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    Il vissuto giovanile e i suoi linguaggi



    Paolo Montesperelli

    (NPG 1994-06-7)


    Cercherò di descrivere, anche se molto sinteticamente, il contesto generale dentro il quale si cala il problema dei linguaggi giovanili. Parto innanzitutto da un problema di fondo: per comprendere i linguaggi giovanili bisogna riferirsi al mutamento che sta avvenendo nella nostra società, mutamento caratterizzato da processi di differenziazione. Questo significa che ciò che una volta era unito e uniforme, ora si disgiunge e si diversifica.

    I PROCESSI Dl DIFFERENZIAZIONE

    Ad esempio: la famiglia nella società rurale assommava in sé molte funzioni: non solo quella della riproduzione, ma anche quella della formazione, dell'educazione, della socializzazione e della produzione economica. Questo creava uno scenario molto omogeneo, uniforme dal punto di vista culturale e dei valori.
    Oggi non è più così: certamente alla famiglia spetta la funzione di riproduzione, però alcuni modelli di famiglia si sono affermati e organizzati in maniera diversa dalla famiglia patriarcale. La produzione non è più affidata alla famiglia. bensì alla fabbrica, all'ufficio, alla cooperativa, ecc. Per quanto riguarda la formazione e la socializzazione, queste sono funzioni svolte dalla famiglia ma anche da tante altre agenzie. la scuola, i mass-media, il gruppo dei coetanei, la parrocchia e così via.
    Questo esempio della trasformazione da una famiglia molto compatta, che dava un senso di uniformità a tutta la società, a una famiglia che vede le proprie funzioni man mano disperdersi nella società, porta ad alcune considerazioni.
    Anzitutto si moltiplicano le relazioni, le comunicazioni fra questi sottosistemi. Alla fine, lo scenario è molto più eterogeneo di quello di un tempo. I messaggi che transitano per la famiglia spesso sono molto diversi da quelli che passano per la scuola o per il gruppo dei coetanei. Tutto sommato per comprendere tutto questo, potremmo utilizzare la metafora della società metropolitana. Noi siamo fino in fondo dentro una società metropolitana, in cui abbiamo un pullulare di razze, di costumi, di modelli di riferimento, di linguaggi differenti ma che convivono a stretto gomito. C'è una comunicazione reciproca, un confronto che magari può essere dialettico, ma senza dubbi non è un monologo di una società monoculturale. Questa maggiore comunicazione ha due effetti: da una parte porta ad una unificazione culturale, dall'altra si creano sempre più differenze.
    Un esempio: la scolarizzazione di massa. Certamente essa ha creato uniformità culturale, nel senso che sono scomparse le differenze geografiche e sessuali, si sono erose antiche distanze culturali; ma dall'altra si sono anche create nuove differenze, per esempio tra generazioni. I giovani diventano più istruiti degli anziani, si trasformano i meccanismi di socializzazione, per cui la scuola elabora nuovi valori soprattutto nell'interazione tra studenti. La socializzazione verticale insegnante-alunno è in crisi rispetto ad una socializzazione orizzontale che invece si fonda su una interazione fra coetanei. E proprio l'interazione fra pari crea nuovi orientamenti giovanili, diversi da quelli delle altre generazioni. Quindi in sostanza non siamo di fronte a dei processi di massificazione culturale e linguistica, perché accanto a questi coesistono processi di differenziazione. Siamo di fronte a mondi diversi ma in comunicazione tra loro. Questo significa che ciascuno può transitare da un mondo all'altro, attingere frammenti da ciascun mondo e comporre una propria personale sintesi. Io ho sempre in mente quel giovane che la mattina si veste da bancario e la sera si veste da dark e va in discoteca: costruisce una sua personale sintesi.
    Ci troviamo di fronte a una condizione giovanile che è al tempo stesso all'insegna del sincretismo e della soggettività. Sincretismo perché ciascuno attinge da fonti molto diverse, e poi ricompone questo mix secondo criteri basati sulla soggettività, sulle proprie prospettive e speranze. E questo vale soprattutto per i giovani, perché sono quelli più sensibili e adattati a questo tipo di società. Significa anche che sono difficilmente individuabili identità collettive marcate, forti, culture ben visibili, compatte. Le schiere dietro la bandiera stanno sparendo, e diventa un qualcosa di molto più inedito e sfuggente.
    Se vogliamo analizzare sia i processi collettivi sia le identità individuali, diventa dunque piuttosto difficile. E' molto più facile quando il mondo giovanile si divide in tanti spicchi ben individuati. Ma quando si tratta di esaminare la soggettività di ciascun individuo, all'interno del singolo soggetto coesistono due tendenze che apparentemente sembrerebbero decisamente contraddittorie. Queste due tendenze sono da una parte la ricerca di un riconoscimento reciproco, la ricerca di un'identificazione, e dall'altra la ricerca di una differenza, di un'autonomia, di una distanza.
    I processi di unificazione culturale sollecitano il senso di appartenenza, che per i giovani significa la voglia di sentirsi fra i giovani in un gruppo, di comunicare reciprocamente; ma dall'altra vi è anche il timore di annullarsi in questa appartenenza, di diventare anonimi, di schiacciarsi troppo, di essere appiattiti sotto il rullo compressore della identificazione e dell'omologazione. E di fronte a questo timore si avverte la voglia di sfuggire.
    Il proprio vissuto lo si sente come un qualche cosa di irripetibile, di diverso dal vissuto degli altri, e che proprio per questa sua diversità è anche irriducibile rispetto a qualsiasi linguaggio che voglia esprimere tale vissuto. Mentre il linguaggio semplifica necessariamente, il vissuto è visto come talmente complesso da non poter mai essere espresso adeguatamente.

