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    Educare al sabato



    Carmine Di Sante

    (NPG 1996-01-30)


    I vangeli, a volte, presentano Gesù in posizione di critica nei confronti del sabato, una delle pratiche rituali più importanti (se non la più importante) non solo dell'ebraismo dell'epoca neotestamentaria ma dell'ebraismo di tutti i tempi. Come esempio valga questo brano riferito da Luca: «Una volta [Gesù] stava insegnando in una sinagoga il giorno di sabato. C'era là una donna che aveva da diciotto anni uno spirito che la teneva inferma; era curva e non poteva drizzarsi in nessun modo. Gesù la vide, la chiamò a sé e le disse: 'Donna, sei libera dalla tua infermità', e le impose le mani. Subito quella si raddrizzò e glorificava Dio. Ma il capo della sinagoga, sdegnato perché Gesù aveva operato quella guarigione di sabato, rivolgendosi alla folla disse: 'Ci sono sei giorni in cui si deve lavorare; in quelli dunque venite a farvi curare e non in giorno di sabato'. Il Signore replicò: 'Ipocriti, non scioglie, forse, di sabato, ciascuno di voi il bue o l'asino dalla mangiatoia, per condurlo ad abbeverarlo? Questa figlia di Abramo, che satana ha tenuto legata diciott'anni, non doveva essere sciolta da questo legame in giorno di sabato?'» (Lc 13, 10-16).
    Questo brano (in cui Gesù contesta il presidente della comunità che non vuole che, in giorno di sabato, le persone vadano da lui per essere guarite) e altri brani simili (cf Mt 12,5; Lc 14, 1-5; Gv 5, 9, ecc.) sono stati interpretati dalla tradizione cristiana in senso, riduttivo: come se, con questa critica, Gesù volesse abolire il sabato ebraico e i significati da esso istituiti. In realtà brani come questi vanno interpretati non come contestazione del sabato ebraico smascherato come privo di senso, bensì come difesa del suo vero senso contro le contraffazioni e le cattive interpretazioni che lo insidiano.
    L'interpretazione secondo cui Gesù avrebbe abolito il sabato per sostituirlo con la domenica è insostenibile e va, quindi, abbandonata, come vuole espressamente il Concilio con la svolta della dichiarazione Nostra Aetatae 4 («Nella Nostra Età») che riscopre l'ebraismo come «vincolo spirituale» al quale la chiesa deve sentirsi legata costitutivamente. L'ebraismo, lungi dall'essere negato, deve essere riscoperto ed accolto. Questa «riscoperta» e questa «accoglienza» valgono anche per il sabato, nella cui patria e nel cui simbolismo si deposita una ricchezza inesauribile di senso che non solo non contraddice la domenica cristiana [1] ma si offre ad ogni uomo che si interroga sul significato della propria esistenza; soprattutto all'uomo di questa stagione di fine millennio per il quale uno dei problemi più gravi è quello del suo rapporto con il tempo. Quanto più, infatti, nelle cosiddette società del primo mondo aumenta il tempo libero, tanto più questo, invece che dal benessere, sembra essere attraversato dal malessere. Il «tempo libero»- libero dalla «costrizione» del lavoro - invece che tempo qualitativo si riconverte esso stesso in tempo quantitativo, vuoto contenitore dal quale fuggire con l'evasione (si pensi alla cosiddetta «febbre» del sabato sera) oppure da riempire con nuove occupazioni.
    Educarsi ed educare al sabato, recuperandone il significato tecnologico e antropologico in esso oggettivato, non è né vuole essere una ricerca «archeologica» o da snob, ma il ritorno ad una fonte di acqua viva dalla quale attingere per dissetarsi; al di fuori della metafora: per ripensare il proprio rapporto con il tempo come tempo qualitativo abitato dal senso.

