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    Dinamiche culturali della società complessa


    Luigi Alici

    (NPG 1995-07-61)

    Questa breve traccia, offerta alla riflessione comune, ha un carattere essenzialmente schematico e si configura come un tentativo di discernimento culturale (relativo per lo più alla cultura filosofica odierna), che esigerebbe un diverso supporto di documentazione e uno spettro ben più ampio di indagine. In questa sede possiamo assumere la nozione di cultura nell'accezione che riceve al n. 44 di ChL («Evangelizzare la cultura e le culture dell'uomo»), dove, alla luce della lezione conciliare (in particolare GS 53), essa viene identificata come «il bene comune di ciascun popolo, l'espressione della sua dignità, libertà e creatività; la testimonianza del suo cammino storico» e si ricorda che «solo all'interno e tramite la cultura la fede cristiana diventa storica e creatrice di storia». Tale accezione ampia ovviamente include, non esclude, l'apporto insostituibile della creatività personale, che s'innesta su un più ampio tessuto storico e interagisce con esso, specificandosi attraverso lo spettro di innumerevoli modulazioni disciplinari.

    LA MODERNITÀ ILLUMINISTICA

    Non è facile orientare lo sguardo nel magmatico punto di confluenza tra cultura e costume, e cercare di disaggregarne le matrici di pensiero che, attraverso un lento movimento di deriva storica, segnano il nostro tempo, evitando semplificazioni arbitrarie e strumentalizzazioni apologetiche improprie. La ricerca di alcune elementari linee di orientamento deve anzitutto fare i conti con un dibattito, tuttora aperto, intorno alla crisi della modernità ed alla vera o presunta frattura che si andrebbe delineando in nome di una cultura postmoderna o tardomoderna. Al di là di controverse prese di posizione, appare comunque diffusa la percezione di un'epoca che si chiude, di un progetto di civiltà che ormai appare sempre più estraneo e lontano. Non sempre una crisi è determinata dal ruolo che avanza; a volte basta che il vecchio non ce la faccia più a sopravvivere, perché si abbia la sensazione di voltare pagina. Tale processo nasce comunque da lontano e investe i fondamenti stessi della cultura moderna; una cultura animata da una vocazione illuministica, assistita da una ragione «forte», capace di esprimere un quadro sistematico e autosussistente di punti di riferimento e dunque di garantire grandi progettualità a livello storico e politico. La presunzione di assolutezza che animava questa cultura comportava di conseguenza una potente istanza di autonomia rispetto alla dimensione religiosa, assumendo le forme dell'atteggiamento polemico, di scontro frontale, oppure spingendosi, in modo ancor più insidioso, fino alla pretesa di assorbire e laicizzare alcune fondamentali categorie religiose, quali l'idea di una provvidenza che opera nella storia e la nostalgia di un comune destino dell'umanità. Il declino di questo disegno si è manifestato chiaramente nella prima metà del nostro secolo, per una serie di fattori che qui non è possibile richiamare; l'edificio della cultura come sistema monolitico di sapere ha cominciato a sgretolarsi e con esso persino l'idea di università come progetto organico di ricerca, trasformata progressivamente in una aggregazione estrinseca di aree disciplinari; la scienza ha cominciato a relativizzare i propri paradigmi teorici e a liberarsi della pretesa ingombrante della verità, optando per il più modesto traguardo della coerenza e dell'efficienza; la filosofia ha cercato di guardare a viso aperto al vissuto storico dell'esistenza, con il suo carico enigmatico di brandelli di esperienze, talora assurdi e allucinanti, mentre uno spettro nihilistico si affacciava dietro le macerie dei sistemi metafisici e morali ormai ritenuti improponibili; la letteratura ha provato a «raccontare» da vicino la vita sbarazzandosi di ogni pretesa di testimoniare nobili messaggi. Il progetto illuministico vedeva ormai rovesciarsi il proprio delirio di onnipotenza in un avvertimento di impotenza, che si esprimeva nella forma di una sofferta perdita del senso della vita.

