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    L'associazionismo giovanile: dinamiche sociali, politiche e culturali



    Paolo Montesperelli

    (NPG 1994-01-58)


    In questo articolo mi preoccuperò soprattutto di individuare tendenze medie, ben sapendo che qualsiasi lettore può controbattere citando mille eccezioni e mille fenomeni che si discostano da quella media.
    Questa mia scelta si riflette anche sul piano terminologico. I lettori più attenti noteranno subito — a ragione — che i termini «associazione», «gruppo», «aggregazione», ecc. sono usati come sinonimi Anche in questo caso chiedo un po' di pazienza, ma mi sembrerebbe troppo pesante, e forse qui inutile, articolare di più la mia analisi.

    Alcuni dati sulla partecipazione all'associazionismo

    Penso che sia opportuno iniziare con una «carta di identità» della partecipazione giovanile all'associazionismo, ossia con alcuni dati che caratterizzano le linee fondamentali di questo fenomeno. Secondo la ricerca condotta dallo IARD nel 1986, più dell'80% dei giovani fra 15 e 24 anni frequenta almeno un gruppo di amici.
    Si tratta, naturalmente, di una forma aggregativa molto fluida, spontanea; ma anche le associazioni più istituzionalizzate, quelle che forse qui ci interessano di più, raccolgono la metà dei giovani, una percentuale cioè assai alta.
    La presenza più diffusa delle associazioni copre l'area del Nord-Est e del Centro d'Italia; questa quota diminuisce nel Nord-Ovest e soprattutto nel Sud del nostro Paese. Si potrebbe affermare che la maggiore concentrazione nel NEC è legata al fatto che in questa area sono più marcate le culture politiche, ossia quella «bianca» e quella «rossa»; un maggiore fermento ideologico potrebbe allora agevolare una più intensa attività associativa nella società civile.
    n realtà questa spiegazione lascia insoddisfatti. Infatti le tradizionali identità politiche vivono una fase di profonda crisi: non a caso, per esempio, la partecipazione ad associazioni religiose non è più alta nel Veneto «bianco» rispetto al Centro «rosso». Forse le ragioni risiedono, invece, nel particolare tessuto socio-economico della «terza Italia», nell'intreccio fra economia periferica e società civile, in una più solida tradizione associativa.
    Rispetto ad un recente passato, in linea di massima è maggiore il numero delle aggregazioni, ciascuna delle quali mediamente è più grande, più aperta (vi è un notevole ricambio di aderenti), più mista (ragazzi e ragazze sono compresenti in percentuale simile).
    Sempre rispetto ad un recente passato, una maggiore capacità aggregativa la dimostrano i gruppi di pratica sportiva e quelli parrocchiali; una ripresa visibile, anche se meno consistente, riguarda le associazioni religiose (come ad esempio l'Agesci) e quelle culturali.
    Tuttora i giovani sembrano privilegiare, in ordine di preferenza, l'associazionismo sportivo, quello religioso e le aggregazioni legate alla vita scolastica. Sul versante opposto, fra le organizzazioni politiche, soprattutto quelle più tradizionali.
    La proposta associativa non riesce a coinvolgere tutti i giovani ma, di fatto, privilegia gli studenti e, qualche volta, gli studenti-lavoratori; chi si aggrega di più sono coloro che hanno un livello abbastanza alto di consumi culturali, i giovani che oltre a guardare la tv leggono quotidiani e libri, vanno a teatro o ai concerti. L'associazionismo raccoglie adesioni anche fra quei ragazzi pronti a muoversi, a non restare al chiuso delle mura domestiche ma ad aprirsi ad altre sollecitazioni esterne.
    Coloro che, invece, non entrano nelle associazioni si trovano in una situazione di marginalità culturale; si tratta di giovani esclusi dalla scuola e dal lavoro, di teledipendenti, di persone con una ridotta vita di relazione, degli insoddisfatti verso la vita e verso le amicizie, di chi non ha un gruppo fisso di amici, di quelle personalità poco attive e alquanto stressate. Se consideriamo il sesso, possiamo notare che significativamente dentro questa area della marginalità troviamo più ragazze che ragazzi.

