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    Gesù e la morte: tratti del morire cristiano



    Cesare Bissoli

    (NPG 1995-02-67)


    Anche i cristiani muoiono. Anche i cristiani provano paura e angoscia di fronte alla morte, fino alla disperazione e alla rivolta, che non parrebbero consentite dalla loro fede. Anche i cristiani perciò si fanno domande sulla morte, sulle ragioni per cui la morte avviene e sulle possibilità di un suo superamento. Sono come tutte le persone di questo mondo. Salvo una cosa.

    Sfidati dallo stesso problema

    Al centro della loro visione di vita sta una singolare figura, Gesù di Nazaret, un condannato a morte con sentenza eseguita, dal cui destino ricavano (dovrebbero ricavare) motivi decisivi per vivere e morire. Tanto che le parole finali della loro professione di fede, in cui pure nominano la morte di Gesù, suonano così: «Credo la vita eterna». È il paradosso che intendiamo lumeggiare, attraverso lo strumento dell'esegesi, avendo la duplice esigenza di mantenere il contatto con la domanda di senso che fa da filo rosso dell'intero fascicolo di Note, e per questo evidenziando con dei corsivi le maggiori incidenze esistenziali.
    Gesù di Nazaret - credono i cristiani - è dunque la chiave ermeneutica ed insieme risolutiva del morire dell'uomo. Ne dovrebbero però parlare come in punta di piedi, contro ogni trionfalismo di aver la soluzione in tasca e a poco prezzo, ma nemmeno rinunciando ed anzi condividendo le luci di una singolare speranza.

    «Chi avrebbe creduto alla nostra rivelazione?» (Is 53,1): una esperienza sovraccarica

    Fin dagli inizi, i primi discepoli sono rimasti sconcertati dalla morte di Gesù, interpellati da tanti punti di vista:
    - per il fatto stesso che Gesù, il Messia, l'inviato di Dio sia morto (cf Mc 8, 32-33);
    - che sia morto non nel suo letto, come un patriarca biblico carico di anni, progressivamente sostituito in vecchiaia dai giovani figli, più fonte di memoria che di promesse, bensì stroncato nel pieno della sua maturità e del suo servizio al Regno di Dio (un evento tanto decisivo portato avanti solo per un paio di anni!);
    - che Gesù sia morto in quel modo: come un condannato, pur essendo giusto innocente, nella tipologia dunque del delinquente, malfattore, un «crocifisso» (cf Gal 3,13), con i sigilli della legalità civile e religiosa; che tutta la sua vita sia stata solcata da minacce di morte, fin dall'infanzia (cf Mt 2, 13; Mc 3,6);
    - che pur chinandosi sulle morti altrui ridando la vita in forme talora grandiose (come nel caso di Lazzaro) (cf Lc 7, 11-17; Gv 11), non abbia fatto - pur sollecitato (cf Mc 15, 31-32) - nessun segno estremo di vittoria per sé, né per i suoi cari (Maria);
    - che sia morto avendo paura, orrore, quasi abbandonato da Dio, che pure chiamava Padre (cf Lc 15, 34);
    - ... eppure fidandosi di Lui e affidandosi a Lui radicalmente (cf Lc 23, 46; Ebr 5, 78);
    - che a questa morte abbia fatto seguito un altro evento misterioso ed inaudito, la risurrezione, tanto bello a dirsi e dolce a gustarsi, ma capace di rendere ancora più drammatico ed enigmatico il senso della morte: avvenimento fatale, errore di percorso da dimenticare, Parola di grazia: ma quale? (cf 1 Cor 11, 23);
    - che già a distanza di anni dopo questa morte (verso l'anno 30 del I sec.), vi siano ancora delle persone che ne parlino a Gerusalemme, lungo il bacino del Mediterraneo, ad Atene e a Roma, la celebrino ogni domenica, siano attratte da questo essere Crocifisso fino ad identificarsi con Lui, portandone le stimmate (cf 1 Cor 1, 17; Gal 6, 17).
    Si dovrebbe aggiungere e non è certamente ultima ragione di sorpresa per noi che da venti secoli continua questa memoria del Crocefisso, sotto tutti i cieli e in innumerevoli forme culturali.
    La morte di Gesù appare ai discepoli un'esperienza sovraccarica, in quanto intrisa fatalmente di interrogativi. un primo tratto, il tratto della soglia, del morire cristiano: farsene una domanda, tante domande, riscattare la morte dall'appiattimento banale della fatalità (tutti si deve morire), ma anche dalla prigione del non senso e della rimozione dalla memoria. Il parlarne interrogativamente è già un modo giusto di affrontarla e viverla.
    Ma chiediamoci: a quali risposte ha portato un'esperienza tanto sovraccarica? E per quale itinerario?

