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    Di fronte al morire



    Carmine Di Sante

    (NPG 1995-02-55)


    L'osservazione fenomenologica secondo cui, nell'ambito antropologico, non esiste il «fatto» ma, insieme con il «fatto», sempre e necessariamente, anche «il significato» che lo avvolge, se è vero per tutti i «fatti umani», è ancora più vero per la morte, la cui fattualità il fatto che si muore quanto più è incontrovertibile tanto più esige di essere interpretata. Per quanto paradossale, si dovrebbe dire che non «esiste la morte» ma «il modo» o i «modi» con cui gli uomini guardano alla morte.
    Ora, se ci si chiede come gli uomini, nella storia, hanno guardato alla morte, si ottiene una infinità di risposte, tante quante sono le biografie personali.
    Ma poiché le «visioni» della realtà sono sempre modellate dai grandi «codici» culturali (religioni, filosofie, ideologie, ecc.) entro cui gli uomini vivono, anche di fronte alla morte le concezioni individuali sono mediate da quelle più generali che, per motivi di chiarezza, si possono ricondurre ad alcune tipologie principali.

    CONCEZIONI DELLA MORTE

    Concezione organicistica

    C'è innanzi tutto la concezione, organicistica o naturalistica per la quale la morte, come la vita, viene letta con la categoria della totalità entro la quale l'individuo si vive ed è vissuto come parte del tutto, ad esempio come una foglia nei confronti dell'albero o un membro nei confronti del corpo. In una visione come questa, affermatasi nelle società soprattutto agricole, a contatto con la madre terra, la morte individuale non pone particolari problemi: sia perché ciò che conta è il tutto, che permane eternamente, e sia perché il singolo emerge da esso come la nube dal mare, e ad esso ritorna come il fiume nell'oceano. Se oggi, nella società automatizzata del postmoderno, si diffonde sempre più l'angoscia per la morte, bisogna evitare di «metafisicizzare» tale angoscia, come se facesse parte della natura umana e fosse universale, ricordando che la maggior parte delle culture non conoscono l'angoscia della morte. Tra queste sicuramente quella anticotestamentaria, la cui fede in Dio e il cui amore alla terra prescindono da qualsiasi riferimento al superamento della morte naturale: «Un tratto essenziale della fede veterotestamentaria e la sua completa e illimitata mondanità... Come la parola e l'azione di Dio accadono nel contingente qui ed ora, così l'essere... dell'uomo con le sue relazioni con Dio e con il mondo circostante è totalmente legato a questa vita. Solo in essa è possibile una vita umana carica di senso. Perciò l'uomo deve strutturare la sua vita presente in modo tale che essa possa raggiungere qui ed ora il suo pieno e profondo significato. Solo nell'aldiqua l'uomo può conoscere e vivere ciò che si può conoscere e vivere. La vita non serve di preparazione all'aldilà, ma riceve il suo vero valore dal momento presente e irripetibile».[1]

    Concezione fattuale

    Una seconda concezione è quella fattuale, per la quale la morte è un semplice «fatto» o «accadimento» senza senso che richiede di essere accettato coraggiosamente. Ciò che avviene, avviene perché deve avvenire, per destino, fatalità o inderogabile necessità, perché è così e non può essere altrimenti, come vuole ad esempio Hume. Una visione come questa, che nel passato era posizione minoritaria, sta diventando la visione predominante di buona parte della modernità che, avendo espulso il trascendente dal «cielo» e dalla «terra», lo ha espulso anche, di conseguenza, dal nascere e dal morire: «fatti» che, senza più senso oggettivo, sono solo l'«inizio» e la «fine» della pagina bianca dove designare i propri sensi e progetti. La formulazione classica e più celebre di questo atteggiamento è quella di Epicuro il quale nella Epistola a Meneceo scrive: «Il più orribile dei mali, la morte, non è nulla per noi; poiché quando noi siamo, la morte non c'è, e quando la morte c'è, allora noi non siamo più. E così essa nulla importa, né ai vivi né ai morti, perché in quelli non c'è, questi non sono più».