    DIFFERENZIAZIONE, COMUNICAZIONE E LINGUAGGI

    Vorrei ripercorrere quanto ricordato, con un'attenzione particolare al linguaggio e alla comunicazione nei giovani.
    Assistiamo a una moltiplicazione di linguaggi, molto eterogenei, che non sono neanche ordinati gerarchicamente secondo delle priorità. Non c'è più la priorità affidata un tempo al linguaggio discorsivo, lineare, razionale: ci sono dei rischi, delle incognite. Questo sbriciolarsi di tutte le gerarchie, anche di tipo linguistico, senza dubbio è un elemento forte.
    Una seconda conseguenza è la tendenza a conoscere e usare più linguaggi diversi. I giovani sono i più portati a usare più linguaggi, non solo quello verbale, ma anche quello della corporeità, della motricità, del look, della musica, della danza. E di fronte a questa pluralità, mi sembra di constatare una tendenza a mixarli, a scomporli e ricomporli in una infinità di combinazioni.
    Terza conseguenza: la crisi di ogni monopolio linguistico e l'uso di più linguaggi porta i giovani a una maggiore consapevolezza che ogni modalità espressiva è limitata, riduttiva; che non esistono modalità espressive realizzanti, esaustive, che rispondono ad ogni esigenza. Vi è anche in campo linguistico l'esperienza del limite. Questo spiega la riscoperta del silenzio e la volontà di coniare nuovi linguaggi.
    Il vissuto viene visto come il frutto di un rimescolarsi di riferimenti, di frammenti eterogenei. E teatro di un'oscillazione costante tra appartenenza e differenza.
    In una indagine sui giovani in cui abbiamo analizzato non solo i contenuti delle interviste, ma anche l'aspetto formale, cioè il linguaggio, tra i vari strumenti utilizzati uno partiva da questo assunto: se ci sono dei termini significativi che nel corso di un'intervista si ripetono frequentemente, probabilmente questi termini fanno riferimento ad un concetto importante per il giovane interrogato.
    Ora, i termini più frequenti sono risultati «vita», «esistenza», «vivere». Dietro questi termini a noi sembrava di cogliere un riferimento ad una realtà globale, più ampia di qualsiasi definizione. Il «vissuto» è la storia della bisaccia di un pellegrino: i contenuti di questa bisaccia cambiano sempre a seconda degli itinerari. Il vissuto non viene inteso come un talento da sotterrare, ma un bagaglio da spendere, da rinnovare costantemente. E' la fonte più significativa di ricchezza, tanto fluido da essere difficilmente esprimibile.
    Se questo è vero, c'è anche da dire che per un vissuto così ricco di significati, ma così ambivalente e contraddittorio, è troppo riduttivo un linguaggio razionale e univoco. Andrebbe meglio un linguaggio che utilizzi molto i simboli.
    Quando non si riesce ad esprimere razionalmente qualche cosa che eccede dagli schemi razionali, allora posso utilizzare metaforicamente dei simboli.
    Che cos'è il simbolo? Nel simbolo noi troviamo una pluralità ambivalente di significati, per cui si presta a più interpretazioni diverse. Il simbolo è anche la traccia di un senso, che non viene espresso, ma a cui questo simbolo allude. La mia impressione è che molti atteggiamenti dei giovani vanno meglio interpretati se letti come simboli. E allora si richiede una sensibilità ermeneutica tale da cogliere questa pluralità di significati e da evitare ogni lettura univoca, che sarebbe superficiale, distorcente.