    «Noi predichiamo Cristo Crocifisso (1 Cor 1,22): le tappe di un cammino di fede

    Lo studio esegetico permette di cogliere tra i primi cristiani un itinerario, non facile, anzi tormentoso, esistenziale prima che teoretico, per cui si arriva a percepire il senso della tragica fine del Maestro. Dagli strati più antichi dell'annuncio apostolico, passando per Paolo e Giovanni (massimi teologi della morte di Cristo), veniamo a individuare come le tappe da identificazione e di svelamento del «mistero di grazia» che sta nella morte del Signore.
    * «Voi l'avete ucciso, ma Dio lo ha risuscitato» (Atti 2, 23-24).
    È l'antitesi significativa che appare in bocca a Pietro nel discorso di Pentecoste.
    Annota R. Penna che, agli occhi dei primi discepoli, la morte di Gesù dovette apparire come una vera disfatta, il naufragio delle credenze e delle attese messianiche (cf Mc 14, 27; Lc 24, 21), riscattata dall'evento della risurrezione, che non viene quindi proclamata per se stessa. ma si direbbe per il suo valore di primo e fondamentale criterio ermeneutico della morte in croce.
    Ciò comporta un ulteriore, decisivo tratto esistenziale dell'intelligenza cristiana della morte: è un evento talmente sterile e dunque irreparabile cui solo un evento totalmente altro può arrecare un segno contrario: è la risurrezione, evento che non può non avere i connotati della lotta vittoriosa (è il linguaggio che sottostà a Rom 6, ad Ef 1, Apoc...). È il «prodigioso duello» che risuona nella sequenza alla Messa di Pasqua.
    * «È morto per i nostri peccati» (1 Cor 15,3).
    Fa parte di una delle prime formulazioni di fede. Se l'evento di risurrezione avviene ad interpretare lo scandalo della croce, è anche vero il contrario: che questa motiva la resurrezione. Avrebbe potuto Dio ridare la vita ad un malfattore? O invece la morte di Gesù era stata gradita a Dio «come oblazione o sacrificio... in odore di soavità (Ef 5, 2)?
    Qui compare il caratteristico «pro nobis» («morì per noi», 1 Tess 5, 10), noi che «eravamo ancora peccatori» (Rom 5, 6 ss).
    In sintesi: «morì per i nostri peccati».
    Altri due tratti da recepire: la morte di Gesù non è un vuoto da colmare, ma un misterioso dono da accogliere. O, come diceva già il Maestro, è come un seme fecondo destinato a portare frutto (cf Gv 12, 24). «per noi», a favore di ogni uomo in quanto tale (cf Mc 10, 45).
    In secondo luogo, la morte porta con sé un preciso, odioso riferimento al peccato, al male morale, che assume in sé, quello sì, i connotati della morte irreparabile (cf Rom 13). Con Cristo, nel solco dell'eredità biblica si opera una definitiva disgiunzione sul senso di morte: la morte fisica, male superabile; morte morale (dell'anima), male e morte vera.
    La morte di Cristo appare così come un drammatico evento di salvezza. redenzione che batte il peccato, libera dalla morte morale e fa di quella fisica un passaggio alla vita.
    * «... secondo le Scritture» (1 Cor 15,3).
    È uno degli indicatori costanti, ogni volta che si parla della morte di Gesù: dall'antica formula di 1 Cor 15, 3 ss, nella predicazione di Pietro al popolo (At 3, 18), nella catechesi che sottostà al racconto di Emmaus (Lc 24, 27; cf 24, 48), nel florilegio di citazioni dell'AT che scandiscono le narrazioni evangeliche della passione e morte.
    Una figura tra tutte dell'AT è vista congrua all'esperienza di Gesù: la figura del Servo sofferente di Isaia 52-53 (At 3, 13.26).
    Hanno un senso preciso questi richiami alle Scritture: sono rivelazione stessa di Dio, il suo progetto e dunque il suo volere: «Non doveva il Cristo soffrire queste cose ed entrare nella sua gloria?», è la sintesi biblica che Gesù stesso fa della sua morte (Lc 24, 26).
    Vi attingiamo un tratto del morire cristiano alla luce di Gesù, contestuale, se si vuole, ma proprio per questo tanto singolare quanto importante. un evento strettamente religioso, coinvolge lo stesso mistero di Dio e dunque si iscrive nella vastità del piano di Dio nella storia. Se il binomio Dio e morte dell'uomo sono continuo fermento di domanda fino alla bestemmia, il binomio Dio e morte di Cristo diventano finalmente risolutivi di tale aporia. Per questo la morte di Gesù sarà al vertice della rivelazione di Dio, la testimonianza del suo amore: «Dio ha tanto amato il mondo da dare (in sacrificio) il suo stesso figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3, 16).
    * «Ha amato me e ha dato se stesso per me» (Gal 2, 20).
    È una espressione commossa di Paolo, durante una sua confessione autobiografica ai Galati. Appare in primo piano l'incidenza esistenziale (mistica e spirituale) della morte obbrobriosa di Gesù. All'interno di questa si legge non solo un provvidenziale atto di riparazione oggettiva, ma ancora di più, un gesto di amore grande e totale come il dono della vita. È la filigrana che sottostà alla lettura matura di Paolo, di Giovanni, della l Pietro: «Poiché l'amore del Cristo ci spinge al pensiero che uno è morto per tutti» (2 Cor 5, 14); «Nessuno ha amore più grande di questo: dare la vita per propri amici» (Gv 15, 13); «Voi foste liberati... con il sangue prezioso di Cristo» (1 Pt 1, 19).
    L'esperienza della morte come scandalo rimane, ma ormai appare segnata da un riconoscimento amoroso, imprevedibile agli inizi, non chiaro nemmeno nella rivelazione dell'AT. Il morire di Gesù è un offrirsi di Gesù, una oblazione di sé a Dio per noi: «Ha amato me e ha dato se stesso per me», come afferma Paolo. Non è una deduzione logica che lo fa capire, ma una compagnia di vita con il Crocifisso, una sorta di riproduzione in se stessi della passione e morte del Maestro. Si profila l'ultimo decisivo paradosso della comprensione cristiana del morire: «Beati coloro che muoiono nel Signore» (Apoc 14,13).
    Quasi una reciprocità: Lui che muore per noi; noi che moriamo per lui, con lui, in lui.

