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    Arriva strisciando. La morte nel cinema


    Gigi Di Libero - Enzo Barba

    (NPG 1995-02-28)



    La morte, esattamente come la vita, intesse la storia del cinema con la sua presenza e le sue trasfigurazioni, positive e negative, le quali sono l'espressione, e a volte la prefigurazione, del pensiero, dei miti, della religiosità e della fantasia collettiva delle diverse epoche e generazioni.
    Si può ben dire che ricercare la morte, con le sue trasfigurazioni, nella storia del cinema significhi fare un lungo viaggio nell'animo umano così come si è conosciuto e proiettato negli eventi e nelle avventure dell'umanità.

    Tipologie filmiche della morte

    La morte appare pertanto nei films:
    - come trasformazione in sogni di potenza e in altri mondi e orizzonti dominati da una tecnologia avanzata: Il tagliaerbe di B. Leonard;
    - come allegoria del potere e del dominio sprezzante o appassionante di un uomo sopra l'altro, di un popolo sull'altro, dell'uomo su se stesso e il proprio corpo:
    ^ guerre violente (la Trilogia di O. Stone sulla guerra del Vietnam);
    ^ carneficine frutto di violenze inesprimibili e sempre più ossessivamente presenti là dove la vita delle generazioni è privata del suo senso e della speranza di un futuro (Jona che visse nella balena di Faenza e Schlinder's list di Spielberg);
    ^ guerre ingiustificate e disumane che solo la volontà di potere di arrivisti può ammettere, comandare e realizzare (films sulle ultime guerre mondiali);
    - come espressione drammatica della soggezione dell'uomo alle malattie più crude e virulente che lo attaccano sotto varie manifestazioni e lo tengono schiavo di un destino di povertà ed esistenziale miseria cronica:
    ^ peste, tubercolosi ed altri mali nell'oscurantista società medioevale (Francesco di Cavani; Magnificat di Avati; Diceria dell'untore di Cino);
    ^ droga come flagello e fonte sporca di ricchezza per chi vuole arricchirsi con la morte dei deboli e degli sventurati (Christiane F.: Noi i ragazzi dello zoo di Berlino di Ulrich);
    ^ l'aids: la lebbra del ventesimo secolo che ci flagella e ci colpisce là dove pensavamo di aver conquistato un più ampio campo di libertà e di relazionalità umana e sociale (Le notti selvagge di Collard; Philadelphia di Demme; Once more di Vecchiali);
    - come manifestazione perversa di una sessualità vissuta sempre più come dominio e potere egoistico ed assoluto che schiavizza gli altri sottoponendoli ai gusti di un godere individuale o collettivo che isola e disintegra le persone piuttosto che fonderle in tenera comunione (Le età di Lulù di Luna);
    - come riduzione delle persone a corpo senza spessore umano e sociale con chi si può giocare socialmente in una commedia della vita fatta di intrighi e di equivoci (Week-end con il morto di Kotcheff e Scappatella con il morto di Reiner);
    - come fabbrica del guadagno e industria della finzione sociale, dell'ipocrisia, dei convenevoli e dei finti pianti che non graffiano il cuore e l'animo di nessuno (Il caro estinto di Tony Richardson);
    - come disfacimento dell'essere e simbolo della decadenza psicologica e spirituale della persona: Morte a Venezia di Visconti e Porcile di Pasolini;
    - come raffigurazione e simbolo del «destino» ineluttabile che costituisce l'avversario di ogni avventura umana in una tremenda e definitiva partita a scacchi: Il settimo sigillo di Bergman e Medea di Pasolini;
    ^ trasfigurazione e realizzazione completa dell'essere: Dies Irae di Dreyer, Il pranzo di Babette di Axel, Sogni di Kurosawa, La Strada di Fellini e Teorema di Pasolini;
    - come donazione totale e gratuita: La passione di Giovanna d'Arco di Dreyer;
    - come paura e fonte di quel sentimento dell'horror che in qualche forma attira l'animo umano quasi a scaricare un cumulo di tenebre e di terrori ancestrali che ci portiamo dentro nell'immaginario che le culture ci trasmettono fin da bambini;
    - come «mors tua vita mea», cioè come alternativa fatale e necessaria alla propria vita o sopravvivenza: i film western soprattutto nei diversi filoni del western all'italiana.