    Il silenzio come tempo di incubazione della parola

    Un esempio concreto di lettura univoca: «Questi giovani non hanno più niente da comunicare, sono vuoti». Questa interpretazione è superficiale, perché non si coglie che anche il silenzio ha una funzione simbolica. Non si può non comunicare, anche se è difficile sondare la profondità del silenzio. E allora se volessimo scrutare la profondità del silenzio potremmo dire che questo silenzio dei giovani deriva dall'impossibilità a dire il vissuto, ma anche di parlare di questa difficoltà. E poi nel linguaggio del silenzio possiamo trovare anche altre origini; per esempio la necessità di mettere in incubazione la parola, dandole il tempo di nascere. Per cui il silenzio è dare tempo anche alla presa di coscienza di sé. Il silenzio può essere allora il tempo del ritiro, della meditazione, dell'introspezione. Questo spesso gli adulti non lo percepiscono, e di fronte al silenzio si irritano. Ad esempio: i genitori chiedono al figlio che cosa ha fatto durante la giornata. Il giovane è andato in giro col motorino, ha incontrato un sacco di gente, ecc. I genitori lo sanno, ma lo chiedono ugualmente. Il giovane risponde: «Niente». E comprensibile una certa irritazione, ma non può rimanere a questo livello, anche perché magari un mese dopo lo stesso giovane fa loro una dettagliata relazione su quello che aveva fatto un mese prima. Significa che quel giovane ha imposto attraverso il silenzio il tempo dell'incubazione.
    Il linguaggio del silenzio forse deriva anche dal fatto che non si vuole essere recettori a tempo pieno. Ci si vuole sottrarre alla comunicazione usuale, grigia e ripetitiva, per elaborare invece un proprio privatissimo linguaggio. Anche in questo privatissimo linguaggio noi possiamo trovare dei semi per una comunicazione diversa. che poi esplode in un momento successivo. Infine, esso esprime la volontà di sottrarsi ad una cultura post-autoritaria, che impone di dirsi tutto a tempo pieno, di parlarsi per capire, che impone il dialogo a oltranza, di avere sempre qualcosa da dire su qualsiasi cosa.
    Questa è forse l'altra faccia del dover sempre fare qualcosa. del produttivismo, dell'attivismo, che si dimentica della stasi, di un'alterità che comunque resta insondata.