    ATTORNO Al SENSO

    Negli anni più recenti la struggente percezione nihilistica dello scacco e del naufragio sembra essere progressivamente venuta meno e si è cominciato a prendere atto della insuperabile fragilità della ragione umana; una ragione che non vive più il pathos della crisi, che non si ritiene più orfana, e che quindi intende congedarsi, in modo disincantato e senza rimpianti, da un mondo che non sente più come suo. Al dramma della perdita del senso della vita subentrano atteggiamenti diversi, che si potrebbero caratterizzare con le categorie della riduzione e della rimozione del senso.

    Riduzionismo

    Nel primo caso si può ricordare la riabilitazione, variamente motivata, di una cultura empirista, che erige una insuperabile pregiudiziale di ordine epistemologico dinanzi alle nozioni di coscienza e di trascendenza, delegittimando come arbitraria evasione mitologica ogni tentativo di abbandonare il piano del sapere positivo. Nasce su queste basi un atteggiamento riduzionista, di cui il pensiero filosofico ci offre varie versioni: dalla sofferta dicotomia tra linguaggio e silenzio teorizzata da Wittgenstein alla messa in guardia nei confronti di ogni nostalgia. spiritualista, screditata come «dogma dello spettro nella macchina» (G. Ryle); dagli intenti decostruttivi degli strutturalisti fino alle più recenti posizioni antimentaliste di Rorty e al radicalismo riduzionista di Parfit. Su questo fronte si va assistendo peraltro ad una singolare confluenza tra scienze informatiche, neuroscienze e scienze biologiche, che trova nella cibernetica un importante anello di congiunzione, finendo per teorizzare una progressiva riduzione del divario non solo tra uomo e mondo naturale, ma anche tra uomo e mondo artificiale. Basterebbe ricordare, nel primo caso, gli sviluppi di alcune posizioni emergenti nell'ambito dell'ambientalismo e dell'animalismo, che, in nome di un' «ecologia profonda», denunciano ogni cultura nella quale l'uomo occupi una posizione intermedia tra il mondo divino e quello animale. Da padrone incontrastato della natura l'uomo deve tornare a riconoscersi come prodotto di una biosfera, nei confronti della quale non può far valere i privilegi di una superiore dignità. Un secondo fronte riduzionistico matura attraverso il dibattito intorno al cosiddetto «MindBody Problem», dove le suggestioni suscitate dagli studi relativi ai sistemi di intelligenza artificiale e alla robotica tendono ad azzerare una differenza di principio tra l'uomo e il suo duplicato artificiale; s'affaccia all'orizzonte il sogno/realtà dell'androide, del burattino che diventa figlio ed entra in competizione con il proprio padre-padrone.