    Vite ultraterrene e ultravite terrene

    Spesso il cinema racconta storie che per così dire iniziano dalla fine. L'evento morte viene cioè ad essere considerato quale prodromo, manifesto o presupposto, di una vicenda, di un intreccio narrativo intessuto, per l'appunto, sul «post mortem».
    Mentre però nel passato i cineasti ci hanno spesso regalato personaggi «fantasmatici» di indubbio fascino e distinta galanteria - basti pensare ai simpatici fantasmi di tante commedie firmate da Clair o Mankiewitcz - nell'ultimo decennio, a parte qualche ritorno di fiamma come è accaduto nei recenti Ghost di Zucker o Always di Spielberg, gli schermi sono popolati da creature mostruose, zombie e perversi scherzi di natura, tratti dai peggiori incubi nei quali si possa incorrere.
    Film come Videodrome (1983), La mosca (1985) e Inseparabili (1989) di Cronenberg celebrano la dissoluzione del corpo umano, inteso esclusivamente sotto il profilo esteriore, quale spazio ancora sconosciuto, al contempo materiale e concettuale, nel quale condurre la propria ricerca d'Autore.
    Romero, autore di culto per gli amanti dell'horror, in La notte dei morti viventi e nel ciclo Zombie, si afferma a farci intendere con dovizia di particolari, i più raccapriccianti possibile, che, presto o tardi, il mondo sarà conquistato dai cadaveri e non è detto che questo rappresenti poi la peggiore catastrofe che ci possa capitare.
    In altri casi, oltre la morte, non v'è posto per un'esistenza che sfugga alle regole della natura e dare così luogo a vicende oniriche od horrorifiche, bensì per una pseudo-esistenza, dal carattere paradossale, dovuta esclusivamente all'astuzia di qualche comprimario che deve sfuggire ai guai, complice l'esagerata disattenzione degli altri.
    Anche qui il modello da cui si parte è un corpo umano, preso in considerazione nella sua esteriorità, tutto apparenza e maquillage, che può benissimo continuare a «vivere» fittiziamente dopo una morte che ha messo fine ad una vita reale ma altrettanto fittizia, secondo un cliché tratto dal più autentico «american way of life».
    Ci si vuole riferire a film come Week-end con il morto (e il suo sequel) di Kotcheff o Scappatella con il morto di Reiner.
    Nel primo, la morte del loro capo non impedisce a due giovani rampanti, aspiranti yuppies, di portare a compimento i loro piani, comportandosi come se il defunto, ucciso da un killer, non fosse tale ed accompagnandolo così in una «allegra» scorribanda fra tutti i vizi ed i beni dell'opulenta società americana. Il bello è che nessuno pare accorgersi dello stato del defunto, nemmeno quando questi con il furbo supporto dei due giovani, si «dà» all'automobilismo e allo sci nautico. Come a dire che forse fra chi è morto per davvero e chi si crede vivo poi non sussistono grandi differenze.
    Ma al di là delle metafore, il risultato cui perviene la pellicola è aberrante e diseducativo per quanti non possiedano strumenti critici e culturali per decifrare la vicenda materiale. Dopo un moto di interesse e simpatia per la incredibile e paradossale situazione nella quale i protagonisti si vengono a trovare, lo spettatore non può non provare un senso di fastidio per quella mercificazione del corpo umano che sembra legittimare ogni suo uso, quasi fosse un materiale inerte qualsiasi, al solo fine di ottenere i propri scopi egoistici. È un modo, lo si comprende, per esorcizzare il tabù della morte; per rendere gradevole un momento tragico della stessa vita. Ma è anche un pretesto furbesco per far leva sull'interesse dello spettatore che si trova come spiazzato di fronte al paradosso e spesso incapace, come avviene soprattutto per i più giovani, di oltrepassare il confine materiale dell'intreccio narrativo; con il risultato di far passare ancora una volta un messaggio di onnipotenza dell'uomo su tutto ciò che lo circonda, anche sull'uomo stesso, perfino sull'uomo che ha cessato di vivere.

