi preferisce non porsi il problema. E neppure basta cercare la rassegnazione nell'avventura spericolata. È necessario, invece, assicurare un confronto, sincero e disponibile, sollecitando ad esso anche chi è distratto o chi è riuscito a trasformare lo scontro in un gioco ad alto rischio.
    Che tipo di confronto?
    La tradizione educativa e religiosa ha richiamato spesso la morte per controllare meglio la vita, far riconoscere il suo senso e il suo esito, fondare la sua dimensione creaturale e religiosa. Lo faceva soprattutto incutendo paura.
    Sono convinto della necessità di riaffermare queste esigenze. Mi chiedo però se la prospettiva tradizionale sia quella più corretta, rispetto all'evento (il conflitto tra morte e vita) e rispetto alla preoccupazione educativa (sollecitare al confronto con la morte).
    Non possiamo chiederci se la morte ha un senso. Posta così, la domanda è senza risposta. Spalanca solo verso la disperazione.
    La morte infatti non ha nessun senso. È solo una grande disperata sconfitta. Tutte le possibili risposte sono sempre astratte, teoriche o troppo tecniche. Possono spiegarci il disfacimento progressivo e incontrollabile del nostro corpo o possono rilanciarci in un orizzonte dove i discorsi sono vaghi e incontrollabili come molti discorsi religiosi.
    La questione è un'altra, radicalmente diversa. Riguarda la vita e il suo senso. Cosa è vita? Quale esperienza di vita è autentica, pienamente e radicalmente «mia», degna di essere accolta, vissuta, amata e offerta?
    La morte costringe al realismo: la domanda sulla vita «dalla parte della morte» resta inchiodata su una piattaforma di verità da cui non può fuggire. La domanda sulla vita passa attraverso la risposta che riusciamo ad esprimere alla provocazione della morte.
    Certamente esistono molti «limiti» nella vita di ogni uomo. Spesso dipendono da cause note e controllabili, anche se non facilmente superabili.
    Altri, come il dolore e la sofferenza, dipendono dalla struttura fisica della nostra esistenza. Contro i primi impariamo a ribellarci, eliminandone le radici, dentro e fuori di noi. Con i secondi ci abilitiamo a convivere, per amore di verità.
    C'è però una situazione di limite, che tutti ci pervade e attraversa inesorabilmente la nostra esistenza: la morte incombe su di noi proprio perché siamo vivi. Non ci sentiamo rattristati da questa condanna. L'esperienza più bella, quella di essere vivi, si porta dentro la traccia indelebile del limite che l'attraversa.
    La morte ci restituisce alla qualità e all'autenticità della nostra vita. Essa non è un incidente di percorso, di cui possiamo evitare il confronto, quasi fosse statisticamente irrilevante rispetto al problema centrale.
    Sul confine della finitudine, l'uomo si ritrova «diverso» dalle cose e dagli altri esseri viventi. Entra nel mondo affascinante e misterioso di una vita irrepetibile.

    La via dell'amore

    Il confronto con la morte (quella ultima e conclusiva e quella quotidiana e pervasiva) rappresenta una esperienza privilegiata per restituire ogni persona a quella coscienza riflessa del proprio limite esistenziale che spalanca verso l'invocazione.
    Non è però l'unica via percorribile. La ricerca lo documenta.
    È importante percorrere anche la via della positività, riscoprendo la dimensione di imprevedibile ricchezza di cui molte esperienze quotidiane sono cariche. Penso, per esempio, all'amore gratuito che si fa servizio, alla disponibilità a sostenere, in una presenza silenziosa e accogliente, il dolore e la sofferenza, fino a riscattare il suo significato per la vita di tutti, alla passione per la vita e la libertà, che conduce a sacrificare la propria esistenza come dono per quella di tutti.
    Queste esperienze hanno in sé una vivacità umana così ricca e imprevista, da diventare come segnali indicatori di una ragione ultima e misteriosa dell'esistenza. Ci offrono un modo di essere uomini e donne che rilancia più verso qualcosa che ci supera e ci è stato donato, che alla nostra responsabilità e autonomia.
    L'esperienza della morte e quella della vita non sono due esperienze alternative. Solo assieme, nella stessa trama di cui è tessuta la nostra esistenza, riconducono, in modo autentico, a quel limite esistenziale che è la nostra verità e da cui sale il grido verso l'altro-da-noi che riconosciamo, alla fine, l'Altro assoluto.