    Cosa vuol dire sabato

    Il termine sabato è la italianizzazione del termine ebraico shabbat: di difficile traduzione perché in esso si condensa lo spirito stesso dell'ebraismo. Scrive A. J. Heschel: «Si può sintetizzare in un'unica espressione lo spirito dell'ebraismo? Esiste un termine nel quale si possa racchiudere la sua specifica essenza? Volgiamo la nostra attenzione al testo dei Dieci Comandamenti, questo monumento più di ogni altro rappresentativo dell'insegnamento ebraico, e vediamo se tale termine vi si può essere rintracciato. I dieci comandamenti sono stati tradotti in tutte le lingue, con un frasario che è divenuto parte della letteratura di tutti i popoli. Se leggiamo questo testo famoso in una qualsiasi traduzione, greca, latina o inglese che sia, siamo colpiti da un fatto sorprendente: tutte le parole del testo ebraico sono state rese facilmente con vocaboli equivalenti. Vi è una parola che corrisponde a pesel: idolo; vi sono parole che corrispondono, per esempio, a shamayim e a eretz: cielo e terra. Tradotto fedelmente in un'altra lingua, il testo suona come l'originale. Ma, fatto curioso, solo per una parola ebraica non si è trovato l'equivalente in nessun'altra lingua: Shabbat. «Ricordati del giorno del Sabato». Nel greco della versione dei Settanta leggiamo Sabbaton; nel latino della Volgata Sabbatum; in aramaico Shabbata; nella versione di Re Giacomo Sabbath».[2]
    Il termine ebraico shabbat non è stato mai tradotto e solo traslitterato perché i suoi significati non trovano facilmente riscontro nelle altre lingue. Dato questo «impossibile riscontro», coerentemente i traduttori hanno preferito lasciarlo così come suona nell'originale.
    A parte comunque il problema terminologico, nella bibbia il senso del sabato viene disegnato attraverso il suo collegamento all'evento della rivelazione e all'evento della creazione. È alla luce di quanto Dio ha compiuto per Israele in Egitto liberandolo dalla schiavitù (rivelazione) e alla luce di quanto ha fatto all'inizio del mondo facendolo passare dal caos all'ordine (creazione) che Israele rilegge e definisce il senso del sabato che, forse, originariamente, era un semplice giorno di riposo o di festa ad intervalli regolari.[3]
    Il testo esemplare che istituisce il legame tra il sabato e la rivelazione è Dt 5, 15: «Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso: perciò il Signore tuo Dio ti ordina di osservare il giorno di sabato». Stando a questo testo deuteronomico, ribadito anche in altri (Dt 6, 20-25; 10, 19; Lv 19, 34; ecc.), esiste un legame costitutivo tra la liberazione di Israele dalla schiavitù dell'Egitto e il sabato: poiché io ti ho liberato dalla schiavitù, per questo ti ordino di osservare il giorno di sabato. Questo, secondo il testo biblico, è la continuazione dello stesso gesto liberatore di Dio dalla schiavitù, è quel giorno, tra i giorni, in cui Israele continua ad essere liberato dalla schiavitù come già nell'esodo. Nella tradizione di Israele questo tema entrerà nella sua liturgia come «memoriale della liberazione dalla schiavitù d'Egitto».
    Il testo invece esemplare che collega il significato del sabato alla creazione è Esodo 20, 11: «Perché in sei giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha dichiarato sacro».