    Sfide contro la morte e sfide contro la vita

    Il cinema ha spesso celebrato la figura tradizionale dell'eroe. Di colui che volontariamente giunge al supremo sacrificio di sé per affermare i valori universali della vita. Il suicidio, quale estrema e tragica ribellione alle storture palesi o latenti di una società che rifiuta la ricchezza dei valori umani, che cieca e sorda alla domanda di profondo che emerge da pochi illuminati, non riesce a dare risposte adeguate alla esigenza di integrazione e riconoscimento che sale da parte di individui particolarmente sensibili e dotati di non comune forza di volontà (basti pensare, per fare un esempio piuttosto recente, al suicidio di uno dei protagonisti del film L'attimo fuggente di Weir o ai bambini che si suicidano nei due film di Rossellini, Europa '51 (1952) e Germania Anno Zero (1947)).
    Un modello, dunque, di eroe che sfida con tutte le armi che ha a disposizione, compreso l'annientamento di sé, la morte, forte di un solido bagaglio di netti valori, sia pure estremizzati e condotti alle conseguenze più riprovevoli.
    Il cinema degli ultimi decenni non poteva rimanere estraneo ai capovolgimenti di natura epocale che la società ha attraversato e tuttora attraversa.
    Se vogliamo fissare l'attenzione maggiormente sui giovani e sulla cultura della morte in cui si trovano sempre più sprofondati, il cinema contemporaneo sembra essere realmente un lucidissimo caso di specchio dei tempi. Sicuramente esprime una situazione esistenziale e sociale in cui la gioventù delle ultimissime generazioni si ritrova a vivere. Esprime di queste generazioni giovani le ansie, le paure, i vuoti esistenziali e i non sensi di carattere psicologico, sociale, familiare e spirituale che costituiscono l'humus fecondo di una certa cultura del nulla, del rischio totale e definitivo e del buttarsi via per motivazioni che non hanno nulla a che spartire con la donazione generosa ed eroica di esseri umani che si sacrificano per cause che li superano e li rendono eterni.
    Insomma, la sfida nei confronti della morte e di una cultura che annienta i valori tradizionali si trasforma in sfida verso la vita, con tutto il suo grigiore esistenziale e la sua confusione di valori. Si giunge, dunque, ugualmente al suicidio, ma non come affermazione, sia pure estrema di valori, bensì come risposta al disorientamento e come tentativo di sfuggire al dolore di vivere. Non di meno il cinema sembra dare atto della connotazione (più allarmisticamente) sociale del fenomeno, a fronte del carattere individuale ed episodico che lo stesso possedeva nel passato. Quelli che sfidano la morte, gli stessi di cui, nella realtà, leggiamo sui giornali sempre più spesso, sono i giovani di oggi e non questo o quel particolare giovane afflitto da problemi di inserimento.
    Dal brivido delle due macchine lanciate a tutta velocità verso il vuoto di Gioventù bruciata (1955), bravata che serve a mostrare il bisogno disperato di affetto dei giovani; alla sanguinosa scia di cadaveri di psicolabili morti per essersi cimentati nella prova di coraggio della roulette russa sulla scorta del noto film di Cimino Il cacciatore (1978); dai raccapriccianti modelli di Kalifornia (1993), che inizia con la tristemente famosa scena del giovane Brad Pitt che lancia da un cavalcavia un grosso masso che colpisce un'auto e provoca la morte dei due passeggeri, e di The program (1993), che mostra dei giovani stesi al centro di una strada trafficata col rischio di finire investiti per mostrare il proprio coraggio e che è arrivato all'onore delle cronache internazionali per aver già «provocato» una serie di giovani suicidi. Alla domanda «perché i giovani mettono in pericolo la propria vita», i giovani stessi, in un recente sondaggio, hanno risposto che è principalmente per sfidare se stessi, per acquistare un prestigio presso il proprio gruppo. per il gusto della sfida, per disprezzo per la propria vita, per i soldi delle scommesse e per altri motivi ancora.
    Ma, commenta uno psichiatra, «chi arca la morte, in fondo, vuole morire alla sua non-vita quotidiana per vivere una vita reale».
    E il cinema mostra abbondantemente nella sua ultimissima produzione, sia pure con profonde radici negli ultimi trent'anni di cinema internazionale, che il «quotidiano» che i giovani ricevono in eredità o si prendono con una certa stizzosa prepotenza si rivela fatto di nulla o quasi.
    Come pure gli eroi adolescenti e giovani maturi di molte pellicole ci fanno toccare con mano che sempre più nella loro psicologia offuscata o decurtata di un certo spessore umano, gli altri perdono progressivamente intensità umana e non vibrano più come esseri che meritano la sacra e totale attenzione dell'uguale a me che devo rispettare e amare, per divenire numeri omologati e scialbe controfigure o robot di un gigantesco videogame che solo possono «servire» ad essere colpiti e «usati» per raggiungere i propri scopi e dar corso alle proprie insindacabili e folli esperienze.
    E il cinema, drammaticamente ma per sua propria natura, si incarica di dare l'aureola del mito e dell'eroico ad ogni affermazione incondizionata e nevroticamente superba dell'io, del mio individuale affermato al di sopra di tutto e di tutti: mitico feticcio da celebrare come unica folle speranza di divenire qualcuno almeno per un attimo e per una scintilla di falsa luce che subito svanisce nel buio ancor più tenebroso dei valori calpestati e della coscienza offuscata.