    Rimozione del senso

    L'altra linea di tendenza può essere caratterizzata come una forma di rimozione di ogni domanda di senso. Il corto circuito fra essere e nulla che si registrava nel pensiero esistenzialista, risolvendosi nella disperante estasi negativa dell'angoscia, viene disinnescato distogliendo la ricerca da ogni istanza fondativa e invitandola a percorrere, con più modesti intenti ermeneutici, i sentieri postmoderni delle «piccole narrazioni», sostituendo senza rimpianti le ambizioni impossibili dell'ontologia con una declinazione estetizzante, venata di pietas, ma rigorosamente chiusa entro un recinto insuperabile di segni. Il tramonto dell'epoca moderna si caratterizza così come un passaggio dalla «illuminazione» alla «penombra» (P. Sloterdijk). La struttura policentrica della società contemporanea induce un processo di frammentazione, che si ritorce contro la razionalità illuministica e le sue pretese egemoniche. Per mantenere una egemonia, altrimenti impossibile, la ragione diventa allora fonte di penombra, spargendo a piene mani l'acido corrosivo del sospetto su ogni certezza luminosa. La cultura perde di conseguenza la sua funzione critica di orientamento, trasformandosi in un solvente micidiale che brucia ogni residuo metafisico e ogni altra forma di sapere totalizzante. In questa penombra relativistica i profili dei grandi filoni culturali si fanno più sfumati, molte sicurezze tramontano, le distanze si attenuano, nascono ideali operativi, si fa strada una concezione più duttile e flessibile dell'impegno culturale. La dimensione culturale tende a configurarsi come una specie di navigazione di piccolo cabotaggio, che respinge come anacronistica avventura romantica ogni tentazione di affrontare il mare aperto, accontentandosi di disegnare minuziose ricostruzioni cartografiche della costa. In questo caso la ricerca del senso si dispone all'ascolto di ogni minimo indizio, assumendo una prevalente attitudine metodologica e lasciandosi guidare da una duplice convinzione: la convinzione che la minaccia del non senso grava irrimediabilmente su ogni velleità di trascendere il particolare e che se ne può sgretolare lo zoccolo duro con un'opera di erosione periferica; in secondo luogo la convinzione che ad un aumento delle cognizioni corrisponda automaticamente una riduzione delle incognite. In realtà, il rifiuto della grande navigazione rischia di trasformarsi in un nomadismo irrequieto, che non garantisce nemmeno il ritorno sulla terraferma dell'esperienza, risucchiato in una dilatazione inarrestabile di prospettive, in cui l'aumento del sapere produce l'effetto contrario e inatteso di una crescita esponenziale, e alla fine incontrollabile, degli spazi dell'inconoscibile. Questa evasione dalla totalità è dunque una evasione apparente da un paese fittizio; persa l'impalcatura trascendentale, ma non la rivendicazione orgogliosa della propria autonomia, il disegno grandioso della cultura moderna si sgonfia e si banalizza in un arcipelago di «storie» autopoietiche, gestite da una fenomenologia minore, paga di inventariare frammenti in una interminabile galleria di figure del vissuto.

    Nuove vie

    Questo quadro, in sé ricco di chiaroscuri e non esclusivamente negativo, lascia intravedere però anche nuove vie di ricerca del senso: la crisi del riduzionismo si accompagna al riconoscimento di un punto di resistenza irriducibile nel processo di regressione dal mentale al biologico, identificabile come uno sfondo intenzionale che custodisce le motivazioni ultime dell'agire umano; il complesso fenomeno della cosiddetta «riabilitazione della razionalità pratica» sembra colpire alla radice l'idea del linguaggio come mero gioco di manipolazione sintattica, sospeso in un limbo di neutralità assiologica, riconoscendolo piuttosto come una forma di cooperazione strategica, che rimanda alla sfera morale della prassi oltre il piano puramente fattuale degli eventi; la confluenza di fenomenologia ed ermeneutica, specie nella variante ricoeuriana, accredita nuove modalità di approccio, di tipo metaforico e simbolico, alla dimensione riflessiva; la decomposizione della soggettività, che appariva come l'ultimo baluardo della filosofia trascendentale, stimola lo studio di nuovi assetti dell'etica, ricercandone un baricentro esterno all'interiorità della coscienza: prende corpo così l'invito a riscoprire la responsabilità come dovere di promozione nei confronti di quel «sì ontologico» in cui si riassume la dinamica teleologica della vita (H. Jonas) e si assegna all'etica il compito originario di una vera e propria «filosofia prima», inscritta nella fragilità inviolabile del volto dell'Altro (E. Lévinas).

