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    Uno sguardo alla situazione attuale in prospettiva educativa



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1994-09-38)


    Viviamo in una situazione di profonda e diffusa complessità. Essa sta prima di ogni giudizio e di ogni valutazione. Viene definita complessa quella situazione sociale e culturale in cui si passa da un sistema unificato, in cui le diverse istanze sono organizzate in un unico centro ordinatore, ad un sistema raccolto attorno a diversi riferimenti, in cui convivono differenti e molteplici principi organizzatori.

    LA SITUAZIONE

    Un fatto strutturale con ampie ricadute culturali

    La complessità ha profonde radici strutturali (divisione dei mezzi di produzione e gestione di quelli della comunicazione...). È importante non dimenticarlo per non ridurre l'analisi del processo educativo e la soluzione dei problemi che l'attraversano ad una semplice questione di buona o cattiva volontà. Questo dato strutturale produce influssi notevolissimi (e non sempre uniformi) sul piano culturale: di valori, cioè, di stili di vita, di orientamenti a cui ispirare la personale visione di sé e del mondo.
    Uno dei più diffusi è la crisi di totalità, di univocità di fondamento, con relativa perdita di senso e, spesso, del gusto di porsene il problema.
    Un tratto comune è l'indifferenza. Essa va dalla costatazione che tutte le proposte possono stare sullo stesso piano al disinteresse per le proposte stesse. La diffusa indifferenza religiosa è un sintomo di un atteggiamento più vasto e generalizzato.

    La ricaduta sui più deboli

    In una situazione, strutturale e culturale come è questa, cosa capita a chi cerca di progettare la sua esistenza? Quegli influssi, positivi e negativi, condizionano la qualità dei processi educativi? Come e dove possiamo intervenire, ammesso che sia possibile fare qualcosa? Si ripete spesso che in situazione di complessità è impossibile utilizzare criteri valutativi, sicuri e universali.[1] Nonostante questa consapevolezza, la mia riflessione è ispirata da chiare preoccupazioni educative. Per questo, nonostante la consapevolezza diffusa, credo sia urgente «valutare» l'esistente, alla ricerca dei guadagni culturali da accogliere e consolidare, e dei punti problematici da controllare e, possibilmente, eliminare. Utilizzo come criterio valutativo il confronto con la vita e la sua qualità, il dato più oggettivo che ci sia, nonostante la sua radicale risonanza soggettiva. Lo faccio «da credente»: accogliendo cioè il vissuto e la riflessione su questo vissuto, testimoniati dal Vangelo e dalla fede della Comunità ecclesiale.
    Ma sollecita verso questa valutazione la coscienza che il pluralismo è solo apparente. Esso è pilotato e manipolato da tante agenzie (soprattutto economiche) che sono in grado di governarlo sulla misura dei propri interessi di parte.
    L'attuale situazione, inoltre, ricade sui più deboli (persone e popoli), con gravi conseguenze esistenziali. È facile costatare le emergenze di questa ricaduta (difficoltà alla soluzione dei problemi, crisi diffusa di senso, disperazione e paura...).

    I vantaggi del vivere in complessità

    Vivere in situazione di complessità produce innegabili vantaggi. Non li possiamo ignorare né per nostalgia del tempo passato e nemmeno per la consapevolezza dei problemi che il dato produce e degli esiti negativi che costatiamo.
    Solo per fare qualche esempio, ricordo:
    - sovrabbondanza di opportunità;
    - confronto continuo con la diversità e superamento dei pregiudizi, legati solo al sentito dire: il fatto inedito è l'interscambio multirazziale, multiculturale, multireligioso;
    - tolleranza;
    - superamento dell'oggettività fredda e burocratica, che tendeva a riportare la soluzione dei problemi al «già sperimentato» (fedeltà verso il passato) o alla spiegazione dei processi (le idee cambiano il mondo!);
    - abbassamento del minimo etico «oggettivo» per dare spazio alla responsabilità della «coscienza» personale
    - sopravvivere nella solitudine;
    - modelli formativi nuovi (per esempio: la forza del gruppo).