    Perché si sviluppa l'associazionismo giovanile

    Come abbiamo visto, una parte sempre più consistente di giovani è interessata a riunirsi con altri coetanei. Le cause di questo fenomeno a me sembrano soprattutto due.
    La prima riguarda i mutamenti nei processi di socializzazione. Nella sua funzione di agenzia di socializzazione, un tempo la famiglia costituiva un perno centrale, intorno al quale ruotavano le altre agenzie; ciò garantiva una situazione sociale e culturale integrata ed omogenea.
    Oggi, invece, ci troviamo di fronte ad una società «policentrica», nella quale vi sono molte più agenzie e, soprattutto, ciascuna tende a far concorrenza alle altre. Ad esempio in Italia il giovane medio frequenta di più la scuola che la famiglia; ma sta più di fronte alla tv che davanti alla cattedra.
    Una situazione policentrica è anche molto meno omogenea. All'interno di una stessa agenzia possono transitare contenuti, valori, linguaggi ben diversi l'uno dall'altro. Per esempio, se consideriamo, all'interno della scuola, i «messaggi» che provengono dagli insegnanti, dai libri di testo e dai gruppi giovanili, probabilmente avremo una conferma di questa accentuata eterogeneità.
    Inoltre sui canali «verticali» di socializzazione (genitore-figlio, insegnante-studente, ecc.) man mano prevale l'interazione orizzontale, la relazione fra pari. Così alla famiglia si sostituiscono le varie forme di «fratellanza extra-familiare», le aggregazioni di coetanei che spesso funzionano come una fucina di nuovi valori, di nuovi orientamenti, quali l'estraneità rispetto alle generazioni degli adulti, la rielaborazione degli orientamenti delle leve attigue interne ad una stessa generazione, i riferimenti verso cui identificarsi, i -linguaggi da adottare, le bussole utili per orientarsi nelle scelte, i sogni da coltivare per continuare a vivere, le aspettative da condividere, ecc.
    Dunque dentro questo quadro generale si vengono a creare le condizioni particolarmente propizie per la diffusione delle varie forme di associazionismo giovanile
    Un'altra causa che spiega un tale successo deriva dalla capacità delle aggregazioni di attribuire al singolo una propria identità. Il giovane aderisce a un gruppo innanzi tutto se in esso «si sta bene insieme»: ciò significa che in quel gruppo ci deve essere anche un riconoscimento reciproco.
    Una situazione di incertezza, di policentrismo, di complessità rende preziosa l'offerta di identità, di un senso di appartenenza, di criteri di giudizio condivisi, soprattutto quando ciò consente di segnare una discontinuità rispetto alla realtà esterna.
    Come dichiarava una ragazza a proposito del rapporto fra la famiglia e il gruppo giovanile, «è importante vedersi continuamente riprodotti negli altri, per giudicarsi. Quel che conta è essere fuori della cornice familiare, in un ambiente veramente solo nostro».
    Per i giovani avere un proprio gruppo è come salpare tutti insieme verso nuovi orizzonti, «verso l'isola che non c'è». L'importante, comunque, è solcare nuovi mari e farlo insieme, per sperimentare tragitti diversi; per partecipare ad una nuova avventura tutti insieme, perché per le nuove generazioni è fondamentale il valore della relazione interpersonale; ma anche perché i grandi viaggi fanno cadere le maschere, restituiscono un'autenticità che è un altro valore particolarmente sentito.
    Lo stesso significato di una avventura esistenziale può rivestire una scelta musicale condivisa dagli altri coetanei.
    Ogni singolo happening può essere concepito come una importante tappa di questo itinerario; come afferma Lyotard, in un concerto non si paga più solo per ascoltare musica, ma anche per essere pubblico. Si paga per entrare in una riserva, in una «zona franca» ove quasi tutto è permesso.