    La concezione più corrente

    Una terza concezione - quella più corrente - può essere chiamata trascendente; secondo questa la morte non è né la fine dell'individuo, come nella concezione organicistica, né l'accadimento senza senso, come nella concezione fattuale, ma il passaggio dell'esistenza terrena imperfetta e umbratile, ad una celeste più felice e completa, la cui immagine efficace è quella della nascita. Di questa concezione si danno soprattutto due figure: una greco-platonica, frutto dell'incontro fra la tradizione platonica e il mito gnostico, l'altra ellenistico-cristiana, frutto dell'incontro fra la tradizione biblica e il pensiero ellenistico.
    Secondo la prima, l'uomo vive nel mondo come in un carcere nel quale resta estraneo e dal quale vuole liberarsi. Questa figura è stata incarnata in forma impareggiabile dalla morte di Socrate così come ce la tramanda Platone nel Fedone: «E la purificazione, come è detto in un'antica dottrina, non sta forse - disse Socrate rivolto a Simmia - nel separare il più possibile l'anima dal corpo e ncll'abituarla a raccogliersi e a restare sola in se medesima, sciolta dai vincoli del corpo, e a rimanere nel tempo presente e in quello futuro sola in se medesima, sciolta dal corpo come da catene? ... E non è forse questo che noi chiamiamo morte, cioè lo scioglimento e la separazione dell'anima dal corpo?... E a scioglierla, come dicevamo, desiderano ardentemente, sempre e solo coloro che esercitano filosofia in modo retto. E precisamente questo è il compito dei filosofi: sciogliere e separare l'anima dal corpo... Quindi, come dicevo all'inizio, non sarebbe ridicolo che, mentre un uomo si prepara, durante tutta la sua vita, a vivere in modo da essere quanto più possibile vicino alla morte, quando poi giunga il momento se ne addolori ?... È dunque proprio vero, o Simmia, che i veri filosofi si esercitano a morire, e che essi temono il morire molto meno che gli altri uomini... Se essi sono in ogni maniera nemici del corpo, e desiderano avere l'anima sola; e se poi quando questo avviene, si lasciassero prendere da paura e si sdegnassero, non sarebbe assolutamente assurdo se non andassero volentieri là, dove, giungendo, hanno speranza di possedere, finalmente, quello che amavano in vita, ossia l'amore della saggezza, e di essere liberati dalla compagnia di quello di cui furono nemici quando erano uniti ad esso?» (67B-68A).
    Si è citato per intero questo lungo brano perché come nessun altro ha segnato, in occidente, la concezione della morte, fino a identificarsi tout court con la stessa concezione cristiana.
    La seconda figura è la risultante tra la visione greco-platonica e quella biblica che le fa da parziale correttivo. Qui il corpo e il mondo non sono visti come un «carcere», essendo stati, secondo l'insegnamento scritturistico, creati da Dio, ma neppure come patria definitiva dell'uomo, bensì come tappe inferiori o intermedie da cui «decollare» per entrare nella vita eterna. Da questo punto di vista la morte si carica di una forte ambivalenza: in quanto interruzione di questa. vita e di questo mondo - di per sé buoni - rappresenta una rottura dolorosa e drammatica; in quanto introduzione in una vita superiore, rappresenta un evento positivo. Creatura destinata ad una felicità superiore per la quale non gli bastano le cose create, l'uomo vive la morte come privazione e come arricchimento; privazione del poco che ha e arricchimento del più che avrà. Essere fatto per l'infinito mentre si nutre solo di finito, egli lo sente come sottrazione di questo e accesso a quello.