    LE RADICI

    La ragione

    A questo punto tre sembrano i nodi fondamentali sui quali fermarsi a riflettere, per tentare di cogliere le radici di un fenomeno che in superficie appare tanto complesso e contraddittorio. Il primo nodo riguarda la «potenza» della ragione e le possibilità di una conversione dell'intelligenza. I giusti sospetti accumulati da tempo contro l'arroganza razionalistica e il progressivo crollo di rigide semplificazioni ideologiche hanno indubbiamente consentito di registrare con strumenti di analisi sempre più sofisticati la fisionomia articolata e complessa di questo nostro tempo, contribuendo anche ad affrontare in modo più puntuale e pragmatico alcuni pericoli che insidiano il presente e il futuro dell'umanità. Nello stesso tempo, però, una ragione rassegnata dinanzi alla «nihilistica consumazione del principio di realtà» (G. Vattimo), costretta ad arretrare dinanzi alle domande alte sul senso della vita, tende a legittimarsi come fonte di esercizio interpretativo, con cui si dipanano i fili dell'esperienza vissuta, o come custode del rigore formale, con cui ci si accontenta di vigila re sulla coerenza del discorso. Nello stallo del «perché», non resta altro che la competenza sul «come». In entrambi i casi, la cultura, intesa come fruizione simbolica, come calcolo utilitaristico o come disciplina procedurale, si risolve in una mortificazione della intelligenza, anziché nella sua più autentica promozione. La stessa ricerca della trascendenza all'interno di tale contesto corre il pericolo di ricevere a sua volta una legittimazione «debole», riducendosi ad una nuova mitologia rassicurante, venata di irrazionalismo, che non cerca legittimazioni sul piano veritativo, bensì capacità aggreganti sul piano puramente esperienziale. Qui passa anche il confine che separa cultura e ideologia della complessità; nel primo caso si può parlare di un approccio che rifiuta di guardare alla rete sistemica delle questioni attorno alle quali si decide il futuro della vita e della civiltà con la lente riduttiva delle semplificazioni unidimensionali, mentre nel secondo si tende a comprimere dentro una nuova camicia di forza l'incalzante moltiplicazione degli scenari e dei punti di vista, negando la possibilità di un pensiero adulto e almeno tendenzialmente sistematico, capace di sporgersi, dietro questo interminabile gioco di specchi, verso un punto di vista ulteriore rispetto alla complessità stessa. Una nuova idolatria si profila in tal caso dietro la scintillante esuberanza del supermarket della cultura, dove ci si può dilettare con uno «zapping» spensierato tra innumerevoli offerte speciali, ma manca il coraggio di aprire porte e finestre per guardare al di fuori di tale mondo dorato. Questo irrigidimento ideologico produce un effetto paralizzante sulle possibilità dell'intelligenza, radicalmente umiliata nel suo esercizio critico, nelle sue capacità normative, nella sua tensione prospettica. La rinuncia ad una razionalità «forte» non è di per sé un fenomeno negativo sul piano culturale, ma lo diventa se non si traduce in un atteggiamento di umiltà, di ascolto, di servizio, di sintesi tra la soggettività dei desideri e la universalità dei principi.