    Le caratteristiche dell'appartenenza giovanile

    Giunti a questo punto, bisognerebbe chiarire meglio la qualità della partecipazione giovanile all'associazionismo.
    Un primo aspetto riguarda la «pluri-appartenenza», cioè il fatto che i rapporti con le associazioni non sono solo diffusi ma anche intensi: infatti molti giovani appartengono a due o più aggregazioni e ben 1/4 di loro frequenta contemporaneamente più di tre associazioni.
    La pluri-appartenenza presenta molti risvolti positivi ma provoca non pochi problemi alle associazioni. Molti organizzatori si lamentano dei giovani che «fisicamente sono alla riunione, ma mentalmente sono altrove».
    Inoltre il «pendolare» fra un gruppo e un altro diviene portatore di «pezzi» di identità, di riferimenti attinti un po' ovunque. La pluri-appartenenza crea dunque una rete di scambi, spesso non voluti esplicitamente, che possono rendere l'identità di ogni gruppo precaria, instabile, mutevole.
    Inoltre il giovane aderente è sempre più esigente verso la propria associazione, alla quale però dà sempre di meno. Infatti se la pluri-appartenenza e il pendolarismo sono presenti in maniera marcata, allora le risorse del giovane (per esempio il suo tempo libero) sono contese fra le molteplici appartenenze. Ciò rende quelle risorse molto preziose per il giovane stesso: non possono essere sprecate, vanno attentamente amministrate, oculatamente distribuite, evitando sperperi e sperequazioni.
    Così il giovane diviene esigente, spesso addirittura impaziente. A sua volta l'associazione non può rispondervi adeguatamente perché può contare solo su collaborazioni scarse, fugaci, distribuite fra molte altre esperienze esterne. Insomma, per far fronte a grandi attese le risorse disponibili sono poche, e questo naturalmente costituisce un problema molto serio per un gran numero di associazioni.
    Tutto ciò accentua una certa distanza del giovane dalla associazione. La sua diventa un'adesione condizionata, sempre provvisoria, una vicinanza che però non annulla un margine di distanza, di non completa identificazione. Questo atteggiamento rientra in un orientamento più generale che tende a mantenere costantemente una «differenza» rispetto a qualsiasi appartenenza.
    L'associazione, il gruppo è importante per il giovane: gli altri lo riconoscono, non lo escludono. Ma sa che deve evitare il rischio opposto: identificarsi a tal punto, essere accettato così tanto da appiattirsi, da annullarsi negli altri, da diventare anonimo; c'è il rischio, insomma, di rinunciare alla propria differenza, al proprio irriducibile vissuto, alla propria particolare biografia che egli solo ha fatto, perché egli solo ha ricomposto un personalissimo mix fra tante appartenenze.
    Accanto alla ricerca dell'identità, dunque, vi è anche la difesa della propria differenza. Questo è ancora più evidente nel rapporto fra associazioni: ogni gruppo giovanile cerca uno specifico look, un linguaggio tutto suo, uno stile di vita che lo identifichi all'interno e lo renda differente dagli altri gruppi.
    La costante oscillazione fra identità e differenza segna un'identità debole, non necessariamente fragile; essa è l'esito di uno stretto intreccio fra processi associativi e tendenze dissociative, fra costruzione e decostruzione costante (si pensi a quanto sia diffusa la diffidenza verso tutto ciò che è predefinito, istituzionalizzato troppo rigidamente, verso le definizioni totalizzanti, i codici pre-confezionati: compresi i riti associativi, gli itinerari obbligati, le grandi strutture burocratiche).