    Il Dio di Gesù Cristo

    L'esperienza religiosa cristiana è l'insieme dei comportamenti e degli atteggiamenti con i quali il cristiano vive e costruisce il suo rapporto con lo Spirito di Dio, creduto e accolto come presente e operante nella propria vita ed azione, e cerca di dar voce e linguaggio a tale vissuto.
    Mi preoccupo dell'esperienza religiosa. La considero una esigenza irrinunciabile di maturazione umana. Lo faccio dunque per servire meglio la vita e la felicità.
    Riconosco però che l'esperienza religiosa ha il suo compimento, per la vita e la speranza, nell'esperienza cristiana. Per questo, l'educazione dell'esperienza religiosa sfocia nella sua dimensione cristiana.
    Il percorso dall'esperienza religiosa alla sua maturazione in esperienza cristiana, può essere assicurato su alcuni elementi, che ricordo brevemente.

    Superare una visione mercantilistica

    Tra gli atteggiamenti a cui rieducare in vista della maturazione della capacità di invocazione, mi piace collocare il senso della gratuità.
    Esso vale per la qualità della vita.
    Ha una incidenza particolarissima in ordine alla esperienza cristiana.
    È urgente sgomberare il terreno dalle logiche «cosa ci guadagno se...», presenti, purtroppo, in molti modelli pastorali e radicati intensamente nella sensibilità culturale attuale.
    Gesù rivela la presenza nella storia di un principio inedito, sconvolgente rispetto alle logiche del male: la debolezza e la sconfitta (la croce) è vittoria della vita, quando viene vissuta come disponibilità all'amore e affidamento al progetto di Dio.
    La presenza di Gesù è «salvezza» (redenzione della creazione verso l'esito conclusivo) perché porta a realizzazione l'irruenza della vita sul male e assicura sull'esito di questa avventura drammatica.
    Possiamo affidarci a lui, consegnando al mistero di Dio la nostra voglia di vita e di felicità e la paura che il dolore e la morte scatenano, solo se riusciamo a ricostruire un rapporto giocato all'insegna della gratuità.

    Vivere «affidati» al mistero

    La mancanza di gratuità porta a riconoscere come importante per la mia esistenza solo quello che mi assicura un guadagno. Non basta a stemperare le logiche mercantilistiche di questa visione, la costatazione che il guadagno è rimandato «alla vita eterna».
    La riconquista della gratuità dell'amore porta, invece, all'avventura della speranza: la fede diventa consegna della propria esistenza ad un fondamento, che è soprattutto sperato, che sta oltre quello che posso costruire e sperimentare. Colui che vive, si comprende e si definisce quotidianamente in una reale esperienza di affidamento, accetta la debolezza della propria esistenza come limite invalicabile della propria umanità.
    Il fondamento sperato è la vita, progressivamente compresa nel mistero di Dio. Il gesto, fragile e rischioso, della sua accoglienza è una decisione giocata nell'avventura personale e tutta orientata verso un progetto già dato, che supera, giudica e orienta gli incerti passi dell'esistenza.
    Ricostruire persone capaci di affidamento significa, di conseguenza, ricostruire un tessuto di umanità. Ma significa anche radicare la condizione irrinunciabile per vivere una matura esperienza religiosa e cristiana.
    Questa è infatti la vita cristiana: un abbandono nelle braccia di Dio, con l'atteggiamento del bambino che si affida all'amore della madre. Sembra strano: per diventare adulti, scopriamo la necessità di diventare «bambini». Ce l'ha raccomandato Gesù: «In verità vi dico: se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). Dell'adulto vogliamo conservare la lucidità, la responsabilità e la libertà, proprio mentre ci immergiamo in una speranza che sa «credere senza vedere». Del bambino, invece, cerchiamo il coraggio di rischiare, la libertà di guardare in avanti, la fiducia incondizionata in qualcuno di cui abbiamo sperimentato l'amore, la disponibilità esagerata a condividere: in fondo, la voglia di giocare anche con le cose più serie.