    Stando a questo testo, poiché Dio si riposa al termine della creazione, dopo aver realizzato il passaggio dal caos informe e senza vita (cf Gn 1, 2) al mondo «sette volte» buono, per questo Dio benedice il sabato e lo «consacra», letteralmente: lo «santifica». In ebraico santificare rimanda alla radice qdsh che vuol dire separare, nel senso di differenziare. Per il testo esodico c'è una differenza irriducibile tra gli altri giorni della settimana e il sabato, perché in quest'ultimo Dio ha vinto il caos piegandolo alla logica dell'ordine e del senso. Celebrare il sabato («Ricordati del giorno di sabato»: Es 20, 8) è custodire, per Israele, questa differenza irriducibile in cui si afferma la vittoria del senso sul caos. Il sabato non solo è la continuazione del gesto liberatore di Dio ma anche del suo gesto creatore del mondo. Anche questo secondo aspetto è entrato nella tradizione d'Israele come «memoriale della creazione», per cui nell'ambito liturgico il sabato è celebrato come duplice «memoriale»: della liberazione e della creazione.
    Oltre a collegare il sabato alla rivelazione e alla creazione, il testo biblico determina anche, con fermezza, che cosa comporta questo collegamento per Israele: in negativo l'assenza di tutti i lavori, in positivo l'obbligo di un riposo assoluto. Esemplare anche qui un testo del Deuteronomio: «Osserva il giorno di sabato per santificarlo, come il Signore Dio tuo ti ha comandato. Sei giorni faticherai e farai ogni lavoro, ma il settimo giorno è il sabato per il Signore tuo Dio: non fare lavoro alcuno né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bue, né il tuo asino, né alcuna delle tue bestie, né il forestiero, che sta dentro le tue porte, perché il tuo schiavo e la tua schiava si riposino come te. Ricordati che sei stato schiavo nel paese d'Egitto e che il Signore tuo Dio ti ha fatto uscire di là con mano potente e braccio teso...» (Dt 5, 12-15). Si tratta di un riposo vincolante non solo l'ebreo libero, non solo l'ebreo schiavo, ma anche lo straniero (che non appartiene alla comunità d'Israele) e gli stessi animali.
    A questo aspetto del sabato come riposo (che secondo alcuni autori è il significato stesso all'etimo shabbat e che è certamente l'aspetto più noto passato alla tradizione occidentale) i commentari ebraici, dalla Mishnah al Talmud, dedicano particolare importanza: elencando con cura quali sono i lavori proibiti e i criteri con cui definirli.
    Educarsi ed educare al sabato è comprendere questo triplice collegamento (il sabato come memoriale della rivelazione, il sabato come memoriale della creazione e il sabato come riposo e astensione dal lavoro) cogliendone, nella reciprocità delle relazioni, il dono di senso che in esso si sedimenta e la sua fecondità per l'uomo postmoderno. Questo dono di senso - accogliendo il quale è educarsi al sabato - è una prospettiva sapienziale sul tempo: svelandoci il segreto di come abitarlo, convertendolo da tempo quantitativo e vuoto a tempo qualitativo e redento, e da tempo dell'identità, tempo per l'io, a tempo dell'alterità, tempo per l'altro. Abbozziamo questa prospettiva attraverso cinque momenti riflessivi che, nel loro insieme, delineano una figura di senso unitaria.