    «Veramente quest'uomo era giusto» (Lc 23,47): la morte di Gesù e in Gesù

    Il discorso fin qui fatto mette in chiara luce che alla base della predicazione e della teologia della croce nella prima chiesa sta l'effettiva esperienza di un crocifisso, esperienza storica, vissuta da testimoni e per questo potuta annunciare. Procedendo quindi a ritroso secondo quella che fu la dinamica di composizione degli scritti del NT, la prima riflessione apostolica dovette per forza tematizzare la morte di Gesù così come il personaggio l'aveva vissuta, prima ancora, indagando se e come l'aveva prevista, e ancor più in generale come l'aveva lui direttamente «trattata», dato che le tradizioni evangeliche ricordavano dei suoi interventi sulla morte e su dei morti.
    Si apre il capitolo affascinante di «Gesù di fronte alla propria morte», per dirla con studi moderni, tra tutti quelli di X. Léon-Dufour (LDC, 1982) e di H. Schurmann (Morcelliana, 1983), che hanno finalmente scavato la morte di Gesù non solo nel suo senso oggettivo (valore salvifico), ma nella intensa e drammatica esistenzialità che tale evento comporta, dunque in quanto «morire di Gesù», la coscienza che ne ebbe, la previsione che ne poté avere, il senso che vi diede.
    Tali ricerche esegetiche ci permettono, pur nella precarietà di una precisa ricostruzione storica, un incomparabile e singolare sguardo sullo spessore esistenziale di un problema umano, quello della morte, tanto universalmente comune quanto indecifrabile ed enigmatico. Alla luce di quanto visto sopra, questi possono valere come nuclei di una fondata riflessione:
    - Gesù è risorto perché è morto in quel modo;
    - Gesù è morto in quel modo perché è vissuto in un certo modo.
    La morte è chiaramente ancorata al vivere di Gesù, come un segmento di rivelazione decisiva sul prima e sul dopo.
    * Gesù è risorto perché è morto in quel modo.
    Abbiamo già annotato che gli apostoli, turbati agli inizi dallo scandalo della morte di Gesù come malfattore, pervennero subito nell'intelligenza dello Spirito alla comprensione che Gesù non soltanto fu risuscitato nonostante la morte, ma in grazia di essa, perché era morte gradita a Dio «in odore di soavità» (Ef 5, 2). E tale intelligenza non era una pia frode giustificativa, ma poggiava sulla forza dei fatti. Come era infatti morto Gesù? Qui parte la testimonianza dei Vangeli, che è poi degli stessi apostoli. Quanto viene detto nei racconti di passione ha una sua complessità perché al significato fondamentale datovi da Gesù si assommano le applicazioni edificanti (spirituale, etiche), esplicitate nella predicazione apostolica.
    Sicché nei vangeli si nota una continua, densa ambivalenza: la morte di Gesù come evento di salvezza e morte di Gesù come modello di vita del cristiano. Ambivalenza preziosa: non si perviene al senso della morte di Gesù se non attraverso e come Gesù.
    Qui ci limitiamo ad evidenziare tre tratti principali del morire di Gesù, ricordando che egli si spense lucidamente, percorrendo le fasi di una intensa agonia: al centro dominano insieme una profonda repulsa alla morte (Mc 14, 24s; 15, 34) ed un totale, incondizionato, supremo affidamento a Dio come Abba (Mc 14, 32-36; 15, 34; Lc 23, 46: Ebr 5, 7-8);