    Dio, Gesù e la Chiesa

    Fa parte dell'educazione della domanda anche il momento della proposta di un progetto di esistenza, concreto e sperimentabile, capace di mostrare il dono di una vita nello Spirito. Per questo, nell'educazione all'invocazione considero importante anche il momento dell'evangelizzazione: la sa provocare in coloro che vivono ancora distratti e superficiali; la satura in coloro che sanno ormai esprimere autenticamente la loro voglia di vita e di felicità.
    I risultati della ricerca documentano, dal positivo e dal negativo, alcuni nodi con cui il progetto di evangelizzazione è chiamato a confrontarsi:
    - esiste una questione di linguaggio: i grandi temi della salvezza e della fede non sono proponibili solo perché vengono formulati correttamente, ma perché sono sperimentati in una comunità che fa di questi «concetti» le ragioni della sua esistenza e della sua presenza nella storia;
    - esiste una questione teologica: il riconoscimento della presenza di Dio non si collega sufficientemente con la persona di Gesù. Lo Spirito Santo è, come sempre, il grande assente;
    - esiste infine una questione ecclesiologica, per far sperimentare, in modo corretto, la funzione della Chiesa in ordine al riconoscimento di Dio.

    Le espressioni ecclesiali dell'incontro

    Il cammino dall'esperienza religiosa all'esperienza di fede non è «intellettuale», ma «esperienziale». Non riguarda cioè, prima di tutto, la conoscenza di ciò che è implicato nel processo. Esso procede, da un livello all'altro, facendo esperienza e promuovendo esperienza.
    Certo, la parola è dimensione costituiva del fare esperienza. Per questo, non può essere dimenticata l'istanza conoscitiva e la preoccupazione veritativa.
    L'accento sulla dimensione esperienziale pone in primo piano il momento ecclesiale, nelle sue espressioni visibili: celebrazioni liturgiche e sacramentali, manifestazioni e incontri, ritmi e tempi.

    La traduzione dell'esperienza di fede in esperienza etica
    L'esperienza di imperativi etici, che hanno diritti sulla libertà e sulla responsabilità personale, è uno dei luoghi in cui affiora l'esperienza religiosa.
    Ma non c'è solo questa costatazione.
    Dal punto di vista educativo va riaffermata con forza la necessità di sollecitare tutti a riformulare l'esperienza religiosa (e, in concreto, quella cristiana) secondo le esigenze di una matura esperienza etica. Assolvendo a questa esigenza non solo interveniamo per consolidare il processo di maturazione dell'esperienza religiosa. Poniamo anche le condizioni per la sua germinazione.
    L'attenzione alle esigenze etiche si realizza in uno stile di gradualità e progressività, si sviluppa come cammino di crescita verso la maturazione personale, si consolida attraverso l'interiorizzazione consapevole delle ragioni che sollecitano e giustificano determinati atteggiamenti e comportamenti.

    Dalla voglia di vedere al rischio di credere senza vedere

    La ricerca documenta una costatazione su cui spesso sono ritornato in queste riflessioni: è molto differenziato il modo con cui i giovani vivono l'esperienza religiosa e quello attraverso cui passa la sua maturazione.
    La costatazione è importante... anche per relativizzare ogni proposta di metodo, offerta all'insegna della sicurezza eccessiva.
    Esistono però delle costanti. Alcune riguardano l'espressione soggettiva dell'esperienza religiosa. Altre riguardano le esigenze oggettive del processo.
    Non possono essere disattese da chi cerca un tracciato educativo.
    Quasi a fine percorso, ne voglio ricordare alcune.
    - Spesso il punto di partenza verso l'esperienza religiosa è quella «voglia di vedere» qualcosa di nuovo e di inedito che nasce in chi non si accontenta più di quello che possiede.
    Emblematica è la figura di Zaccheo... che vuole vedere Gesù e si arrampica sull'albero, rischiando non poco. Così abitiamo la nostra terra: vogliamo vedere, toccare, sentire... e non ci basta quello che possediamo.
    - La voglia di sentire e di vedere «da sola» non basta: porta alla frenesia dell'avventura e conduce inesorabilmente alla morte. Molte storie di vita lo documentano.
    Deve diventare capacità di sfondare il confine del vissuto quotidiano, per sporgersi verso un soggetto nuovo, interlocutore autorevole del proprio limite. Il desiderio diventa ricerca di relazione, tensione verso qualcuno che sta oltre.
    - L'incontro con il mistero di Dio, nel volto concreto dei segni della sua presenza, dà nome al desiderio di relazione: voglio vedere Chi dà speranza alla mia esistenza.
    - La fede è fiducia e affidamento al mistero che riconosco decisivo per la mia esistenza, proprio perché ormai lo vedo, senza bisogno di toccarlo con mano.