    La persona

    A questo primo nodo se ne può collegare un secondo, che riguarda il valore e l'identità della persona e il suo primato nei confronti del mondo naturale. Il tentativo di rintracciare le radici del processo di indiscriminata aggressione nei confronti del mondo «inferiore» della natura in una cultura di tipo «antropocentrico» comporta l'affermarsi di una spinta contraria, in direzione di una cultura «biocentrica», dove conta soprattutto l'equilibrio ecologico dell'insieme delle funzioni vitali e si finisce con il porre in discussione, prima che le aberrazioni di un umanesimo deviato, l'identità stessa dell'essere umano, l'idea di una «differenza personale». Si va delineando in tal modo una nuova ed equivoca forma di religione della natura, che tende a dissolvere il problema antropologico nel più ampio ambito cosmologico. Gli esiti di questa impostazione, sul piano del costume, sono dinanzi agli oc chi di tutti: l'opinione pubblica si mobilita più per un balenottero in difficoltà che dinanzi ad un ricorso sistematico all'aborto; esiste maggiore sensibilità per il problema dei sacchetti di plastica che per una seria regolamentazione delle manipolazioni genetiche; il problema degli animali abbandonati raccoglie più attenzione di quello degli immigrati; la pena di morte comminata in Cina per l'uccisione di un panda non fa nemmeno notizia. Su queste basi si determina un generale arretramento di tutta la problematica umanistica, ricondotta dal rapporto fra umano e sovraumano, fra fisico e metafisico alla questione pregiudiziale del confronto fra umano e infraumano, fra fisico e biologico. La prova di questo fenomeno può essere offerta dal vivace dibattito che si sta sviluppando nell'ambito della bioetica, dove si riproduce quella conflittualità tra cristianesimo e cultura moderna, che un tempo si registrava soprattutto sul versante politico. La irrinunciabile verità cristiana, ribadita dal Concilio (GS, 24) e ricordata continuamente nelle Lettere Encicliche di Giovanni Paolo II, secondo cui l'uomo è l'unico essere voluto da Dio per se stesso, se fraintesa, rischia oggi di scavare un nuovo solco tra Chiesa e mondo, inducendo appunto ad accreditare l'equivoco di una cristianità prigioniera di un vecchio antropocentrismo, disattenta alle offese arrecate alla natura, se non addirittura complice di esse. Di conseguenza appare indispensabile motivare sul piano culturale le ragioni autentiche del primato della persona, un primato che non legittima nessuna forma di dominio indiscriminato sulla natura, se non si configura in termini di potere, bensì di responsabilità e soprattutto di amore.

    L'etica

    Il terzo nodo riguarda il compito dell'etica nell'attuale contesto culturale. Indubbiamente l'esplodere di una serie di problemi macroscopici, dai quali proviene una minaccia globale per il futuro della biosfera e la qualità della vita sulla terra, impone compiti nuovi ed urgenti alla riflessione morale, determinando una rinnovata attenzione nei suoi confronti. Tale attenzione, tuttavia, non è priva di una forte carica polemica contro tutti i modelli di etica pura, che si accontentava di riconoscere la qualità dell'azione morale soltanto dalla purezza della motivazione intenzionale che la animava. Tale etica, che coniugava l'insegnamento cristiano con la lezione kantiana, non sarebbe capace di guardare oltre la sfera interiore della coscienza, né di valutare le conseguenze più remote dell'agire umano su larga scala. Nasce da qui una domanda di concretezza, che tende però a sradicare la riflessione morale dal suo terreno più proprio, spingendola a ridiscutere soprattutto le conseguenze pubbliche dei comportamenti collettivi. È forse questa la radice della frattura tra etica privata ed etica pubblica, tra «orizzonte vicino» e «orizzonte lontano», il primo assimilato al semplice vissuto soggettivo, il secondo inteso come un volume di atti esterni, che l'etica avrebbe appunto il compito di regolamentare secondo criteri puramente utilitaristici o convenzionalistici, attenti solo ai risultati quantificabili o alle procedure esterne, inseguendo così un bisogno di regole formali, oggi molto forte. Tenuta gelosamente al riparo la sfera «privata», sulla sfera «pubblica» si riversa un accanimento etico, posto unicamente sotto il segno della esteriorità, che finisce per alimentare nuove illusioni farisaiche, soprattutto l'illusione che sia sufficiente pagare le decime ed esibire un «look» di impeccabilità, per avere in cambio una specie di franchigia morale nel proprio vissuto sommerso. È questo il prezzo da pagare per un'etica senza verità, che assiste impotente all'indebolimento di ogni tavola di diritti e di doveri, sradicata da un orizzonte originario di valori e assimilata ad una effimera carta dei desideri soggettivi. A questa frattura si collega anche la radicale dissociazione di vita e amore. Nella cultura contemporanea sembra essersi realizzata una saldatura tra culture di matrici diverse, empiristiche e vitalistiche, concordi nell'ammettere solo una relazione estrinseca tra il piano naturale del vivere e l'orizzonte culturale dell'amare. In tal caso l'amore non è inteso come vocazione originaria della vita umana, capace di innalzarla alla pienezza libera e responsabile di una relazione interpersonale; tende piuttosto ad essere legittimato solo come volontà di senso senza motivazione, affidato cioè ad una insindacabile opzione volontaristica o fideistica, null'altro insomma che una equivoca sovrastruttura ideologica. Un amore che non asseconda e promuove la tensione teleologica del vivere diventa quindi una variante di quella più generale forma di soggettivismo etico, nel quale viene meno il rapporto della libertà dell'uomo con il bene autentico, che definisce, come ci ha ricordato l'enciclica Veritatis splendor, la moralità degli atti umani (VS 72). La divaricazione tra la neutralità del piano biologico, ispezionabile e manipolabile secondo il criterio della fattibilità tecnologica, e la effimera soggettività dei sentimenti predispone una perversa infrastruttura culturale, all'interno della quale l'annuncio evangelico della carità può essere snaturato e ridotto ad una semplice sublimazione simbolica della sfera affettiva.