    - si compie una grande lotta contro «il potere delle tenebre», rappresentato da satana e da quanti, autorità politiche e religiose ma anche suoi amici come Giuda e Pietro, non riconoscono la verità di Dio in Gesù (Lc 22, 3. 31. 53; Gv 13, 2. 27). Nel linguaggio più tecnico, ereditato del resto dal NT, si parlerà dell'accoppiata malefica di morte e peccato, della morte come salario del peccatore (cf Rom 6, 23, e prima ancora nell'Ultima Cena, Gesù parla de «il mio sangue... in remissione dei peccati, Mt 26,27);
    - si intrecciano intenzionalmente la denuncia dell'ingiusta oppressione (si vedano i sobri ma eloquenti interventi di Gesù nei processi civile e religioso) e la grazia di un perdono generoso e decisivo (Lc, 43).
    Si noterà che al centro dell'esperienza di Gesù non sta il no alla morte e un sì generico alla vita, ma più precisamente il no alla morte si incrocia, scontra e fonde con un sì al Dio della vita (in qualità di Abba, cf Mt 6, 26). In nome di Dio non è tolta a Gesù la morte fisica, ma la sua insensatezza (la micidiale connessione con il male), per cui il morire sarà per lui un segmento, per quanto oscuro, che dalla vita arriva alla vita. Ed ancora, soltanto una trascendenza positiva, Dio, può corrispondere vittoriosamente ad una trascendenza negativa, la morte.
    * Gesù è morto nella logica che resse la sua vita.
    Ma questi atteggiamenti di Gesù morente, a notarli bene, altro non sono se non tratti abituali del vivere di Gesù: il suo annuncio del Regno di Dio, alla luce del messianismo biblico, è intrinsecamente annuncio che Dio è dalla parte della vita in pienezza: come guarigione, come pane, come perdono (cf Lc 4, 1621, Mt 22, 23-32; Giov 10, 10). Ne sono segno vigoroso i miracoli, quelli di risurrezione dei morti in particolare (cf Mt 1 1, 26);
    - messaggero e artigiano di vita, Gesù avverte un progressivo svelarsi di opposizione e di rifiuto, cui danno mano l'avversario (satana) e gli avversari storici, con dei reali tentativi di eliminazione fisica (cf Mc 3, 2230; 3, 6; Lc 4. 29; Gv 7,1.19.30.44);
    - Gesù di fatto mostra di prevedere il suo drammatico futuro (cf i tre annunci di passione, Mc 8, 31; 9, 31; 10, 34), soprattutto annuncia una fondamentale integrazione nella sua persona tra vita-morte-vita nuova (cf Gv 12, 24) e la fa ricadere sui discepoli come legge della sequela: «Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua... Chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà» (Mc 8, 3435).
    Il nostro sforzo di identificazione del morire per i cristiani si accresce di altri tratti attinti dalla prassi storica di Gesù: per Gesù morte e vita sono intrecciati come destino dell'uomo, ma certamente differenti sono i significati e le responsabilità. Più che chiedersi perché si muore, merita di sapere come vale la spesa di vivere. Al negativo, il peccato conduce alla morte. Al positivo, la qualità della vita passa attraverso la sequela di Gesù, la condivisione piena del suo vivere la vita come amore liberante per gli altri a nome di Dio. Per Gesù esiste una vittoria sulla morte: produrre continui segni di vita nella logica del vangelo.