    La dimensione politica

    Se l'associazionismo in qualche modo è la cassa di risonanza di questa «cultura della differenza», ciò non significa che esso stesso amplifichi gli orientamenti più disincantati, le strategie di piccolo cabotaggio. Secondo alcune ricerche degli anni '50 e '60, le «aggregazioni di pari» spesso erano talmente isolate ed autocentriche da diffondere nei giovani atteggiamenti di indifferenza e di aggressività, quando non di vera e propria devianza.
    Invece le ricerche più attuali dimostrano il contrario. Una maggiore esperienza associativa porta il giovane ad aprirsi di più, ad essere più sensibile, a coltivare maggiormente i propri interessi culturali. Questo tipo di giovane dimostra una progettualità aperta agli altri, una maggiore idealità, una più spiccata autonomia critica, una capacità di organizzare meglio la propria vita, il tempo quotidiano e i propri orientamenti morali.
    Insomma, l'esperienza associativa può svolgere un importante ruolo formativo, può consentire una più matura elaborazione di valori, può costituire una significativa funzione culturale. Ma tutto ciò non vuol dire necessariamente che sia anche in grado di offrire spazio ad una formazione politica; infatti, a parere di alcuni, proprio l'impegno politico sarebbe particolarmente assente fra i giovani.
    Secondo Touraine ogni nuovo soggetto politico appare, almeno inizialmente, portatore di una semplice contestazione culturale. Esso si preoccupa solo di far accettare il proprio «vivere altrimenti». La mia ipotesi è che ci troviamo in questa fase iniziale, nella quale l'impegno culturale e la tensione etica anticipano, e accompagnano, un modo diverso di intendere la politica.
    Il «vivere altrimenti» della cultura giovanile esprime la sua «politicità» attraverso domande radicali sulla nascita e sulla morte, sulla salute, sul rapporto con la natura, sull'identità e sulla differenza. Certamente nelle nuove generazioni si riscontra uno scarsissimo interesse per la «conquista del potere»; ma si registra anche una ben maggiore attenzione per controllare immediatamente le condizioni dell'esistenza quotidiana, per rendere i propri spazi e i propri tempi indipendenti da quelli del «sistema». A sua volta, questo sistema politico non riesce nemmeno a udire quelle domande, perché per farlo dovrebbe cambiarsi le orecchie.
    Gli stessi giovani fino agli anni più recenti non consideravano affatto politiche queste domande. L'indagine IARD del 1988 notava che soprattutto fra i 15- 17enni il giudizio sulla politica era drasticamente negativo. Ma i dati consentivano di aggiungere che proprio quei 15- 17enni erano i giovani più impegnati in iniziative oggettivamente politiche: petizioni, assemblee, marce, manifestazioni, organismi scolastici, ecc. Per ogni giovane che si dichiarava politicamente impegnato, ce n'erano almeno altri tre che facevano politica ma non la consideravano tale.
    Oggi, dopo il «Movanta», l'ulteriore sviluppo del volontariato, l'impegno anti-mafia, ecc. vi è un riconoscimento esplicito del valore della politica, soprattutto della sua eticità. Questo perché nelle ultime generazioni i punti di riferimento non sono le sconfitte subite dal '68 e dal '77, e dunque non pesano le conseguenti frustrazioni. Almeno per ragioni anagrafiche, il punto di riferimento delle nuove generazioni è la crisi del sistema politico, è un ceto politico squalificato, sono gli intrecci fra politica, affari e mafia. Per questo nei nuovi giovani ritorna la voglia di darsi da fare per cambiare, e non di lambirsi le ferite (come invece accade ai loro genitori o ai loro fratelli maggiori).
    Anche sul piano organizzativo l'impegno politico si esprime in profili diversi. Le forme di mobilitazione rispecchiano le caratteristiche della solidarietà interna; l'aggregazione è puntuale, cioè si coagula intorno ad un obiettivo determinato, ben specifico. Invece di perseguire strategie a lungo termine, si preferisce l'impegno più realistico nel presente. Gli obiettivi collettivi e i bisogni affettivi devono coincidere più possibile.
    Se seguiamo lo sviluppo delle rivolte giovanili, troveremo che esse assumono un andamento carsico: appaiono per un certo periodo di tempo, per poi reimmergersi fino a far perdere le proprie tracce. I momenti di più grande visibilità sono possibili grazie a precedenti fasi di latenza, che preparano la mobilitazione, intrecciando reti di solidarietà e di comunicazione.
    Del resto tale ciclicità non è l'eterno ritorno, non ripropone sempre le stesse cose, ma si evolve attraverso profondi mutamenti che non sono solo culturali. Ad esempio, anche dal punto di vista semplicemente quantitativo, rispetto al passato si è ristretto il nocciolo duro dei giovani militanti politici, ma si è allargata la polpa dei giovani almeno saltuariamente impegnati.