    La morte collettiva: il cinema del disastro fra innocenza e cattiva coscienza

    La morte collettiva, quella che interessa una fascia più o meno ampia di società, possiede in sé attitudini alla spettacolarizzazione che non è possibile riscontrare altrove. È questo il motivo per cui tale tema appartiene da sempre alla cinematografia mondiale, soprattutto statunitense.
    Il genere catastrofico, sviluppatosi soprattutto negli anni '70 con la serie Airport o con pellicole come L'inferno di cristallo di Guillermin (1974) e Terremoto di Robson (1974), trova infatti i suoi prodromi già negli anni '30 con film quali La fine del mondo (1930) di Gance, S. Francisco (1936) di Van Dyke, Uragano (1937) di Ford e La grande pioggia (1939) di Brown.
    Gli ultimi prodotti del genere risultano per lo più improntati sulla catastrofe nucleare, anche se qui in realtà l'evento apocalittico assurge spesso a pretesto per costruire opere assai diverse tra loro ed appartenenti esse stesse a generi o filoni eterogenei. Basti pensare alla drammatica spettacolarità di The day after (1983) di Miller, messa a confronto con l'intimismo confessionale che pervade Sacrificio di Tarkovskij.
    Spesso poi il postatomico diviene spunto per tratteggiare allegoricamente società in rovina, popolate soltanto da bande di sopravvissuti che lottano per avere il controllo su ciò che resta di una società opulenta, la quale non è riuscita a porre un freno alla smania di sviluppo ad ogni costo.
    Si vedano in tal senso le serie di Mad Max, Interceptor, o film come il mitico Blade Runner (1982) di Scott e 1997: Fuga da New York di Carpenter.
    Pare interessante sottolineare come il «cinema del disastro» sia passato, nel tempo, da un'età - per così dire - dell'innocenza ad un'altra contrassegnata da una sorta di cattiva coscienza collettiva.
    Mentre, infatti, nel passato, avveniva spesso che fasce più o meno ampie di popolazione, d'un tratto, scomparissero dalla faccia della terra, a causa di eventi, per lo più naturali, assolutamente eccezionali ed imprevedibili, e comunque del tutto svincolati da qualsiasi responsabilità umana, oggi è sempre più frequente che gli schermi cinematografici ci raccontino di decimazioni le cui cause, o quantomeno concause, risultano comunque collegate ad una precisa e dolosa volontarietà dell'azione dell'uomo.
    Anche quando il cataclisma appare perfettamente naturale, il disastro av viene anche in seguito a qualche speculazione umana di carattere economico che ha fatto sì che, ad esempio, un certo sistema di sicurezza o un apparato di protezione non svolgessero il loro ruolo.
    Il più recente cinema apocalittico è pieno di questi ammonimenti nei confronti della società moderna e pare indubbiamente funzionale ad una sorta di critica nei confronti dei sistemi di sviluppo incontrollato e dunque delle sue storture, dovute al calcolo egoistico e ad una evoluzione tecnologica priva di ogni riferimento di carattere morale.