    «Completamente uniti a Lui con una morte simile alla sua» (Rom 6,8): il cammino cristiano alla morte

    È così straordinariamente soggettivo, individuale, anzi solitario l'atto della morte, che non ci pare accoglibile una risposta accademica, per quanto profonda (semmai ci parrà plausibile), ma semmai laddove un'altra soggettività, una individualità in carne ed ossa compie l'oscurissimo avvenimento.
    Si motiva così l'attenzione alla soggettività di Gesù inerente alla sua morte e al suo morire da parte degli Apostoli all'indomani della morte di Gesù. Poco sopra, abbiamo accennato alla reazione commossa di Paolo: «Ha amato me e si è donato per me». Vi si rispecchia simmetricamente Paolo ne è certissimo l'azione altrettanto appassionata di Cristo verso Paolo.
    Lungo la storia della Chiesa, proprio sul patire e morire di Gesù si è innestata la forma di maggior partecipazione popolare tra tutti i misteri della vita di Cristo. La via crucis, la predicazione quaresimale, i riti della settimana santa e del venerdì santo, la continua e variata raffigurazione del Crocifisso e la sua collocazione nei luoghi critici della vita dell'uomo (negli ospedali, come nelle aule di giustizia, sulle vette dei monti, sulla bara del defunto...) hanno reso evidente, talora negli eccessi dei sentimenti, che la morte segnatamente si offre come compagnia con Cristo ed implica un coinvolgimento in lui. La potenza della grazia di Dio che sta nella sua morte può giungere a noi soltanto se questa si fa in noi esperienza con lui e in lui.
    Di tale paradossale vitalità della morte in Cristo (più precisamente del saper affrontare e vivere anche gli inevitabili, anzi, malignamente concertati assalti del male che genera morte) giungono a parlare ampiamente gli scritti del NT.
    Richiamiamo sinteticamente i quattro doni-impegni esistenziali che avvolgono il discepolo di Gesù, distinguendo quattro livelli e così portando alla luce delle verità estremamente vitali.
    * Livello ontologico.
    Prima di ogni nostra prestazione ed esercitazione nell'arte del morire cristiano, per grazia di Dio noi «siamo completamente uniti a Lui con una morte simile alla sua» (Rom 6, 8). Come Israele stando ormai sicuro sull'altra sponda «vide gli egiziani morti sulla spiaggia del mare» (Es 14, 30), così i cristiani confessano che Dio nella morte di Cristo, nuovo Adamo, ha cambiato unilateralmente il segno negativo della morte, e tale segno positivo è ormai pensato e voluto per ogni figlio del vecchio Adamo (cf Rom 5).
    È il caposaldo della visione cristiana della morte. Non una scalata al monte dell'immortalità, ma l'accoglienza di un dono inaudito.
    Noi siamo intrinsecamente morti alla morte come male irreparabile, anzitutto come peccato. Dalla risurrezione di Gesù, davanti a Dio altro non esistono che orizzonti di luce, un'alba che si allarga senza tramonto. sulla sponda della vita che abbattiamo le fortezze della morte destinata a cadere.
    * Livello sacramentale o mistico.
    La morte di Cristo è dunque salvezza dell'uomo, in quanto l'uomo ne condivide la grazia redentiva: liberazione del male del peccato che unicamente rende la morte evento tragico ed irreversibile. E perché questo non resti notizia tanto bella, ma tutto sommato estrinseca, ecco lo specifico cristiano di una effettiva partecipazione personale: è il senso del Battesimo, per il quale «siamo battezzati (ossia immersi) nella morte di Cristo», «sepolti con lui nella morte», «configurati alla sua morte» (Rom 6, 3 ss; Fil 3, 10). Ormai siamo dei morti, la cui vita è nascosta con Cristo in Dio (Col 3, 3). Ciò che è evento primordiale ed inalienabile, nell'Eucaristia diventa rinnovamento quotidiano, quando celebriamo «la morte del Signore finché egli venga» (1 Cor 11, 26).
    È il livello sacramentale o mistico del morire cristiano: è una impresa che ha come cantiere la vita, ma le cui risorse sono anzitutto da Dio. L'Eucaristia, memoria vitale del sacrificio di Cristo, è la ricarica continua per un processo esigente, è la luce e la consolazione di fronte agli annuvolamenti del quotidiano, alla tentazione, come Gesù, di non farcela. pure grazia potente, ed umanamente quanto mai singolare, di essere combattenti in compagnia, in comunione e solidarietà reciproca, come è proprio della Chiesa, il luogo della lotta per la vita nuova.
    * Livello spirituale o esistenziale.