    A CONFRONTO CON PROBLEMI INQUIETANTI

    La complessità è un fenomeno ambivalente, come tutti i fatti culturali. Gli elementi positivi sono frammisti a quelli negativi e a quelli inquietanti, come le due facce della stessa realtà. È importante riconoscerlo. Non possiamo assicurare gli esiti positivi senza misurarci disponibilmente con quelli problematici. Solo elaborando i secondi, dall'interno della complessità e nella sua logica, possiamo consolidare e diffondere i primi.
    Con questa consapevolezza suggerisco alcuni dei problemi che influenzano la progettazione dell'esistenza in situazione di complessità.
    Semplificando un poco le cose indico il dato da costatare e l'esito sulla struttura di personalità, soprattutto dei giovani d'oggi.

    La soggettivizzazione

    Il dato da costatare
    Alla complessità, culturale e sociale, molti giovani reagiscono assumendo una dimensione «debole» del loro vivere individuale e sociale, che si manifesta in una situazione di diffusa soggettivizzazione. Ogni persona cerca di diventare giudice, in qualche modo, del bene e del male, rifiuta i dati e i controlli normativi, fa della propria coscienza il criterio decisionale così «ultimo» da rifuggire ad ogni controllo. Di fronte ad una sovrabbondanza incontrollata di opportunità e di proposte, la categoria del «per me» diventa quella selezionatrice.

    L'esito nella struttura di personalità
    La soggettività si esprime a tutti i livelli dell'esistenza. Uno degli ambiti più inquietanti dal punto di vista educativo riguarda la ricostruzione dell'identità personale.
    In un contesto di cultura omogenea e unitaria, la definizione dell'identità era un compito affidato e risolto nelle differenti istituzioni responsabili della socializzazione.
    L'esito era generalmente una identità sicura e unificata, con poche possibilità di devianza dalle norme a motivo del forte controllo sociale.
    Oggi invece la persona resta sola, in balia di istanze molteplici e contraddittorie. Sorge un'identità precaria, fragile, flessibile.
    Questa identità «debole» non è vissuta come patologica, ma come l'unica possibile di un tempo di crisi.
    Tutto questo condiziona notevolmente i processi di iniziazione cristiana. Li sbilancia dalla parte di uno spontaneismo e di una verifica solo a partire dal consenso soggettivo, che tende ad escludere dalla formazione le esigenze indiscutibili della «verità» (teologica ed etica) dell'esperienza cristiana.

    La funzione delle cose

    Il dato da costatare
    Per molto tempo siamo vissuti all'insegna di una distinzione tra prodotti funzionali e significati esistenziali.
    La stragrande maggioranza delle cose serve a saturare i bisogni legati alla sopravvivenza. Per questo le cose sono considerate funzionali»: servono nella misura in cui sono capaci di affrontare problemi di sopravvivenza, piccoli o grandi che siano. Per spostarsi sulle lunghe distanze sono necessari mezzi rapidi di locomozione; per risolvere i problemi dalla fame, si richiede il cibo; il telefono serve a raccorciare le distanze tra gli interlocutori.
    Il senso della vita dipende da altri confronti. Alle domande sulla identità personale, sulle esigenze etiche, sul significato della vita, della morte, del dolore e dell'amore rispondono i modelli culturali, l'esperienza religiosa, le tradizioni sui valori.
    Oggi la distinzione sembra non reggere più: le cose hanno ormai invaso anche l'ambito del senso.
    La ragione è facile da intuire. Quando i prodotti a disposizione sono molti e tutto sommato abbastanza omogenei, la concorrenza è costretta a battere altre strade. Non bastano più i bisogni primari, quelli alla cui saturazione sono normalmente destinate le cose. È indispensabile mettere in commercio e far acquisire nuovi bisogni, per poter smerciare i prodotti che sono proposti come capaci di saturarli.

    L'esito nella struttura di personalità
    Molti, sedotti dalla promessa di una felicità costruita sul possesso delle cose, si affannano disperatamente. Ma non è affatto vero che le cose sono disponibili a tutti. Al contrario, sembra che non bastino per tutti, anche perché ce le spartiamo in una logica di sopraffazione e di egoismo. E così, chi resta a mani vuote si sprofonda in una disperazione tanto nera che porta, non poche volte, al suicidio.
    Anche coloro che se ne sono accaparrate in misura... sufficiente, si accorgono presto che le cose non ci bastano davvero a risolvere i problemi dell'esistenza. Ogni tanto infatti il meccanismo si inceppa. Riaffiorano i problemi di sempre. Ci scontriamo con il limite e l'imprevedibilità.
    Abbiamo risolto molti mali con le cose che siamo riusciti a manipolare o a costruire. Ne risolveremo tanti altri, soprattutto se riusciremo a migliorare la loro distribuzione e utilizzazione. Resta però un male insuperabile: la morte.
    La nostra cultura ha esorcizzato la morte. Ne evita il confronto con tutti i mezzi. Non ne parla, per pudore o per buon gusto. Arriva persino a trasformarla in spettacolo, per deprivarla di ogni forza aggressiva e inquietante.
    Come reazione qualcuno ha imparato a giocare con la morte, in una spirale che trascina verso esperienze sempre più rischiose.