    La comunicazione

    Un'altra caratteristica rilevante è l'uso della comunicazione, intesa quasi come fosse una sfida. A me pare che nei giovani coesistano la paura e il desiderio di comunicare.
    Il linguaggio gergale serve a difendersi dagli intrusi. Anch'esso, come la partecipazione ad un'associazione, deve segnare al contempo un'identità e una differenza. Se il linguaggio giovanile fosse completamente compreso dagli adulti, ci sarebbe il rischio di renderlo controllabile, dominabile dalle altre generazioni. È meglio, allora, mantenere una gergalità difensiva.
    Questa posizione è rafforzata anche dall'uso che le altre generazioni troppo spesso fanno dei giovani. Sovente i giovani vengono accusati di colpe che sarebbe meglio attribuire agli adulti. Ad esempio, proprio quando i giovani venivano più accusati di essere cinici e menefreghisti, disimpegnati e assenti, il sistema politico (composto dagli adulti) viveva una delle sue fasi meno gloriose. Sarebbe stato più corretto attribuire alla realtà politica le caratteristiche che invece venivano imputate ai giovani.
    Insomma i giovani vengono spesso usati per riflettere, come in uno specchio, le attese e le frustrazioni, le definizioni e i silenzi dei loro padri. Per evitarlo, le nuove generazioni, almeno dall'85 in poi, hanno reso più opaco quello specchio, sono diventati più enigmatici, allusivi, difficilmente comprensibili, sfuggenti.
    D'altro canto nelle nuove generazioni si può riscontrare anche un grande desiderio di comunicare o per lo meno un'acuta sensibilità verso la comunicazione. Se, come ho prima accennato, la cultura è un terreno di contestazione, di scontro, la comunicazione ha un ruolo fondamentale in questa cultura.
    I giovani, infatti, si rivelano soggetti attivi della comunicazione. Forse la loro è la generazione più in grado di plasmare la comunicazione, di trafficarci, di giocarci, di ritradurla. Essi sono anche soggetti creativi della comunicazione. Pensiamo alla produzione di immagini visive nei loro giornalini o in altri «mass-media» artigianali, «underground»; si pensi ai loro cortei che ben presto si trasformano in feste semoventi; all'ironia, al gusto di scompone e ricomporre il linguaggio; si consideri il ruolo affidato alla comunicazione musicale, ai concerti che esprimono, accompagnano e valorizzano le più importanti scadenze politiche.
    Probabilmente essi cercano di non separare parola ed emozioni, di riportare nel linguaggio l'esperienza «calda», esistenziale di ciascuno, a fronte invece della parola fredda, formalizzata, ripetitiva, burocratica dei partiti, dei sindacati e perfino di qualche associazione che scimmiotta i partiti.
    Quella pluri-appartenenza che ho prima accennato si riverbera sullo stesso linguaggio, il quale diventa molto sincretista; è una «macedonia» di tanti riferimenti: i vecchi movimenti studenteschi, la satira amara del post-'77, la spensieratezza goliardica, alcune tinte esistenzialiste, dadaiste, vitaliste, qualche frammento «radical» o «liberai», i fumetti e la televisione (soprattutto quella trasgressiva), i vari gerghi, ecc.