    LINGUAGGI E COMUNICAZIONE FRA GENERAZIONI

    L'ultimo tema che vorrei affrontare è il linguaggio e la comunicazione fra generazioni.
    E sotto gli occhi di tutti la difficoltà dei rapporti tra generazioni. Questa non deriva tanto da una diversità di valori, di orientamenti e di prospettive; ma la difficoltà vera è una diversità di linguaggi. Non ci si capisce. più che non si è d'accordo. Un caso che mi è capitato: un povero padre che alla fine di un dibattito mi si avvicina e mi chiede una spiegazione su un fatto accaduto la sera prima. Ha una delle discussioni più furibonde con la figlia. e a un certo punto all'apice di questa litigata terribile la figlia sbotta dicendo: «papà, sei un paranoico».
    Questo povero padre, che certamente non è un Freud, rimane schiacciato sotto il peso di questa definizione. Ma non la comprende neanche, si prende il vocabolario e cerca il termine. Non ci capisce niente, poiché c'era ovviamente la definizione di carattere psicologico-psicanalitico. Allora il problema non è tanto nel fatto che non si è d'accordo su alcune cose. ma nel fatto che si utilizzano linguaggi differenti. E il problema è che mancano i traduttori e i vocabolari, da cui sorgono comunicazioni distorte. Noi non sappiamo se non sono d'accordo, sappiamo solo che non possono comunicare. Questo vale tanto più di fronte al linguaggio giovanile. Questi linguaggio sono diversi a seconda dei riferimenti. Vi è anche un affastellamento di linguaggi dentro il vissuto di ciascuno. E per ultimo è ancora più evidente il limite di ogni linguaggio. E' una realtà giovanile sfuggente, con il rischio che ogni interpretazione sia plausibile, per cui è vero tutto e il contrario di tutto. Oppure il rischio più frequente che una realtà tanto difficile da leggere consenta letture troppo semplificate. Per esempio nel rapporto tra generazioni, l'afasia è un'altra etichetta che si appiccica ai giovani.
    Certe definizioni proiettano nei giovani delle difficoltà che invece sono degli adulti. Gli adulti che hanno difficoltà a interpretare i giovani: basti pensare all'inibizione di molti adulti rispetto al linguaggio giovanile del corpo, del look, della musica. Le difficoltà degli adulti vengono proiettate sui giovani come in uno specchio: ma i giovani non ci stanno a fare da specchio. Non ci stanno a vedersi etichettati dei problemi che invece sono degli adulti: e allora si opacizzano, assorbono e non rinviano l'immagine, diventano come un buco nero pronto ad assorbire tutto, appaiono come una massa impenetrabile e amorfa, salvo poi esplodere in impreviste rivolte.
    Un'altra forma di difesa rispetto alla comunicazione con altre generazioni sta nel gergo. L'impenetrabilità di esso, comprensibile solo agli adepti, da una parte dà identità, e dall'altra dà differenza. Ci si difende anche attraverso degli schermi linguistici.
    Accanto a questa paura di comunicare. c'è anche una grande volontà di comunicare e queste due tendenze coesistono all'interno di ciascun giovane. Perché vi è la tendenza a riconoscersi negli altri, vi è la sete di esperienza dell'altro. In questo senso i giovani vogliono essere soggetti attivi della comunicazione. Le polemiche sul terreno della comunicazione tra studenti e giornalisti degli anni '90 ne sono un esempio: «O ci fate la ripresa in diretta, o noi non passiamo attraverso il filtro della comunicazione ufficiale in differita»; «La comunicazione la gestiamo noi». Il fax assume un altro valore simbolico di atteggiamento attivo nei confronti della comunicazione.
    Da ultimo i giovani non solo vogliono essere soggetti attivi, e non appendici, ma soggetti creativi. Per non separare la parola dall'emozione, per riportare nel linguaggio l'esperienza esistenziale, rispetto a una parola che invece è troppo formalizzata, ripetitiva, burocratica, così come la troviamo nelle istituzioni, nei partiti, nei sindacati, nelle associazioni, ecc.
    Conclusione: io credo che in queste nuove generazioni, così apparentemente contraddittorie, coesiste la paura della comunicazione ma anche la sete e il desiderio di comunicare. Coesiste un senso del pericolo nel rapporto con la società, ma anche un senso di opportunità. E' l'idea della crisi, appunto pericolo e opportunità di crescita che le nuove generazioni vivono e interpretano.


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