    Qualche «via» percorribile

    Ho studiato una specie di itinerario educativo: dovrebbe rappresentare il percorso che porta a compimento l'esperienza religiosa.
    Questo quadro concettuale è importante, per ricordare tutto quello che non può essere smarrito sotto l'urganza del momento. Non è però sufficiente. L'impegno pastorale richiede anche una precisa strategia metodologica: la selezione delle risorse, tra le tante disponibili; l'invenzione di nuove l'organizzazione delle une e delle altre in un progetto operativo.
    Questa fatica riguarda operatori e comunità concrete. Per facilitare il lavoro suggerisco alcune «vie» che a me sembrano privilegiate.

    La via della narrazione

    Esiste nel mondo giovanile un profondo e intenso bisogno di qualcuno che faccia proposte. Questo mi sembra il punto cruciale di tutta la ricerca.
    Non basta però ripercorrere i modelli tradizionali, né possiamo rispolverare i vecchi strumenti educativi, per costringere i giovani in percorsi ormai superati.
    L'alternativa è già esperienza: la via della narrazione.
    La parola che ci scambiamo è sempre un racconto: una storia di vita, raccontata per aiutare altri a vivere, nella gioia, nella speranza, nella libertà di ritrovarsi protagonisti.
    Alla radice di questo racconto stanno le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività. Ripetere questo racconto non significa però riprodurre un evento sempre con le stesse parole. Comporta invece la capacità di esprimere la storia raccontata dentro la propria esperienza e la propria fede.
    Per questo ogni educatore ritrova nella sua esperienza e nella sua passione le parole e i contenuti per ridare vitalità e contemporaneità al suo racconto. La sua esperienza è parte integrante della storia che narra.
    Dalla parte della vita, anche i destinatari diventano protagonisti del racconto stesso. I giovani diventano «risorsa» e non più «problema».

    La via dell'esperienza

    La proposta non è solo un'offerta di significati per l'esistenza. Essa prima di tutto è un «vieni e vedrai». Corre perciò lungo le direttrici del confronto vissuto con i «segni» della presenza di Dio nella vita quotidiana.
    Nel contesto culturale attuale sono molti i segni di questa diffusa presenza. Ne ricordo alcuni, facendo esplicito riferimento ai risultati della ricerca.
    * I testimoni.
    Un elemento qualificante è dato dalla presenza di «testimoni».
    A contatto con testimoni di una presenza capace di saturare l'invocazione, risulta più facile l'affidamento personale al mistero, accoglienza di un evento che è la ragione di tutta la propria vita, motivo di pace interiore anche nel turbinio delle inquietudini che continuano ad attraversare l'esistenza, fondamento di speranza e di senso anche nella fatica quotidiana di esprimerlo e verificarlo.
    * Luoghi, incontri, celebrazioni, appartenenze.
    Un modo quasi strutturale di assicurare la funzione di «testimoni» è dato dai «luoghi» dove fare esperienza religiosa.
    L'affermazione nasce dalla costatazione dello stato di fatto e da una indicazione a carattere educativo.
    Di fatto la presenza in luoghi particolarmente significativi ha funzionato per molti come sostegno e sollecitazione all'esperienza religiosa.
    Oggi sembra urgente rivisitare la costatazione immaginando luoghi che possano assolvere a questa funzione, nelle mutate situazioni culturali.
    Uno di questi spazi è la comunità ecclesiale, soprattutto nelle sue espressioni particolarmente significative e sperimentabili (momenti liturgici, vita di gruppo e di movimento, incontri e manifestazioni giovanili...).
    A confronto con i dati della ricerca, non sembra possibile affermare, in modo perentorio, che la maturazione dell'esperienza religiosa stia di casa solo nel mondo degli appartenenti. È però significativo costatare come in genere l'appartenente a gruppi di riferimento ecclesiali esprima un livello più maturo di esperienza religiosa.