    Il dono si fa compito. Dal fatto che «uno è morto per tutti e quindi tutti sono morti», Paolo deriva limpida la conseguenza: «... perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2 Cor 5, 14-15). È l'implicanza esistenziale coestesa a tutta la vita del battezzato. «Quotidie morior» ripete Paolo (1 Cor 15, 31), che rimane il modello più alto del morire da cristiani (2 Cor 4, 10 ss; 6, 9; Fil 1, 20). Però si badi, nel senso che gli dà lui: far morire in sé ciò che è micidiale alla vita di creature nuove: il peccato (Rom 6, 11), l'uomo vecchio (Rom 6, 6), la carne, che sono le passioni dell'uomo alienato da Dio, incentrato su di sé, egoista (Gal 5, 24; Col 3, 5). Allora il cristiano accoglie anche la morte corporale («muore per il Signore», Rom 14, 13), anzi con «ardente attesa e speranza»: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire è un guadagno» (Fil 1, 20-21). Infatti la morte corporale non sarà che un passaggio dalla vita alla vita, nella novità però di una meta ed una visione per quanto è stato nel vivere terreno faticoso cammino senza visione.
    Siamo alla stretta impegnativa del morire cristiano. È verità se diciamo che esso è coestensivo al vivere. E in questo senso il realismo del cristianesimo è radicale.
    Ma da capirsi bene: non è una mortificazione fine a se stessa, un masochismo sacro, portato più con il furore della paura che con la sicurezza della fede. È più giusto parlare di esercizio di «morte alla morte», di superamento del male in maniera instancabile.
    L'orizzonte rimane inviolabile e irreversibile nella vita di risorto che è di Gesù e avvolge il nostro essere nella speranza. Dove quindi l'atto più capace di mortificazione non è la privazione, ma il dono, la carità, secondo lo stile che fu di Gesù, per cui la stessa sofferenza del morire si fa grazia di Cristo per gli altri: «Completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la chiesa» (Col 1, 24).
    * Livello pedagogico-religioso: cioè narrare la morte di Gesù come via ad una vitale partecipazione.
    Che stia al centro dell'annuncio primitivo non solo il senso teologico della morte di Gesù, ma la sua stessa esperienza così come egli l'ha vissuta, stanno a dircelo i Vangeli, che, lasciate le formule brevi della «confessio fidei» («È morto per i nostri peccati»), ci danno dei racconti, i ben noti racconti di passione.
    Tali racconti manifestano delle chiare differenze intenzionali rispetto all'altro materiale evangelico della vita di Gesù: sproporzione in quantità (in Mc la passione occupa un quinto del Vangelo), nella precisazione degli avvenimenti (compare una scansione giornaliera, anzi oraria, tra la Cena ultima e la sepoltura) e differenza in antichità (la memoria della passione, morte e risurrezione sono indiscutibilmente il primo contenuto del Vangelo orale e scritto) .
    Ci si è chiesti la ragione di questa singolarità letteraria. Non basterebbe affermare che si tratta di fatti avvenuti: molti fatti di Gesù non sono ricordati nei vangeli (cf Gv 21, 25) e gli stessi avvenimenti della passione non hanno certamente la completezza minuziosa delle cose come avvennero: si vedano infatti le profonde differenze nelle quattro redazioni evangeliche. In verità, il racconto tende per sé al coinvolgimento, alla immedesimazione, obbliga chi lo sente a non fare altri percorsi circa l'esito finale di Gesù che non sia effettivamente il suo.
    Intento moralistico? Direi di no.
    Il seguire Gesù lungo il filo del racconto porta a due rilevanti scoperte, bene messe in luce dall'esegesi, che dovranno guidare il lettore:
    - il racconto evangelico, ritmato sui participi passati (aoristi) e presenti storici (specie in Marco), pone noi che leggiamo di fronte a qualcosa che va oltre, che ci scappa di mano, di cui siamo spettatori impotenti e protagonisti esautorati (a partire da Pilato, dai sacerdoti, dalla folla), giacché tutto si gioca tra Gesù, Dio e il male (maligno), e con gli esiti che sappiamo. È una epicità che ci obbliga alla contemplazione, alla ammirata presa d'atto dell'azione di Dio. come gli israeliti tra il faraone e il mare (Es 14, 1014), come il centurione sotto la croce: «Vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest'uomo era figlio di Dio» (Mc 15, 39);
    - il momento contemplativo trascorre subito in interpellanza attiva. Gesù da fonte di grazia diventa modello, su cui rispecchiarsi. in particolare Luca che accentua i tratti di come «vivere il morire»: è la testimonianza del martire e del profeta insieme: il lottatore indomito nel Getsemani (Lc 22, 33 ss), senza spada (Lc 23, 38), padrone degli avvenimenti (Lc 23, 9), pronto al perdono (Lc 23, 43), totalmente fiducioso in Dio (23,45).
    In questo modo il morire cristiano possiede anche una sua pedagogia, una didattica proficua: la memoria delle ultime ore di Gesù, nei racconti dei Vangeli.