    Il tempo di Dio

    Collegando il sabato al Dio della rivelazione e al Dio della creazione, Israele istituisce la signoria di Dio sul tempo. Dal punto di vista della successione cronologica, il sabato è un giorno come tutti gli altri: l'avvicendarsi di un inizio e di una fine determinati dall'apparire e scomparire del sole entro cui si dispiegano l'apparire e lo scomparire dell'esistenza umana.
    La scelta di un giorno consacrato a Dio e altro da tutti gli altri, non significa, per Israele, onorare Dio con un giorno speciale, come se gli altri fossero inadeguati, ma servirsi di un giorno - il giorno di sabato - per dire, attraverso quel giorno, il senso di tutti i giorni. Ciò che Israele dice del sabato non riguarda, perciò, solo questo giorno ma tutti i giorni. Esso dice cos'è il tempo dal punto di vista creatore e cosa bisogna fare per abitarlo in pienezza di senso.
    In quanto giorno consacrato a Dio, il sabato dice che ogni tempo è tempo di Dio: di quel Dio che è il Dio della liberazione e il Dio della creazione. Ogni tempo: non solo, quindi, il tempo di sabato, il tempo festivo o alcuni tempi particolari ma ogni tempo, da quello lavorativo a quello libero, da quello in cui si gioisce a quello in cui si piange, da quello in cui si nasce a quello in cui si muore. Dio è signore del tempo: di ogni tempo, di tutti i miei tempi.
    L'affermazione che il tempo è di Dio (o, ciò che è lo stesso, della signoria di Dio sul tempo) significa soprattutto tre cose.
    Innanzitutto che il tempo non è divino: non è una realtà assoluta attraverso il cui scorrere Dio stesso si manifesta, apparendo e scomparendo nell'eterno gioco delle forme che nascono e muoiono. È questa la cosiddetta concezione ciclica del tempo, comune alla maggior parte delle culture prive dell'esperienza monoteistica, dove tutto quello che in esso avviene, non solo a livello naturale ma anche a livello storico, è l'epifania del divino stesso e dove, coerentemente, non c'è spazio per la storia umana, essendo, i soggetti che la fanno, strumenti, poco importa se consapevoli o meno, della storia divina.
    In secondo luogo l'affermazione del tempo come tempo di Dio vuol dire che esso neppure è tempo umano: realtà il cui senso è dato da quello che l'uomo vi immette. Come non è divino, perché non è dispiegamento naturale del volere di Dio, neppure il tempo è umano, perché esso, per la bibbia, non è la produzione del volere dell'uomo, vincolato, se non altro, ai suoi ritmi che ne determinano irreversibilmente la sua nascita e la sua morte. Il tempo moderno, a differenza del tempo delle culture naturalistiche ed organiche, è tempo progettuale e tempo del mercante: tempo dove tutto viene riempito dall'arco desiderativo del soggetto umano (tempo progettuale) e che trova la sua espressione compiuta nel produrre (tempo del mercante, per il quale il «tempo è denaro»). Affermare che il tempo è di Dio è, quindi, denunciare l'alienazione di un tempo che si vuole solo progettuale e strumentale. È certo che nessuna generazione, come l'attuale, è in grado di sperimentare la verità di questo principio del sabato biblico, dal momento che la grande libertà e la grande ricchezza di cui essa gode, invece di tradursi in senso di benessere, sembra tradursi in disagio e malessere.
    In terzo luogo, infine, affermare che il tempo è di Dio, vuol dire, in positivo, affermare che in esso c'è un senso voluto da Dio e non dall'uomo e che, non prodotto dall'uomo, è per l'uomo. Appunto perché nel tempo si iscrive una intenzionalità che ha Dio per origine e l'uomo per fine, il suo senso non è né divino (il tempo ciclico) né umano (il tempo progettuale) ma è con-senso (in termini biblici alleanza) tra l'uno e l'altro.