    Questa è la morte presente abbondantemente nei film che passano quotidianamente sui nostri schermi con il codazzo di tante parole e di tante critiche o plausi o verbosi commenti che cercano di nascondere, nel parlarsi addosso, la durissima realtà della morte che invece sembra sfidare sempre più duramente gli adolescenti e i giovani delle nostre generazioni, in fondo così fragili e disarmate, di fronte a simili mostruosi apparati di distruzione e di vuoto culturale e spirituale.
    Quel che è certo è che la morte, oggettivizzata sullo schermo, risponde sempre, con tutte le sue variegate sfumature, all'esigenza di rimuovere uno dei tabù fondamentali con cui l'uomo, da sempre, si è trovato a doversi confrontare.
    Materializzare la morte nel cinema serve a rendere «manovrabile» e dunque gestibile, da parte dell'individuo, uno dei mestieri più profondi e radicati che esistano nell'esperienza dell'umanità. Si tratta di una sorta di esorcismo perfettamente in linea con una cultura che mette al centro di tutto l'uomo come entità eterna e che si alimenta, oggi più che mai, dello sviluppo tecnologico e della ricerca medico-scientifica.
    A conclusione di questo nostro modesto contributo che non voleva, ovviamente, né poteva possedere carattere esaustivo, ma soltanto suggerire brevi piste di riflessione sul fenomeno, e prima di proporre una essenziale filmografia che possa servire ad organizzare un cineforum, ci sia consentito proporre alcuni interrogativi che riteniamo possano tornare utili, oltre che per favorire un ulteriore approfondimento individuale, per sollecitare un proficuo dibattito in seno ad un gruppo giovanile che voglia affrontare questo argomento.
    Ci si chiede: qual è il confine fra un cinema inteso come rappresentazione di una realtà sociale, quale specchio fedele di un determinato modello di vita giovanile, realmente esistente, ed un cinema che invece, più che registrare un dato sociale, anzi apparendo pericolosamente come tale, invece tenda piuttosto ad offrire un modello da seguire alle nuove generazioni?
    Vale a dire: quanto cinema contemporaneo mascherato da mero «registratore» di modelli giovanili di comportamento, in realtà propina invece si- tuazioni e ambientazioni virtuali che fungono da moltiplicatore, in ordine a quei medesimi modelli, sancendone una sempre più pericolosa legittimazione e dunque favorendone una allarmante diffusione fra le fasce giovanili meno dotate di strumenti critici?
    A chi giova giocare con le difficoltà dei giovani e degli adolescenti, facendole divenire spettacolo su cui costruire altro spettacolo in una progressione mostruosa e fallimentare? Chi sta lavorando con i mass media, con l'immaginario collettivo delle nostre generazioni per enfatizzare una civiltà della morte e della sfida eroica e inutile con la morte, per affermarsi nel momento in cui ci si distrugge e si distrugge? C'è una regia? C'è un progetto? E, se c'è, dove condurrà queste giovani generazioni, che al di là di tutto rappresentano il vero unico futuro che possiamo ragionevolmente prevedere?