    Appartenenze deboli e selettive

    Il dato da costatare
    La complessificazione dei rapporti istituzionali produce un'altra situazione, caratteristica dell'attuale condizione giovanile: la persona appartiene a differenti aggregazioni sociali con ruoli attivi e diversificati. Riesce a convivere in questa situazione conflittuale, esprimendo una debole appartenenza. Il rapporto tra la persona e le diverse istituzioni diventa poco vincolante e scarsamente incidente per la strutturazione della personalità.
    L'istituzione viene spesso considerata prevalentemente in termini strumentali e funzionali. In questa logica sembra doveroso interpretare anche quel ritorno alla famiglia di cui documentano le più recenti ricerche e l'atteggiamento nuovo (rispetto ai tempi duri della contestazione) nei confronti della Chiesa e di altre istituzioni di controllo e di proposta.
    I giovani hanno così molteplici punti di riferimento, e spunta quella «reversibilità delle scelte» che tanto giustamente preoccupa. La pretesa di restituire una funzione totalizzante all'istituzione educativa e religiosa diventa oggi impraticabile.
    Vince il punto di riferimento dotato di maggior fascino.

    L'esito nella struttura di personalità
    È importante non dimenticare la funzione delle istituzioni formative e dei processi di socializzazione che esse assicurano, rispetto al significato dell'esistenza e alla personale collocazione nella cultura esistente.
    In una situazione come è quella appena descritta, la domanda sul senso assume connotazioni inedite.
    Riemerge violentemente il bisogno di fondamento, come esigenza di sopravvivenza.
    Molti giovani diventano così ricercatori appassionati di quel senso che non riescono più a possedere spontaneamente. Di qui l'insieme dei fatti che accompagnano il riemergere acuto della domanda di senso.
    La ricerca è però segnata da quella soggettivizzazione, che affiora ormai come componente di ogni espressione esistenziale.
    Il senso non si propone più alle persone come un dato da scoprire e da accogliere, perché residente nella struttura costitutiva della realtà. Esso è invece prodotto, momento per momento, nel frammento di vita che esprimiamo. Si passa così dal confronto con i «valori», intesi come indicatori del senso oggettivo del reale, alla ricerca di «valorizzazioni», come espressioni soggettive di quello che una persona valuta importante per sé.
    I quadri di riferimento restano di conseguenza molto soggettivizzati e i tracciati di coerenza personale risultano frammenti e incongruenti.
    Qualche volta, la soggettivizzazione dell'esperienza di senso è trascinata fino alle sue dimensioni estreme, nell'affermazione che quello del senso è solo un falso, inutile problema.

    Caduta della razionalità: l'esperienzialismo

    Il dato da costatare
    Uno degli esiti della 'diffusa situazione di complessità è lo smarrimento della virtù di ragionare in modo serio, a contatto con i fatti oggettivi. Non è solo un dato di fatto; esso è supportato da un'ampia giustificazione teorica.
    Siamo rimasti sommersi da una cultura che tutto gioca sul fascino dell'esteriore e sulla seduzione dei modelli. Nessun prodotto entra nel vortice della concorrenza sul peso dei suoi componenti e sulla capacità di risolvere problemi seri. Al contrario, si fa strada sulla promessa di prestigio, sul sorriso, se e quando sono utili. Sono utili perché servono a farti riconoscere dagli altri come uno che conta, che ha prestigio e potere.
    Certo, la crisi di razionalità non è solo sfascio e rovina. Il suo oscuramento ci ha fatto scoprire il limite di qualche comportamento che la forza dell'abitudine ci aveva spinto a considerare tranquillamente sano e corretto. Nel nome della razionalità fredda siamo riusciti infatti a fare le cose più tristi. Abbiamo giustificato le guerre e le oppressioni; abbiamo diviso gli uomini in classi e gruppi, armati gli uni contro gli altri; abbiamo schiacciato la fantasia e l'amore per ridurre tutto a calcolo e a profitto. Abbiamo persino costretto l'avventura della vita cristiana ad una fila di nozioni da conoscere a memoria e da ripetere alla lettera; l'abbiamo fatta diventare più simile al codice della strada che alla legge dell'amore.