    Il tempo per l'uomo

    Affermare che il sabato istituisce il tempo come tempo per l'uomo vuol dire che il tempo, non diversamente da ogni altra realtà creata, è realtà buona, «sette volte buona», secondo il racconto della creazione. E poiché il tempo definisce l'inizio e la fine, il nascere e il morire del soggetto umano, affermare la realtà buona del tempo è affermare la positività dell'esistenza umana in quanto esistenza finita e mortale. La finitezza dell'esistenza - che, per questo, è esistenza temporale - non è un torto fatto all'uomo e alla sua sete d'infinito, ma si iscrive nella sapienza creatrice e ordinatrice di Dio stesso. Scrive Rosenzweig: «La morte, che per ogni ente creato è una giusta adempitrice di tutta la sua cosalità, spinge impercettibilmente la creazione nel passato e così la rende una silenziosa, costante predizione del miracolo del proprio rinnovamento. Per questo il sesto giorno della creazione non viene detto che era 'buono', bensì: 'ecco, buono proprio molto'. 'Proprio molto', così insegnavano i nostri antichi, 'proprio molto': questa è la morte».[4]
    L'affermazione paradossale che la «morte è buona» contraddice non solo l'esperienza dell'occidente il cui inconscio, come è noto, è abitato dall'angoscia della morte e dalla rimozione della sua realtà, ma anche il suo pensiero che, fin dagli albori, ha negato ogni valore alla finitezza in sé per leggerla alla luce della totalità; e contraddice la stessa tradizione cristiana la quale ha omologato spesso la «morte cattiva», frutto del peccato e sinonimo di esistenza alienata, con la «morte buona», espressione del processo naturale e iscritta nel volere creatore.[5]
    Istituendo il tempo come tempo di Dio donato all'uomo, il sabato (in cui si oggettiva simbolicamente la sapienza biblica) istituisce la positività dell'esistenza umana in quanto esistenza «finita».
    L'esistenza umana temporale e mortale, se è una ferita al proprio narcisismo malato di onnipotenza, è espressione della sapienza creatrice per l'uomo che vi acconsente. Recuperare il sabato è recuperare la positività della propria finitezza, accettandola con gioia e non rimuovendola nell'illusione di voler restare sempre «giovani» e «belli». Recuperare il sabato educandosi ed educando alla sua logica è ritrovare il senso della propria finitezza come «compiutezza» ed è rapportarsi al tempo con un atteggiamento che, alla volontà progettuale di imporvi la propria razionalità e il proprio ordine, sappia sostituire l'intelligenza ricettiva e paziente che si lascia ammaestrare dalla razionalità e dall'ordine che Dio vi ha iscritto.
    Come esempio di un nuovo rapporto con il tempo può essere illuminante questo testo di V. Havel, l'ex-presidente della Cecoslovacchia: «Pensavo che il tempo fosse mio. Ero caduto in un grave errore: il tempo, la storia, l'essere sono regolati da tempi propri, sui quali possiamo intervenire creativamente, ma che nessuno può mai dominare. Il mondo e l'essere non obbediscono ciecamente alle ingiunzioni di qualche tecnocrate o politico; rifiutano le loro spiegazioni distruttive; così come il mondo, la storia, l'essere hanno i loro segreti che colgono alla sprovvista la ragione moderna fondamentalmente razionalista, e hanno anche percorsi propri e sotterranei. Voler sopprimere questa impenetrabile tortuosità con infernali dighe comporta molti rischi. Io ho constatato con orrore che la mia impazienza di vedere ristabilita la democrazia aveva qualcosa di comunista ed anche, in senso più generale, qualcosa di razionalista. Volevo far progredire la storia un po' come un bambino si mette a tirare una pianta per farla crescere più in fretta. Credo che bisogna imparare ad aspettare, così come si impara a creare: seminare pazientemente il grano, annaffiare assiduamente la terra che lo ricopre e concedere alle piante i loro tempi. Non si può ingannare una pianta come non si può ingannare la storia; ma si può innaffiare pazientemente tutti i giorni, con comprensione, con umiltà e anche con amore».[6]

    L'orizzonte del gratuito

    Oltre alla positività dell'esistenza finita, il sabato istituisce la ragione di questa positività. Per questo esso è collegato, come si è notato, con il Dio della rivelazione e della creazione, «memoriale» dell'una e dell'altra.
    Ciò vuol dire che il motivo per cui l'esistenza temporale è esistenza positiva non va ricercato, per la fede biblica oggettivata nel sabato, in quello che l'uomo realizza in essa, ma in quello che il Dio della rivelazione e della creazione vi realizza: il suo amore che, gratuitamente, si china sull'uomo, essere di bisogno, per colmarlo e promuoverlo alla vita e alla felicità. La ragione della positività dell'esistenza umana - esistenza finita e temporale - non va cercata in quello che l'uomo fa ma in quello che all'uomo è fatto. Il sabato, istituendo la positività dell'esistenza umana, l'istituisce come esistenza gratuita: esistenza dove tutto è dato, anteriormente ad ogni proprio agire, e dove la parola prima e fondante non è l'attività dell'io ma la sua recettività.
    È a questo livello che va individuato il significato profondo ed originale del sabato: nel dischiudere al soggetto umano un'autocomprensione nuova dove egli si vive portatore di valore e di dignità, non in forza della capacità realizzativa e produttiva del suo io, bensì in forza di ciò che - sorpresa ed evento - gli è dato: da quel Dio che gratuitamente, per libero amore, si è chinato su Israele schiavo e che, sempre gratuitamente, per libero amore, ha creato il mondo «sette volte buono». Non si capisce nulla del sabato ebraico e della potenza di senso che esso dischiude se non si coglie questa dimensione di gratuità che esso istituisce e dentro il quale l'io può viversi con lo stesso atteggiamento di abbandono e di pace di cui parla il salmista:

    «Io sono tranquillo e sereno
    come bimbo svezzato
    in braccio a sua madre,
    come un bimbo svezzato
    è l'anima mia.
    Speri Israele, nel Signore,
    ora e sempre» (Sal 131, 2-3).