     

    La morte nel cinema

    Spunti filmografici

    IL SETTIMO SIGILLO, di Ingmar Bergman (1956)
    LIGHTING OVER WATER (NICK'S MOVIE), di Wim Wenders (1980)
    SUSSURRI E GRIDA, di Ingmar Bergman (1972)
    1975: OCCHI BIANCHI SUL PIANETA TERRA, di Boris Sagal (1971)
    IL POSTO DELLE FRAGOLE, di Ingmar Bergman (1957)
    VOCI LONTANE...SEMPRE PRESENTI, di Terence Davies (1987)
    IMPERATIVO, di Krzystof Zanussi (1981)
    THE DAY AFTER, di Nicholas Meyer (1983)
    IL PARADISO PUÒ ATTENDERE, di Warren Beatty (1978)
    MIRIAM SI SVEGLIA A MEZZANOTTE, di Tony Scott (1983)
    L'ULTIMA TENTAZIONE DI CRISTO, di Martin Scorsese (1988)
    SALÒ O LE 120 GIORNATE DI SODOMA, di Pier Paolo Pasolini (1975)
    GHOST, di Jerry Zucker (1990)
    IN VIAGGIO VERSO BOUNTIFUL, di Peter Masterson (1985)
    MORIRAI A MEZZANOTTE, di John Old Jr. (1986)
    MORTACCI, di Sergio Citti (1989)
    SACRIFICIO, di Andrej Tarkovskij (1986)
    DRACULA, di F.F. Coppola (1992)
    FILM BLU, di K. Kieslowski (1993) SOGNI, di Kurosawa (1990)
    MORTE A VENEZIA, di Luchino Visconti (1971)
    LA MORTE AllURRA, di Erle Kenton (1934)
    LA MORTE BUSSA DUE VOLTE, di Harald Philipp (1971)
    LA MORTE CIVILE, di F.M. Poggioli (1940)
    LA MORTE COLPISCE A TRADIMENTO, di Francis Searle (1853)
    LA MORTE DALL'OCCHIO DI CRISTALLO, di Daniel Haller (1965)
    LA MORTE DI MARCO RICCI, di Claude Goretta (1982)
    LA MORTE DI MIKEL, di Imanol Uribe (1984)
    UNA MORTE DI TROPPO, di Claude Chabrol (1985)
    MORTE DI UN AMICO, di Franco Rossi (1960)
    MORTE DI UN PROFESSORE, di John Mackenzie (1972)
    MORTE DI UN MATEMATICO NAPOLETANO, di Mario Martone (1992)
    LA MORTE DIETRO LA PORTA, di Bob Clark (1972)
    LA MORTE È DISCESA A HIROSHIMA, di Norman Taurog (1948)
    LA MORTE È DISCESA TROPPO PRESTO, di Edmond T. Greville (1952)
    LA MORTE IN DIRETTA, di Bertrand Tavernier (1980)
    LA MORTE IN JAGUAR ROSSA, di Harald Reini (1970)
    MORTE IN VATICANO, di Marcello Aliprandi (1982)
    LA MORTE INCERTA, di José R. Larraz (1973)
    LA MORTE INFRANTA, di André de Toth (1943)
    LA MORTE INVISIBILE, di William Nigh (1940)
    LA MORTE MI ATTENDE, di Vincent Sherman (1953)
    LA MORTE SOPRA SHANGAI - L'INFERNO GIALLO, di Rolf Randolf (1941)
    MORTE SOSPETTA D'UNA MINORENNE, di Sergio Martino (1975)
    MORTE SUL TAMIGI, di Harald Philipp (1972)
    LA MORTE SUL TRAPEZIO, di Harald Philipp (1965)
    LA MORTE VIENE DALL'OMBRA, di Alfred E. Green (1947)
    LA MORTE VIENE IN SOGNO, di Kristine Peterson (1988)
    I MORTI VIVONO, di Javier Setò (1967)
    LA NOTTE DEI MORTI VIVENTI, di George Romero (1968)
    I MORTI VIVENTI SONO TRA NOI, di Jean-Claude Roy (1986)

     


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