    La via dell'incontro

    La maturazione verso l'esperienza cristiana nasce da un incontro, significativo e sconvolgente: quello con Gesù, volto e parola di Dio o, per qualcuno, con Dio che ha un volto in Gesù.
    È un incontro speciale. Cerchiamo qualcuno che sta già alla porta e bussa. Appena accenniamo al primo passo, egli si fa incontro, come colui che per primo ama, accoglie e perdona.
    La percezione della vicinanza e della presenza di Dio è frequente, anche se i modi in cui si esprime sono assai differenti.
    La costatazione porta verso tre indicazioni:
    - è indispensabile, in situazione di pluralismo e di complessità, immaginare modalità diversificate, moltiplicando le proposte e le occasioni di esperienze in questa direzione;
    - anche se il giudizio educativo dovrà essere preciso ed esigente, la significatività di questi segni di presenza e vicinanza di Dio va misurata sulla soggettività (differente) dei giovani: il processo di autentificazione parte necessariamente dall'accoglienza incondizionata;
    - una funzione specialissima va riservata ai documenti della vita cristiana. Per questo siamo invitati a riscoprire il valore educativo e propositivo di alcuni «testi» privilegiati della nostra esperienza credente: i Vangeli, qualche Salmo, qualche testo autobiografico particolarmente suggestivo.

    La via della conoscenza

    Abbiamo riconosciuto molti segni del vissuto giovanile attuale come una ricerca di esperienza religiosa. È ricerca di senso e di speranza, spalancata verso l'oltre, perché molti giovani hanno ormai sperimentato la fragilità delle risposte con cui si incontrano. Persino coloro che contestano la vita ecclesiale, lo fanno nel nome di attese alte, che purtroppo riconoscono spesso deluse.
    Questa costatazione ci interpella.
    È vero che non possiamo fare proposte a chi non ha domande. Ma è ugualmente vero che «la domanda starà in maniera molto più chiara solo nella coscienza umana in cui si ode anche la risposta» (K. Rahner).
    Un momento metodologico decisivo è quindi la riformulazione dell'esperienza cristiana, nella sua globalità, per restituire ad essa tutta la sua forza interpellante: «Gli uomini devono sapere di quale progetto di ricerca occuparsi e a che cosa affidarsi.
    Ma se le chiese esprimono la loro antica tradizione cristiana d'esperienza in un sistema concettuale estraneo all'uomo moderno, priveranno anche la maggior parte degli uomini del piacere di afferrare questo progetto di ricerca come possibile interpretazione delle loro esperienze» (E. Schillebeeckx).
    In questo modo, anche la ricerca rilancia la necessità di ripensare a fondo la «spiritualità» cristiana.
    Per dirne il significato e la qualità, ricordo le parole dell'intervento conclusivo del Card. Ruini al Convegno ecclesiale di Palermo: «Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes (n. 37), parlando dell'attività umana corrotta dal peccato e redenta soltanto da Cristo, ci offre un'indicazione che, ai fini della spiritualità, mi sembra preziosa. Diventato nuova creatura dello Spirito Santo, l'uomo può e deve amare le cose che Dio ha creato, riceverle da Lui, guardarle e onorarle come se al presente uscissero dalle mani di Dio.
    Così, 'usando e godendo' delle creature in libertà e povertà di spirito, viene introdotto nel vero possesso del mondo, quasi niente abbia e tutto possegga (cf 2 Cor 6, 16). Quella piccola nuova parola 'godendo', unita all'altra classica 'usando', apre verso una nuova spiritualità cristiana, che potremmo dire specificamente moderna, non più caratterizzata prevalentemente dalla fuga e dal disprezzo del mondo, ma dall'impegno nel mondo e dalla simpatia per il mondo, come via di santificazione, ossia di accoglienza dell'amore di Dio per noi e di esercizio dell'amore verso Dio e verso il prossimo».


    T e r z a
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    NOVITÀ 2024


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