    Educare ed educarsi al sabato è recuperare questo orizzonte del gratuito dove, libero dall'ossessione della competizione e del confronto come pure dall'affanno dell'«occupazione» e della «pre-occupazione», l'io si vive non progettualmente ma recettivamente.
    Si è già detto che uno dei tratti distintivi del sabato, passato anche alla tradizione cristiana e alla stessa cultura laica, è l'obbligo di «riposarsi», astenendosi dai lavori «materiali» o «profani». Ma in base a che cosa un lavoro è definito tale?
    Per la tradizione ebraica, a differenza della tradizione ellenistico-cristiana, i due aggettivi si riferiscono non all'area dell'agire dove l'uomo è coinvolto con le sue facoltà corporee e «inferiori» invece che con quelle nobili e spirituali, ma a qualsiasi agire, compreso quello intellettuale, in cui egli si vive come realizzatore di un fine posto dal suo io: cioè come volontà di affermazione e principio di progettazione.[7] L'obbligo di astenersi dai lavori materiali coincide, perciò, con l'obbligo di interrompere l'arco desiderativo e progettuale: obbligo assoluto, inderogabile e incondizionato (è in questa prospettiva che va letta la stessa pena di morte per chi lo viola!) che, per la bibbia, coincide con lo stesso dischiudersi dell'orizzonte del grauito. Questo - il gratuito - emerge solo là dove il soggetto, non più curvo sul suo io e liberato dalle sue istanze, si de-progettualizza e si fa recettivo.
    Educarsi e educare al sabato è riapprendere questa antica saggezza per la quale noi valiamo non per le nostre capacità naturali o per le nostre realizzazioni storiche, cioè non per le nostre «doti» o per le nostre «opere», per le nostre «virtù» o per i nostri «meriti», bensì per ciò che, ogni giorno, Dio ci dona gratuitamente: «Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?» (Mt 6, 26).

    La ri-conoscenza

    Nell'orizzonte del gratuito istituito dal sabato, si dissolve la comprensione dell'uomo come essere progettuale e si disegna una nuova figura antropologica dai due tratti irriducibili.
    Il primo è quello della riconoscenza, nel duplice senso di nuova conoscenza e di gratitudine che la innerva.
    Innanzitutto la riconoscenza come nuova conoscenza. Nuova conoscenza di sé: che si vale non per le proprie dotazioni naturali (di prontezza, di intelligenza e di bellezza, ecc.) e neppure per i propri successi (poco importa se nel campo economico, artistico, letterario, ecc.), bensì per quello che ogni giorno ci viene dato gratis. Nuova conoscenza degli altri: non concorrenti o rivali nel banchetto della vita ma uguali commensali invitati dallo stesso Dio. Nuova conoscenza del mondo: non pura datità che risponde al proprio bisogno ma dono che, nella sua materialità, custodisce il «di più» dell'amore di Dio che, sollecito, lo dona al bisogno umano.
    Scrive A. J. Heschel, il grande maestro dell'ebraismo scomparso negli anni Settanta: «Questa è una delle mete a cui tende il vivere ebraico: sentire gli atti più banali come avventure spirituali, percepire l'amore e la saggezza che si celano in tutte le cose. Nel canto del Mar Rosso leggiamo: 'Chi è pari a te, fra gli dei, o Signore? Chi è pari a te, mirabile nella tua santità, tremendo, anche a chi ti loda, operatore di prodigi?' (Es 15, 11). I Rabbini osservano: qui non vi è scritto che egli fu operatore di prodigi, bensì che lo è... Egli fece cose meravigliose e ancora le fa per noi in ogni generazione, come è detto: 'Meravigliose sono le tue opere, e l'anima mia lo sa molto bene' (Sal 139, 14)».[8]
    La ri-conoscenza come «nuova conoscenza» è conoscenza del mondo come miracolo, oltre alla logica sia della necessità e sia della casualità.
    Ma la riconoscenza «come nuova conoscenza» (come nell'espressione: «ho riconosciuto quella persona») si traduce immediatamente in «gratitudine» e «ringraziamento» (come nell'espressione: «gli sono riconoscente per quello che ha fatto»).
    Ed è proprio qui - nella riconoscenza come gratitudine - che va individuato il secondo tratto della nuova figura antropologica emergente dall'orizzonte del gratuito. Poiché tutto mi è dato e poiché so che tutto mi è dato (è questa la possibilità riservata solo all'umano), per questo dico grazie. Il linguaggio del grazie è la sola possibile risposta alla scoperta che tutto è grazia.
    È questa la ragione profonda per la quale il giorno di sabato è caratterizzato dalla preghiera di lode e di ringraziamento (nella liturgia ebraica in questo giorno sono vietate perfino le preghiere di petizione). Essendo «il giorno della grazia», esso può essere solo, coerentemente, «il giorno del grazie». Un «grazie» che, espresso individualmente o comunitariamente, nella semplicità di una formula breve o di un testo complesso, è la ritrascrizione, a livello di vissuto e di linguaggio, della scoperta che tutto è grazia.
    Educarsi e educare al sabato è recuperare la capacità di dire grazie, infrangendo la logica dello «scontato» e del «dovuto» nella quale si è murati e (ri)scoprendo sotto ogni pezzo di pane che mangiamo non solo la gratuità di Dio che ce lo dona ma anche quella delle tante mani e dei tanti volti che (non importa se a loro stessa insaputa o con altri intenti) rendono possibile che arrivi sulle nostre mense: da chi lo ha seminato, a chi lo ha arato, macinato, impastato, formato, infornato, confezionato, trasportato, consegnato, ecc. Volti ognuno con la propria storia e il proprio intreccio di gioie e di sofferenze e che il fatto che noi «paghiamo» non basta a cancellare, come con una perversa bacchetta magica.