    LA CONCEZIONE BIBLICA

    La bibbia anticotestamentaria così parla della morte di alcuni dei suoi personaggi: «Abramo spirò e morì in felice canizie, vecchio e saggio di giorni, e si riunì ai suoi antenati (Gn 25, 8); «Poi Isacco spirò, morì, e si riunì al suo parentado, vecchio e sazio di giorni» (Gn 35, 29); «Dopo tutto questo Giobbe visse ancora 140 anni e vide figli e nipoti di quattro generazioni. Poi Giobbe morì vecchio e sazio di giorni» (Gb 42, 17).
    Frasi come queste, troppo sbrigativamente cancellate dalla memoria cristiana o interpretate come residui mitici, mostrano a sufficienza che, per la bibbia, quando la morte giunge al termine di una vita «sazia di giorni», invece che espressione di un disordine ontologico è essa stessa momento dell'Ordine e dell'Armonia. La metafora bellissima del «morire sazio di giorni» dice che la morte intesa come fine dell'esistenza umana di per sé non è un torto fatto all'uomo e alla sua volontà di vita, ma il dispiegarsi della stessa volontà - che è volontà d'amore - creatrice che, in quanto tale, non può non essere che «buona»: «La morte, che per ogni ente creato è una giusta adempitrice di tutta la sua cosalità, spinge impercettibilmente la creazione nel passato e così la rende una silenziosa, costante predizione del miracolo del proprio rinnovamento. Per questo il sesto giorno della creazione non viene detto che era 'buono', bensì: 'ecco, buono proprio molto'. 'Proprio molto', così insegnavano i nostri antichi, 'proprio molto': questa è la morte»[2] .
    Non ci si lascerà mai sorprendere a sufficienza dal fatto che l'ebraismo anticotestamentario è vissuto per quasi duemila anni senza alcuna fede nell'aldilà e che, quindi, né Abramo, il padre della fede per antonomasia, né i narratori dell'evento esodico, l'esperienza fondativa della fede ebraica, né i grandi oranti autori di salmi hanno mai avuto l'idea dell'aldilà. Ci si trova di fronte ad un fatto paradossale che non ha riscontri nelle altre culture: «Di contro a quanto accade per l'Egitto l'Anatolia, la Mesopotamia e Ugarit, nell'ambito dell'Antico Testamento non si trovano testi che concernono esclusivamente l'Aldilà, i suoi abitanti o le condizioni che vi sussistono. In rapporto ad altre documentazioni vicino-orientali antiche, la bibbia ebraica non sa né di un altro mondo concepito in senso spaziale - in analogia con i territori soggetti alle città stato - né di forze 'numinose' di divinità che vi dimorino o vi regnino»[3].
    Lo stesso si dica dell'ebraismo post-biblico che, anche quando giunge all'idea dell'aldilà, non l'ha comunque mai tematizzato giungendo perfino a vietare di pensarci, per timore che allontanasse dalle responsabilità mondane: «Chiunque dedica la propria mente a quattro cose: che cosa c'è sopra? cosa c'è sotto? cosa c'è prima? cosa c'è dopo? sarebbe stato meglio per lui che non fosse venuto al mondo».[4]
    La ragione profonda di questo atteggiamento paradossale che gioca il suo rapporto con Dio all'interno dell'aldiqua piuttosto che nella prospettiva dell'aldilà va cercata nel fatto che, per la bibbia, l'orizzonte costitutivo dell'umano non è il desiderio dell'infinito, al quale tendere, ma l'obbedienza all'amore, al quale affidarsi.[5]
    L'idea dell'aldilà nasce, nella bibbia, nel periodo maccabaico, qualche secolo prima dell'era cristiana, quando esplode la coscienza della contraddizione tra la sorte dei giusti e la promessa di felicità da parte di Dio: se, secondo il principio alleanza (che, per Israele, è il principio costitutivo del reale), Dio ha promesso al «giusto, a colui che accoglie e ridona il suo amore, felicità e benessere, perché di fatto questo non avviene quasi mai? E perché la storia quasi sempre smentisce categoricamente ciò che Dio ha promesso incondizionatamente? di fronte a questa terribile domanda che Israele, quando molti dei suoi figli durante il periodo maccabaico, sono tentati di apostasia mentre altri muoiono martiri per non abbandonare la fede dei padri, accede all'idea come vita del dopo morte: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l'infamia eterna. I saggi risplenderanno come lo splendore del firmamento; coloro che avranno indotto molti alla giustizia risplenderanno come le stelle per sempre» (Dn 1-3).
    Ma si tratta di una idea dell'aldilà che non nasce entro l'orizzonte del desiderio (non rassegnarsi ad una vita «finita») e neppure si alimenta della «sete d'infinito» del cuoce umano, secondo la dizione tipica della tradizione cristiana, ma dentro l'orizzonte della fedeltà di Dio alla sua promessa («se farai il bene avrai il bene») e che come risposta al problema della giustizia di Dio: se Dio ha promesso felicità ai suoi giusti e questi non l ottengono sul piano della storia ci dovrà essere allora uno spazio non più empirico ma metastorico dove finalmente i giusti vedranno ristabilito questo nesso.[6]
    Questa esperienza di un aldilà come vita dopo morte, dove i giusti risorgeranno e rivivranno, è la radicalizzazione fino alle estreme conseguenze dell'amore di Dio che è il donatore della vita e al quale continuare a credere e abbandonarsi anche quando, come nel caso di Abramo, sembra smentirsi.

    Abbandonarsi all'amore

    È questo il modo con cui, secondo la testualità biblica, l'uomo di fede vive la morte: abbandonandosi all'amore di quel Dio che gratuitamente ogni giorno lo ricrea per amore e, gratuitamente, ogni giorno lo chiama ad amare. Morire, per la bibbia, è lo stesso che vivere: fidarsi e affidarsi a quell'amore che, in ogni qui e ora, ama e chiama ad amare.
    Da questo punto di vista resta profondamente vera l'osservazione in cui Barth sintetizza l'atteggiamento dell'uomo biblico di fronte alla morte: «L'uomo, in quanto tale [cioè in quanto creatura finita] non ha alcun aldilà e neppure ne ha bisogno; perché Dio è il suo aldilà.
    Dio, come creatore, partner del l'alleanza, giudice e salvatore è stato il fedele vis à vis dell'uomo già nella sua vita e lo è e lo sarà in modo esclusivo e totale nella sua morte: questo l'aldilà dell'uomo. L'uomo però, in quanto tale, appartiene all'aldiqua ed è perciò finito e mortale e, come prima non era ancora, dovrà un giorno non essere più.
    Anche nella forma di uno che è stato e non è più egli non sarà un nulla, ma parteciperà alla vita eterna di Dio: questa è la promessa che gli è stata data nel suo essere di fronte a Dio, questa la sua speranza, questa la sua fiducia».[7]