    Il ruolo dell'educatore

    Lo scenario che ho fin qui descritto comporta molti interrogativi per chiunque voglia svolgere un'azione educativa di animazione nei gruppi giovanili. Purtroppo sono in grado di offrire solo pochi suggerimenti, qualche considerazione aggiuntiva, maturata più per esperienza personale che sui libri.
    Fin qui ho descritto una realtà oggettivamente complessa. A mio avviso, un primo sforzo dovrebbe essere quello di non semplificare troppo la complessità, di cercare di attraversarla senza cercare subito le scorciatoie. Naturalmente una certa semplificazione è necessaria se vogliamo capire qualcosa; ma a me pare che troppo spesso si tenda a ricollocare tutto entro chiavi di lettura eccessivamente schematiche, forse per nostalgia rispetto ad un passato più semplice e meno complesso.
    In effetti stenta ad affermarsi una «cultura della complessità»; molti temono che questa cultura significhi inseguire ciascun frammento fino a frantumare se stessi e la propria progettualità. Certamente per evitare questa frammentazione occorre ricondurre la complessità a una certa unità, ma anche in questo caso bisogna intendersi sul significato da dare a questa unità. Prima di un'unità intorno ad una proposta organica, prima di una sintesi culturale ben definita (che corre il rischio di essere troppo riduttiva), forse c'è un'unità ancora più «a monte» che sta nello scoprire, tutti insieme, i limiti della propria esistenza.
    Come l'esperienza della morte rinvia alla mia finitudine, così l'esistenza dell'altro segna i miei limiti In un rapporto di dominio, di possesso, l'altro non segna niente, è solo una mia appendice, un prolungamento secondario della mia esistenza. La logica del dominio è proprio quella che vuole omologare, ridurre l'altro al medesimo, ignorarne la differenza.
    Riconoscere l'altro nella sua alterità, invece, ha dei profondi risvolti che implicano la dimensione della criticità (il confronto attraverso l'altro), dell'etica (il riconoscimento del valore dell'altro) e perfino in qualche modo della dimensione mistica (l'altro non è mai fino in fondo esperibile).
    L'unità sta, allora, in una reciproca con-passione, che non è affatto una banale commiserazione reciproca; si ha compassione quando condivido la passione comune per una esistenza che mi sprona alla ricerca costante, proprio perché costantemente mi sfugge. Queste mie considerazioni, così sintetiche, vorrebbero solo suggerire qualche cautela verso un'unità prematura, disattenta ad una complessità che è, al tempo stesso, esistenziale, sociale e personale. Mi parrebbe rischioso, ad esempio, proporre ai giovani un insieme organico e pre-definito di norme morali o di credenze religiose tenute insieme da una dose eccessiva di certezze.
    Per un certo periodo di tempo questo metodo può funzionare, ma se la complessità riprende il sopravvento, se essa squarcia quelle certezze, può provocare nei giovani un rifiuto radicale dei contenuti, delle persone che hanno proposto quei contenuti e di ciò che queste persone rappresentano.
    Certamente il compito dell'educatore è difficile e ingrato: egli deve seminare, ma non sta a lui decidere quando verrà la stagione della raccolta. Per cercare di seminare bene e prima di raccogliere, è utile domandarsi che cosa i giovani chiedano agli educatori.
    A mio parere essi vorrebbero che gli educatori in primo luogo si misurassero con i linguaggi giovanili. Troppo spesso l'adulto indossa il casco del colonialista e cerca di esplorare il mondo giovanile mantenendo i propri linguaggi e la propria mentalità. Invece, cercare di comprendere il linguaggio giovanile, i suoi termini, le sue forme espressive significa adottare un'ottica completamente diversa.
    Sovente l'incomprensione fra generazioni è data proprio da un uso diverso degli stessi termini. Sarebbe importante redigere un vocabolario per tradurre un linguaggio nell'altro, e forse questo potrebbe essere un meritorio compito degli animatori. Ben sapendo, però, che ogni traduzione è, almeno in parte, tradimento; ossia che non esiste mai la possibilità di una traduzione completamente fedele. Un secondo sforzo è quello di mantenere una propria autenticità. Anche qui un desiderio di unità troppo frettoloso può giocare qualche brutto scherzo.
    Non mi pare che i giovani chiedano all'adulto di mostrarsi «un uomo tutto d'un pezzo». Almeno da Freud in poi, sappiamo bene che ciascun soggetto è la risultante di una dialettica, di una tensione conflittuale fra più entità interne e che ogni unità è comunque molto precaria. Questa pluralità interna muta in continuazione, ci spinge ad una ricerca costante di noi stessi e degli altri, in un itinerario che non finisce mai, che costringe a non arroccarsi, a non occultarsi.
    I giovani chiedono autenticità: l'educatore non deve aggrapparsi ad una cassaforte dentro la quale nascondere se stesso e la propria fragilità. Essi gli chiedono, invece, di accettare un cammino con lo zaino in spalla, pronto ad accamparsi in maniera sempre temporanea.
    Infine, a mio avviso, l'educatore dovrà essere autorevole senza diventare autoritario. Non mi pare che i giovani gli chiedano di civettare con loro, non è questo che vogliono, e del resto sono sempre molto abili a smascherare i bluff dell'adulto. Ma non vogliono neppure l'autoritarismo, l'«ipse dixit», la logica del dominio e del possesso che ho richiamato poco sopra. L'autorità non è nulla di tutto ciò. L'autorità si fonda sul mutuo riconoscimento dei bisogni dell'altro. Il modello più evidente di autorità è il rapporto che può venirsi a stabilire fra la madre e il lattante. Come la madre risponde a tanti bisogni del bambino, così quest'ultimo le soddisfa i bisogni affettivi e fisici legati alla suzione del latte materno. Sarebbe autoritaria la madre che non riconoscesse questa reciprocità del rapporto e considerasse il figlio totalmente dipendente da lei; invece l'autorità si fonda su un mutuo riconoscimento che l'altro soddisfa i propri bisogni.
    In termini diversi, l'autorità dell'animatore deve misurarsi fino in fondo non solo con i bisogni dei giovani ma anche (e forse questo è ancora più duro) con i propri bisogni. In tal senso l'esperienza dentro un gruppo giovanile diventa educativa innanzi tutto per l'animatore. Il suo gruppo gli dà speranza (un animatore depresso o pessimista non è mai un bravo animatore).
    Questa speranza non si affida solo alle buone intenzioni, più o meno fragili; ma alla maturità di riconoscere che il gruppo può rispondere ad alcuni suoi bisogni. Più tali bisogni sono per lui importanti, e maggiore sarà la possibilità di trarre speranza.