    Il disinteressamento o la bontà

    Ma oltre che dalla gratuità riconosciuta ed espressa, il sabato è caratterizzato soprattutto dalla gratuità riprodotta ed agita. È qui che, per la bibbia e per la tradizione ebraica, si coglie il senso ultimo e più profondo del sabato: nell'istituire un orizzonte di gratuità che non si offre all'uomo come fruibile («che bello che tutto mi è dato gratis») ma come imperativo: quello che mi è dato gratis sono chiamato a ridarlo gratis.
    Ridare gratis ciò che si è ricevuto gratis non è né vuole essere una formula pia dai contenuti indistinti, ma l'affermazione di un amore altro dall'amore di desiderio e di appartenenza, l'amore come bontà o come disinteressamento che solo l'apparizione della gratuità di Dio come comandamento istituisce: «Non lederai il diritto dello straniero e dell'orfano e non prenderai in pegno la veste della vedova. Ricordati che sei stato schiavo in Egitto e te ne ha liberato il Signore tuo Dio, perciò ti prego di fare questo» (Dt 24, 17-18; cf pure Dt 15, 15; Es 22, 20).
    Amare «lo straniero», «l'orfano» e «la vedova» (alcune delle categorie rappresentative dis-valore che, non attirando a sé, disegnano lo spazio dell'estraneità e della lontananza) non è estendere il proprio amore ad una cerchia sempre più ampia di persone, ma è il dischiudersi, nella storia del soggetto umano, di un amore altro dall'amore naturale: l'amore di alterità, che la bibbia chiama agape e che è dato non a chi è già prossimo ma istituisce esso stesso, come nella parabola del buon samaritano, la prossimità; una prossimità radicale che è comunione escatologica, cioè definitiva e assoluta, che non può essere più infranta perché, ad imitazione del farsi prossimità di Dio all'uomo, è, per volontà di bene personale, accoglienza dell'estraneità e dell'inimicizia.
    È a questo livello di profondità che alcuni maestri dell'ebraismo rileggono lo stesso racconto mitico del «riposo di Dio», narrato dalla Genesi: «Allora Dio nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e si riposò (nell'originale il verbo shavat) nel settimo giorno da ogni suo lavoro» (Gn 2,2). Se il lavoro di Dio è la creazione e se la creazione, per Dio, più che il far essere le cose in sé è il suo donarle per amore all'uomo, il «riposo» di cui parla il testo biblico, al di là del suo linguaggio antropomorfico e mitico, può significare solo questo: che Dio sospende la sua intenzionalità creatrice per affidarla all'uomo, come una madre che, dopo aver lavorato per preparare una torta, «si ritira», consegnandola alla responsabilità dei commensali, dalla quale dipende la riuscita della festa.
    Il «riposo di Dio», il suo shabbat, istituisce, per la bibbia, la responsabilità radicale e indeclinabile dell'uomo: la sua vocazione ad amare gratuitamente, la sua vocazione alla giustizia, alla bontà e al disinteressamento.