    «Voi foste liberati con il sangue prezioso di Cristo» (1 Pt 1,19)

    Sono conclusioni rapide, come leitmotiv da capire alla luce di quanto espresso.
    La visione cristiana della morte dell'uomo si caratterizza così:
    - c'entra Dio, in misura decisiva. È evento di trascendenza religiosa, che solo la fede riconosce;
    - ha come partenza il fatto di un vivere e morire di una persona concreta: Gesù di Nazaret, non dunque una filosofia;
    - riconosce un elemento risolutivo, l'evento di risurrezione, che è vita oltre la morte e contro la morte in modo irreversibile. È morte della morte e dispiegamento germinale di vita nuova;
    - il male della morte è da Gesù smascherato nel male del peccato che uccide la vita, ben oltre la morte fisica (Lc 12,45);
    - vale per tutti il dono della morte di Cristo come morte alla morte e apertura alla vita nuova, anche se non tutti lo sanno o giungono purtroppo a disprezzarlo (cf Ebr 10, 29);
    - quello cristiano è un morire non voluto per se stesso (la morte non genera la vita), ma è una promozione di vita entro un percorso che esige fedeltà e coerenza, quindi ascetico, mortificante nei confronti del peccato: come la potatura (Gv 15, 2), come la semina (Gv 12, 24), come il viaggio di chi deve portare una croce (Mc 8, 34);
    - il morire cristiano assume uno spessore mistico: non può avvenire che in Gesù. E l'Eucaristia ne è il memoriale supremo. È soltanto la partecipazione e assunzione delle ragioni del suo vivere (il Regno di Dio, regno della vita), che fondano, motivano e confortano ad accettare le ragioni e lo stile del suo morire: per amore, solo per amore, con gesti concreti di amore.


    T e r z a
    p a g i n A


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