    UNA CULTURA DA EVANGELIZZARE

    L'invito ad «evangelizzare la cultura» e ad impegnarsi in una «organica pastorale della cultura», capace di discernere e di promuovere ogni fermento positivo, riportato al n. 28 della «Traccia di riflessione in preparazione al Convegno», diventa quindi credibile nella prospettiva di una comunità cristiana che sappia essere, nei confronti della dimensione culturale, avanguardia profetica, più che retroguardia moralistica. Occorre vincere a tal fine il pregiudizio antievangelico di vivere in un tempo «sfortunato» per la fede, nel quale cioè non ci sarebbero spazi adeguati per una nuova incarnazione storica del Vangelo. A questo pregiudizio sembra corrispondere anche una doppia tentazione: da un lato la tentazione di fuggire dalla complessità, illudendosi che sia possibile vivere compiutamente la fede in un microcosmo esperienziale autosufficiente, dove in realtà si riproduce, sul piano religioso, lo stesso declino delle grandi progettualità e lo stesso bisogno di immediate gratificazioni emozionali che segnano l'orizzonte «mondano»; da un altro lato la tentazione di inseguire la complessità ricreando una complessità pastorale «interna» attraverso la moltiplicazione di uffici, iniziative e progetti, in cui si può perdere di vista l'essenziale. È dunque indispensabile un atteggiamento di riconciliazione con la complessità, capace di porsi in umile ascolto dei segni dei tempi, nel rispetto di quella legittima autonomia delle realtà terrene (GS 36), che è il presupposto irrinunciabile di ogni dialogo in veritate. Alla «via breve», che insegue le scorciatoie per vivere storicamente la fede senza mediazione culturale, la Parola di Dio senza mediazione teologica, l'esperienza comunitaria senza mediazione ecclesiale, è necessario anteporre la «via lunga» della sintesi di fede vissuta e fede pensata, resa possibile da una autentica conversione dell'intelligenza. Solo un'intelligenza liberata è capace di discernere l'essenziale, di riconoscere le domande di senso che restano sepolte sotto la moltiplicazione dei messaggi e può riprendere confidenza con i grandi interrogativi intorno al senso del limite, del male, del mistero, del vivere e del morire; in una parola interrogarsi su quei sovrappiù di senso in cui si annuncia il mistero della trascendenza. Solo una cultura disposta a pensare la trascendenza, sia pure nelle forme «povere» dello smascheramento degli assoluti terrestri e della nostalgia di ulteriorità, può evitare di ridurre l'amore ad una indolore metafora spiritualistica, riconoscendo la sua capacità di rigenerare la convivenza e di vertebrare la storia. Spetta alla carità evangelica, infatti, mediare la distanza tra fede e storia con la pazienza della misericordia e del perdono e con l'impazienza della profezia e della progettualità. Privata della tensione oblativa propria di una logica della gratuità, la cultura si espone fatalmente alla sclerosi della mediazione e alla deriva relativistica del pluralismo, rassegnandosi di fatto alla logica farisaica della diligente regolamentazione degli egoismi.


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