    È proprio nell'instaurazione di questo orizzonte - l'orizzonte della giustizia, della bontà o del disinteressamento - che va colto il significato ultimo e radicale del sabato biblico e del «riposo» che esso istituisce.
    Sospendendo il tempo come tempo della produzione (per lavorare) e della fruizione (per soddisfare i bisogni), il sabato lo reinstaura come tempo dell'accoglienza, dell'ospitalità, della fraternità, della solidarietà e del perdono: come tempo delle «opere di misericordia» («dar da mangiare agli affamati», «dar da bere agli assetati», «vestire gli ignudi», «alloggiare i pellegrini», «visitare gli infermi», «visitare i carcerati», «seppellire i morti») attraverso le quali nel mondo entra l'amore di Dio e si realizza il suo regno. Per questo il Talmud insegna che, se il sabato fosse osservato da tutti gli uomini per due volte consecutivamente, in quel momento, arriverebbe l'era messianica.
    Educarsi ed educare al sabato è riscoprire questa vocazione originaria alla bontà o al disinterssamento, deponendo «i sacrosanti diritti» dell'io (ossessione della soggettività postmoderna e principio inconfessato di indicibili violenze) ai piedi dell'alterità dell'altro e «convertendolo» alla diaconia o servizio. In questa «deposizione» e in questa «conversione» - che esigono dal soggetto una vera «morte» - l'io nasce a un nuovo mondo: il mondo come creazione - mondo «sette volte» buono - affidato alla sua responsabilità personale e indeclinabile.
    È in questa responsabilità personale e indeclinabile che l'io scopre la sua patria e il suo senso. Per questo il sabato, come ha scritto Heschel «raffigura l'eternità entro il tempo, il fondamento spirituale della storia. Nel linguaggio dell'ebreo vivere sub specie aeternitatis [alla luce dell'eternità] significa vivere sub specie Sabbatis [alla luce del Sabato]».[9]


    NOTE

    [1] A proposito rimando al mio articolo L'esperienza religiosa nella bibbia (NPG 4/1994, pp. 6-25) dove il rapporto tra le scritture ebraiche e le scritture cristiane viene tematizzato sulla linea della rifondazione e non della opposizione o della «evoluzione».
    [2] J. Heschel, Dio alla ricerca dell'uomo. Una filosofia dell'ebraismo, Borla, Torino 1969, p. 449.
    [3] Cf De Vaux R., Le istituzioni dell'Antico Testamento, Marietti, Torino 1964, p. 462.
    [4] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985, p. 165.
    [5] Per questa distinzione, molto importante biblicamente, rimando al mio articolo Di fronte al morire, in NPG 2/1995, pp. 55-60 e al mio volumetto Il futuro dell'uomo nel futuro di Dio. Ripensare l'escatologia, Elle Di Ci, Torino, soprattutto pp. 75-93.
    [6] Testo in A. Rizzi, Le età della vita, in «Servitium» 94/1994, p. 6.
    [7] Per quest'aspetto rimando al mio Parola e Terra. Per una teologia dell'ebraismo, Marietti, Genova 1990, pp. 89 ss.
    [8] Dio alla ricerca dell'uomo, cit., p. 69.
    [9] Dio alla ricerca dell'uomo, cit., pp. 450-51.


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