    L'esito nella struttura di personalità
    Senza capacità di razionalità la persona diventa priva di interiorità. Priva di interiorità la persona è in balia dell'emozione e della seduzione, indifesa rispetto alla pressione sociale e al conformismo di gruppo e di clan.
    Razionalità è infatti: informazione, confronto, previsione e soprattutto accoglienza disponibile della forza interpellante della vita e delle sue esigenze.
    La persona, impegnata seriamente a ragionare, diventa un giudice imparziale, anche quando è lui stesso chiamato in causa. Si informa, ascolta, si confronta e guarda agli esiti: per emettere giudizi ponderati.
    Si libera il più possibile da tutti quei condizionamenti che inficerebbero la sua decisione. Accetta di rischiare, rinunciando alla logica comoda dei piedi in due staffe.
    Soprattutto si lascia impietosamente misurare dalla vita e dalle sue esigenze, consapevole che la verità verso cui è in cammino, è più avanti dei nostri passi più avanzati e, nello stesso tempo, ci avvolge tutti, come l'aria che respiriamo.

    L'esperienza religiosa

    Il dato da costatare
    Uno degli ambiti in cui è più forte l'impatto (perché meno controllabili sono le reazioni) è quello dell'esperienza religiosa (cristiana).
    Alcuni dati facilmente costatabili: fine di quell'atteggiamento di rifiuto violento dell'esperienza ecclesiale, caratteristico dei tradizionali modelli antireligiosi e anticlericali;
    - soggettivizzazione notevole: il rapporto con le persone dotate di autorità, le norme etiche, le pratiche ritenute necessarie, le espressioni... risentono dei modi di fare, delle sensibilità, del livello di consenso, riconosciuti nell'ambito del soggetto o, al massimo, della piccola collettività a cui appartiene;
    - aggravamento della crisi di significatività e rilevanza del linguaggio religioso; tentativo di ridurre l'esperienza religiosa alla sfera del privato (o personale o di qualche momento sociale programmato), sottraendo ad essa ogni diritto di presenza e influsso nel sociale.

    L'esito nella struttura di personalità
    Questa situazione nuova rimbalza con espressioni originali nella esperienza religiosa dei giovani: nel modo di porsi la domanda religiosa e nella espressione della stessa esperienza (per coloro che hanno riferimenti religiosi e/o li traducono in pratiche religiose).
    Una serie di constatazioni sono facili:
    - larga e diffusa «indifferenza religiosa» (da interpretare soprattutto come indifferenza rispetto alle proposte dell'istruzione ecclesiale);
    - caduta del valore direttivo delle norme etiche, proposte dalle chiese;
    - perdita del senso religioso come esito della perdita del gusto a porsi la questione del senso e del fondamento;
    - ripresa di una ricerca di esperienze religiose, capaci di saturare il bisogno di senso che emerge in espressioni personali. Le modalità sono diverse, a causa delle variabili differenti che influenzano il processo. Qualche volta queste modalità sono momenti diversi di una stessa esperienza.
    Ricordo quelle di più facile costatazione:
    * impegno di ricostruzione di una vita religiosa intensa, capace di coniugare la novità culturale con la fedeltà evangelica (modelli nuovi di spiritualità);
    * ricerca intensa e, qualche volta, affannosa di esperienze di spiritualità, per saturare una esigenza, riaffermata fortemente nonostante la secolarizzazione montante;
    * fioritura di movimenti religiosi (anche come reazione alla crisi in atto o al tentativo di burocratizzare, ancora una volta, l'esperienza religiosa);
    * tendenza a forte carica di fanatismo o di integrismo
    * modelli di nuova religiosità, fuori dalle chiese e secondo modalità culturali esoteriche, eclettiche, «naturalistiche», cosmologiche (tipico, a questo riguardo, il fenomeno New age).

    UNA VIA Dl USCITA?