    L'amore vince la morte

    Un suggestivo racconto talmudico narra:

    «Rabbi Jehudah soleva dire:
    Nel mondo sono state create dieci cose dure.
    La montagna è dura. Ma il ferro può spaccarla.
    Il ferro è duro. Ma il fuoco può piegarlo.
    L'acqua è dura. Ma le nuvole la portano.
    Le nuvole sono dure. Ma il vento può cacciarle.
    Il vento è duro. Ma il corpo può resistergli.
    Il corpo umano è duro. Ma la paura può spezzarlo.
    La paura è dura. Ma il vino può bandirla.
    Il vino è duro. Ma il sonno può vincerlo.
    La morte è più forte di ogni cosa.
    Tuttavia la carità libera dalla morte (Pr 10,2)».[8]

    Per l'occhio fenomenico e per l'opinione comune, la morte è la forza più minacciosa e violenta che nessuno e niente riesce a contrasta. Eppure, stando al paradossale racconto citato, per l'occhio credente esiste una forza capace di vincerla e di ridurla al silenzio: la carità cioè l'amore gratuito o l'agape.
    Affermazione pia e consolatoria o reale possibilità dell'umano che, nell'istante stesso in cui si apre all'amore, si scopre nello spazio che da sempre è già oltre la morte?
    È affermazione comune alla maggior parte delle culture che, nell'uomo, aldilà della sua mortalità c'è il permanere di un qualcosa che lo rende immortale.
    Per la grecità, la cultura che più di ogni altra si è auto-oggettivata e pensata, la dimensione di immortalità costitutiva dell'umano è l'anima. Per la bibbia l'anima l'identità ultima e inalienabile del soggetto umano è la coscienza della grazia: l'extra dell'amore di Dio che ama e chiama ad amare. Chi si sa amato e chi ama di quell'amore che è grazia, bontà e disinteressamento ha già vinto la morte ed è fuori della morte: perché è dentro lo spazio di Dio che, per definizione, è Vittoria della morte.
    Per questo Giovanni può scrivere: «Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14).[9]


    NOTE

    [1] G. Fohrer. cit. da D. Garrone, Morte e vita eterna secondo la bibbia ebraica, in AA.VV. L'aldilà nella bibbia. Atti del Convegno Nazionale, Biblia, Settimello (FI) 1992, pp. 12-13.
    [2] F. Rosenzweig, La stella della redenzione, Marietti, Genova 1985, p. 165.
    [3] Th. Podella, citato da D. Garrone, in AA.VV., L'aldilà nella Bibbia..., cit., p. 11-12.
    [4] Questa massima si trova nel Mishnah, Chagigah 2,1.
    [5] Per questo il modello del credente è per la bibbia e per lo stesso Nuovo Testamento, Abramo. il quale si fida e affida a Dio anche senza alcuna idea dell'aldilà.
    [6] Se questo è vero. L'escatologia biblica sfugge alla critica dei cosiddetti «maestri del sospetto» e non teme il giudizio dio autori come Girardi il quale, al Simposio teologico indetto dall'Accademia Cattolica di Vienna sull'escatologia, ha affermato. «Un'analisi del cosiddetto `desiderio escatologico' mostra che, in profondità, esso non è che lo spostamento su un oggetto inafferrabile di un desiderio reale di ordine profano. Quanto dire che, in profondità il desiderio escatologico non esiste: che non si tratta per noi di risolvere la domanda che esso pone ma di dissolverla» (Idoc nn. 11-12/1993, p.5).
    [7]In Die kirkliche Dogmatik, III/2, 770. Testo italiano in Garrone, in AA.VV., L'aldilà nella Bibbia, cit., p. 61.
    [8] Talmud babilonese Bava Bathra 10a. Cf J.J Petuchowski, «I nostri maestri insegnavano...», Morcelliana, Brescia 1983, p.178. Si noti però che indebitamente la tradizione italiana rende con carità il termine originale che è il termine «giustizia».
    [9] Sulla bontà come vittoria sulla morte cf le bellissime pagine di E. Lévinas, Umanesimo dell'altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, pp. 113-114.


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