    Conclusioni

    Un discorso parallelo riguarda anche il rapporto fra i giovani e il gruppo, che pure in questo caso è segnato dalle ragioni della speranza. Dentro i confini di ogni singola associazione si deve anticipare un futuro migliore. Nella compagnia del proprio gruppo si vuole sperimentare già da ora il cambiamento possibile. È una speranza «realista», perché non si vuole sacrificare il presente ad un improbabile futuro perfetto. La volontà è comunque quella di sperimentare nel qui-ora la speranza.
    Ciò non significa necessariamente limitare la propria attenzione, la propria sensibilità al micro-mondo del gruppo. Anzi, spesso nel piccolo, in questo qui- ora si vuole percepire anche la dimensione più grande, perfino quella planetaria. Il gruppo è quel veliero con cui salpare verso nuovi mari, non una riserva indiana fissa e circoscritta.
    Come ho accennato, sono molte le turbolenze che attraversano l'associa- sionismo, il rapporto mai facile fra presente e futuro, fra realismo e speranza, fra il piccolo e il mondo. L'insieme di queste turbolenze impedisce a troppo facili certezze di attecchire per lungo tempo. E anche quando quelle certezze arrivano, ben presto si dimostrano un abito troppo stretto, buono solo per mascherarsi.
    Ciò spiega perché nelle nuove generazioni vi è questa volontà di trovarsi sempre in cammino, di non fermarsi mai nella ricerca. Ma non è un vagare a zonzo. Con le parole del Card. Martini, potrei dire che il giovane vuole essere non un vagabondo ma un pellegrino. Per chi è abituato alle dimore fisse, tutto ciò rappresenta una profonda crisi dei giovani. Ma forse non è così: come dice un adolescente, «la crisi? guai a chi ce la tocca!».


    Bibliografia

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    * A. Melucci (a c.di), Altri codici. Aree di movimento nella metropoli, Il Mulino, Bologna, 1984.
    * G. Milanesi (a c.di), Oggi credono così. Indagine multidisciplinare sulla domanda religiosa dei giovani italiani, Ldc, Leumann, 1981.
    * P. Montesperelli, La maschera e il «puzzle». I giovani fra identità e differenza, Cittadella Editrice, Assisi 1984.
    * P. Montesperelli, Le vie del gruppo: aggregazioni e cultura giovanile in D. Nicoli, C. Martino (a c.di), Giovani in dissolvenza, Franco Angeli, Milano, 1986.
    * P. Montesperelli, Bisogni di aggregazione e forme di organizzazione nei giovani, in «Quaderni di Azione Sociale», n. 33, 1984.
    * P. Montesperelli, Assenza di fondamento e nuove generazioni, in «Tuttogiovani notizie - Osservatorio della gioventù», n. 2, 1986.
    * P. Montesperelli, Differenza, indifferenza, insofferenza: le domande degli adolescenti oggi, in AA.VV., «Adolescenti e catechesi», Ldc, Torino-Leumann, 1989.
    * P. Montesperelli, Marginalità e aggregazioni giovanili in una metropoli ad alta differenziazione. L'esempio di Roma, in R. Cipriani (a c.di), «La bottega dell'effimero. Politiche culturali e marginalità giovanile a Roma», Angeli, Milano, 1991.
    * L. Ricolfi, L. Sciolla, Senza padri né paestri. Inchiesta sugli orientamenti politici e culturali degli studenti, De Donato, Bari, 1980.
    * L. Ricolfi, S. Scamuzzi, L. Sciolla, Essere giovani a Torino, Rosenberg & Sellier, 1988.
    * L. Sciolla, Differenziazione simbolica e identità. «Rassegna Italiana di Sociologia» XXIV, 1, 1983.

    * L. Sciolla (a c.di), Identità. Percorsi di analisi in sociologia, Torino, Rosenberg & Sellier, 1983.
    * L. Sciolla, L. Ricolfi, Vent'anni dopo. Saggio su una generazione senza ricordi, Il Mulino, Bologna, 1989.


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    NOVITÀ 2024


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