    La mia riflessione si è concentrata sulla interpretazione educativa della situazione di complessità in cui viviamo e nel cui influsso progettiamo la nostra esistenza.
    Non posso però concludere senza rilanciare, in termini operativi, verso prospettive di intervento.
    Esse non sono finalizzate alla ricostruzione di un'isola felice, fuori dalla mischia della complessità, dove risolvere i problemi come se il pluralismo non esistesse.
    Riconosco, al contrario, che è necessario misurarsi con estrema disponibilità con questa situazione nuova e, per molti versi, inedita. È inutile e chiede costi educativi troppo elevati la pretesa di formare persone nello stile e nella logica dei modelli culturali trascorsi. Questa è infatti la grande sfida che la cultura lancia oggi agli educatori e alle comunità ecclesiali: è possibile vivere da adulti maturi e da cristiani consapevoli in situazione di complessità?
    Suggerisco qualche «preoccupazione».

    Dallo scontro al confronto

    Molti di noi hanno l'impressione di vivere come allo spartiacque di due mondi: uno sta tramontando e l'altro sta germinando. Siamo ormai in grado di costatare direttamente quanto, quasi trent'anni fa, la Gaudium et spes proponeva con sorprendente determinazione: «Le condizioni di vita dell'uomo moderno, sotto l'aspetto sociale e culturale, sono profondamente cambiate, così che è lecito parlare di una nuova epoca della storia umana» (GS 54).
    Quello vecchio è facilmente identificabile. Di quello nuovo percepiamo molti segnali, anche se spesso ci sfugge la trama complessiva.
    Come collocarsi in questa stagione di profondi cambi culturali?

    Lo scontro o la rassegnazione
    La linea tradizionale ha risposto spesso con sufficiente sicurezza: si tratta di far acquisire quello che le persone devono interiorizzare per il loro bene, reagendo, in modo deciso, alle crisi in atto. In fondo, questo è il compito e la responsabilità dell'educazione. Al massimo, si può concedere qualche adattamento, possibilmente provvisorio, in attesa dei tempi migliori.
    Di fronte al nuovo scatta così un atteggiamento «deduttivo»: quello che è sempre stato fatto va difeso con forza e offerto con paziente fermezza e senza indebiti aggiustamenti.
    Gli ultimi trent'anni sono stati caratterizzati dalla rivincita del modello opposto: quello «induttivo» (per usare ancora espressioni di comodo). Esso fa dell'esistente il principio del bene e del male. Affida alle situazioni e ai giudizi soggettivi la funzione di definire i progetti.
    Del modello induttivo conosciamo oggi tutti i limiti, dopo i grossi disastri educativi che ha scatenato. Quello deduttivo è continuamente minacciato dal rischio di non distinguere sufficientemente tra fede e cultura.

    Un'alternativa
    C'è un'alternativa a questi due modelli?
    Sotto la spinta della riscoperta dell'Incarnazione (DV 13), di fronte ai valori, ai progetti, ai contenuti che appaiono come normativi, compresi quelli della stessa fede, abbiamo imparato a distinguere tra il contenuto e le sue espressioni linguistiche.
    L'educazione e l'educazione alla fede è chiamata a misurarsi con le esigenze della verità, perché nessuna ricerca di nuovi tracciati può essere condotta a scapito della verità. Queste esigenze non si presentano però mai allo stato puro. Per essere dette a persone segnate dalla cultura in cui vivono, devono per forza assumere espressioni di tipo culturale.
    È così per Gesù di Nazareth, volto e parola di Dio nella grazia della sua umanità. È così per la parola di Dio che si fa parola per l'uomo diventando parola d'uomo.
    Non può che essere così anche per i valori educativi e i contenuti della fede. Quelli che possediamo e siamo chiamati a testimoniare sono, nello stesso tempo, espressione dei modelli culturali presenti e dominanti in un certo momento della storia e indicazioni di eventi normativi, da assumere con piena disponibilità e da cui lasciarsi giudicare e inquietare.
    Questa consapevolezza sollecita ad una doppia esigenza. Da una parte, va verificato il progetto educativo e pastorale di cui siamo testimoni a partire dalla cultura attuale e dai profondi cambi in atto, per non correre il rischio di far passare come normativo ciò che invece è soltanto residuo nostalgico del passato.
    Dall'altra, è indispensabile rileggere la cultura attuale, in tutte le sue espressioni, a partire dalla «memoria pericolosa» della nostra tradizione ed esperienza pastorale, per inserire nel cuore dell'esistente un principio «oggettivo» di valutazione e di critica.
    L'esito del doppio confronto è la costruzione, sicura e provvisoria nello stesso tempo, di un progetto rinnovato di esistenza umana e cristiana. Esso ci permette di essere fedeli al passato e spalancati verso il futuro.
    In che modo? Qui si pone la seconda preoccupazione.

    La fiducia nell'educazione

    Sappiamo di vivere in una situazione di crisi, drammatica e complessa. L'uomo è al centro di una trama di relazioni politiche, economiche, culturali che lo condizionano e spesso lo soffocano. Ci chiediamo cosa fare per restituire all'uomo vita e responsabilità, speranza e capacità di guardare verso il futuro.
    Le regioni della crisi sono molte. La loro elaborazione richiede interventi molteplici e articolati. La coscienza della complessità può però spegnere ogni possibilità concreta di azione.
    Noi scommettiamo sull'educazione come forza di trasformazione, culturale e sociale.
    Rendere l'uomo felice, restituendogli la gioia di vivere, è una piccola cosa nella mischia delle sopraffazioni, degli intrighi, degli sfruttamenti, delle violenze. La nostra fiducia sull'uomo, sconfinata perché a fondamento religioso, ci spinge però a riconoscere un grosso dato: colui che è riconsegnato alla sua responsabilità, alla gioia di vivere e alla capacità di sperare, diventa capace di impegnarsi a tutti i livelli, verso un rinnovamento globale della società.
    L'educazione ha la pretesa di restituire l'uomo a se stesso. Lo rende così artefice, serio, competente, coraggioso, della trasformazione. Per questo la consideriamo una forza politica, incidente ed efficace.
    Certo, non è l'unica. Spesso può risultare improduttiva e alienante, soprattutto se viene vissuta come alternativa rispetto alle altre modalità e agenzie di azione.
    Produce però qualità di vita e strutture nuove se produce uomini nuovi, restituiti alla propria responsabilità e ad una inesauribile capacità progettuale. La persona viene così sollecitata a scoprire le sue aspirazioni più autentiche e promozionali, e a realizzarle con creatività, nel confronto interpellante con le libertà e le attese degli altri uomini e nel realismo delle diverse mediazioni istituzionali.
    Vale davvero la pena di impegnare nell'educazione energie e risorse.

    Un educatore capace di «provocare»

    La vita e la speranza non sono mai il frutto delle parole che noi pronunciamo né della loro, alta o bassa, credibilità. Sono invece un dono da accogliere Ci vengono da lontano: da un mistero a cui dobbiamo affidarci, come il bimbo si getta nell'abbraccio della madre.
    Possiamo fare tante cose per rendere giustificato questo abbandono. Nessuna delle nostre parole e nessuno dei nostri gesti può dare però ciò che conquistiamo solo nel momento in cui accettiamo di perderci nell'abisso sconfinato di un mistero che si sovrasta.
    L'educatore è chiamato a spalancare verso l'inedito e l'inatteso, facendo sperimentare la vertigine e il tremito dello stupore.
    Come possiamo realizzare questo compito, in una cultura dove tutto è previsto e dove tutto porta a mettere sotto silenzio quello che non riusciamo a governare?
    Mi sembra importante rilanciare una esigenza che ha percorso la nostra tradizione educativa, modificandone però radicalmente il punto di prospettiva: il confronto inquietante con la morte.
    È urgente infatti inquietare, per sollecitare le persone a rompere il proprio orizzonte ristretto e spalancarsi verso l'inedito. Ma è ugualmente urgente farsi provocare solo dai problemi «veri», per non ripercorrere in educazione la via della seduzione che purtroppo domina la nostra cultura.
    La nostra tradizione educativa ha fatto largo uso del confronto con la morte. L'abbiamo fatto però cercando di mettere in crisi la vita o almeno la sua pretesa di bastare a se stessa. La cultura attuale, al contrario, esorcizza il tema della morte, con tutti i mezzi di cui dispone.
    Per reagire a questo modo di fare, senza ritornare agli schemi del passato, è importante pensare alla morte a partire dall'amore alla vita. La morte lo mette in crisi: sembra fatta apposta per sottrarci il diritto di amare la nostra vita.
    Essa infatti produce un distacco obbligato e irrevocabile dalle cose e dalle persone. Recide, in ultima analisi, la trama quotidiana della vita. Ci sono ragioni da vendere per disperarsi. Che senso ha un'esistenza che si conclude in una costrizione senza appelli ad abbandonare tutto quello che è stato amato, costruito, realizzato? Possiamo amare una vita, protesa verso un esito tanto triste e ingiusto?
    Il confronto con la morte ci consegna intensamente alla verità. Il processo formativo ritrova l'oggettività perduta e mette a contatto con esigenze su cui davvero non si può giocare a rimpiattino.
    Non lo fa dall'alto di sicurezze fredde e impersonali. Parte dalla vita per tornare alla vita: da quella vita che è veramente la cosa più oggettiva che ci sia, proprio nella espressione più grande della sua soggettività.
    Un giovane che definisce la propria identità accettando questa provocazione, può finalmente riscoprire quella capacità di affidamento, che ho posto al centro dell'esperienza religiosa.
    Colui che vive, si comprende e si definisce quotidianamente in una reale esperienza di affidamento, accetta la debolezza della propria esistenza come limite invalicabile della propria umanità. E si consegna all'unico fondamento, che è soprattutto sperato, che sta oltre quello che possiamo costruire e sperimentare.

    Raccontare storie che aiutino a vivere

    Alle domande di sempre, riformulate in tutta la loro autenticità e a quelle nuove che salgono da una esistenza riconquistata, l'educatore ha il compito di offrire risposte, capaci di risuonare ancora come «bella notizia».
    Anche qui l'esigenza non corre subito nella direzione dei «contenuti». So che sono importanti e qualificanti. Ma essi sono generalmente interpretati sul modo con cui vengono comunicati. Per questo concentro le ultime mie battute sulla relazione comunicativa.
    Ridisegno la figura dell'educatore (e dell'educatore religioso, in modo specialissimo) nella proposta di diventare persone che sanno «fare proposte», raccontando storie che aiutano a vivere.
    L'ipotesi riporta, nella sua prassi quotidiana di testimone delle esigenze più radicali della vita, lo stile con cui sono stati costruiti i vangeli dalla fede della comunità apostolica, sotto l'ispirazione dello Spirito di Gesù.
    La parola dell'educatore è sempre un racconto: una storia di vita, raccontata per aiutare altri a vivere, nella gioia, nella speranza, nella libertà di ritrovarsi protagonisti.
    Nel suo racconto si intrecciano tre storie: quella narrata, quella del narratore e quella degli ascoltatori.
    Racconta i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell'esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.
    Ripetere questo racconto non significa però riprodurre un evento sempre con le stesse parole. Comporta invece la capacità di esprimere la storia raccontata dentro la propria esperienza e la propria fede.
    Per questo l'educatore ritrova nella sua esperienza e nella sua passione le parole e i contenuti per ridare vitalità e contemporaneità al suo racconto. La sua esperienza è parte integrante della storia che narra: non può parlare correttamente della vita e del suo Signore, senza dire tutto questo con le parole, povere e concrete, della sua vita.
    Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae al silenzio freddo dei principi e la immerge nella passione calda della salvezza.
    Dalla parte della salvezza, anche i destinatari diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l'unica storia.
    In forza del coinvolgimento personale l'educatore non fa proposte rassegnate. Chi narra per la vita, vuole una scelta di vita. Per questo l'indifferenza tormenta sempre l'educatore religioso. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.


    NOTA

    [1] «L'immagine di una realtà ordinata razionalmente sulla base di un fondamento è solo un mito rassicurativo proprio di una umanità ancora primitiva e barbara. [...] La nostalgia di una realtà solida, unitaria, stabile e autorevole... rischia di trasformarsi continuamente in un atteggiamento nevrotico, nello storico di ricostruire il mondo della nostra infanzia, dove le autorità familiari erano insieme minacciose e rassicuranti. [...] Caduta l'idea di una razionalità centrale della storia, il mondo della comunicazione generalizzata esplode come una molteplicità di razionalità locali minoranze etniche, sessuali, religiose estetiche che prendono la parola, finalmente non più tacitate e represse dall'idea che ci sia una sola forma di umanità vera da realizzare» (G. Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, 15-17).


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