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    Il linguaggio religioso: l'Altro che è un Tu


    Zelindo Trenti

    (NPG 1994-04-44)


    La diatriba sul linguaggio è uno dei capitoli più interessanti della cultura recente. L'affermarsi sorprendente della scienza ne aveva naturalmente esaltato il linguaggio. Di fronte alla rigorosa precisione in cui la scienza poteva esprimersi sembravano irrisorie le elucubrazioni della filosofia e le aspirazioni della religione.
    Ai più avveduti non sfuggiva la portata dell'enfatizzazione del linguaggio scientifico e l'insidia ivi sottesa.

    Oltre il pregiudizio scientifico e i presupposti razionalistici

    Una riflessione più disincantata misura ormai la fondamentale aridità della scienza. Il mondo dell'uomo, l'orizzonte delle sue aspirazioni come il terreno delle sue passioni resta fuori dall'indagine scientifica. Alla distanza la stessa passione per la scienza resta inesplorata e disattesa: quello stesso linguaggio, che appariva il solo al riparo del senso, rischia di risultare privo di senso. Solo l'uomo dà senso alla scienza, e tuttavia là dove sappia dare un senso alla propria esistenza. E dunque l'esistenza il terreno privilegiato della ricerca umana; sulla quale trova legittimazione ogni altra indagine, quella scientifica compresa.
    E proprio esplorando l'orizzonte di senso la ricerca sconfina sul terreno religioso, come terreno alternativo, su cui la scienza non ha presa alcuna. Dove la scienza tende a misurare per asservire – e dunque celebra la dignità dell'uomo – lo induce a interrogarsi sulla ragione della sua distinzione dal mondo e con ciò ad esplorare un orizzonte carico di mistero; in cui addentrarsi con altro linguaggio. Né più sereno è stato il confronto con la riflessione razionale. La consuetudine con il rigore del procedimento astratto ha progressivamente enfatizzato «un modo» di ragionare. Il pregiudizio razionalistico ha bandito la religione dal consesso delle discipline in grado di dare un apporto apprezzabile all'interpretazione dell'esistenza umana.
    Recentemente, non tanto la religione quanto l'esperienza religiosa, s'è trovata a perno di una ricerca vasta e articolata. Dai settori più diversi della cultura, dalla fenomenologia alla storia, dall'antropologia alla sociologia, la ricerca religiosa prende forma, consistenza, dignità... elabora gli strumenti per una credibilità culturale a tutto campo.

    Un linguaggio per l'esperienza religiosa

    A fondamento del suo lento e progressivo affermarsi sta l'elaborazione di un linguaggio proprio e qualificante; che prende consapevolmente le distanze da altri ambiti di ricerca. Precisamente sulla base che la distingue e la qualifica, la religione non entra in contrasto, né in competizione, ma piuttosto in solidarietà e integrazione con i molteplici aspetti della ricerca umana. Anzi proprio l'affinamento di taluni settori di ricerca offre apporti inediti e sollecitanti alla comprensione dello stesso fenomeno religioso.
    Si possono approfondire le premesse or ora richiamate in dimensione specificamente religiosa. Se si prende in considerazione la collocazione dell'uomo nel tempo e di conseguenza il progressivo modellarsi a confronto con il mondo in cui è immerso, il linguaggio risulta a perno di questa singolare esperienza. Uomo e mondo risultano in rapporto costitutivo. Non è che l'uomo abbia un progetto e alla luce di questo dia nome alla realtà; piuttosto il suo progetto si va costruendo man mano che nomina e conferisce volto alla realtà.
    Il linguaggio è la risorsa a perno del processo di identificazione di sé e di interpretazione del mondo. All'origine c'è forse un'intuizione — o un'opposizione orientativa — non precisamente articolata. Si elabora e si definisce nell'esplorazione e nella verifica delle molteplici possibilità che si aprono all'orizzonte della vita; e sollecitano a trascenderla; ad ancorarla a sorgenti misteriose ed inesplorate che l'alimentano incessantemente. L'uomo le avverte e ne tenta l'esplorazione e l'articolazione; s'incammina su quello stretto crinale in cui l'esperienza è a contatto con la trascendenza: intraprende una pista disusata; tende ad evocare con la parola il presagio della trascendenza.
    La trascendenza non s'impone come un dato oggettivato, alternativo al soggetto. È piuttosto presagita nell'orizzonte del soggetto. L'uomo s'interroga risvegliato da imprevedibili provocazioni; ma in definitiva egli porta l'interrogativo su se stesso, sulla propria vita. L'esistenza non è affermata in una lucida intuizione intellettuale; è percepita in uno spessore indefinito che ha ramificazioni inesplorate. L'affermazione del «cogito» è una formula vuota. L'esperienza del proprio esistere è percezione oscura di una pienezza presagita, che progressivamente la riflessione tende a decifrare.
    La vera e fondamentale domanda non è «esisto?», ma «chi sono?». Ed è sotto lo stimolo di quell'interrogativo che la ricerca si spinge sui più diversi versanti dell'esistenza ed è indotta a trascenderla. L'articolazione laboriosa di un'interpretazione man mano più consapevole e matura costituisce il cammino stesso verso il linguaggio. È il linguaggio che definisce l'orizzonte dell'uomo; raccoglie il germinale articolarsi dell'esistenza allo stato nascente.
    Il linguaggio non descrive il passaggio dal significante al significato: è piuttosto l'elaborazione del significato nell'attività del significante, richiama giustamente Lévinas. La parola parlante, il processo della consapevolezza esistenziale è al cuore del linguaggio; la parola parlata è già risultato del linguaggio; ne è il prodotto finito, che non lo esprime più nel suo vivo articolarsi e quindi nella sua dimensione esistenziale.
    Il linguaggio ha dunque l'orizzonte del progetto umano ed esprime quanto è compreso in tale orizzonte. È allora legittimo parlare di linguaggio religioso? Evidentemente il presupposto obbligato e costitutivo è la presenza di Dio, della Trascendenza, nell'orizzonte interpretativo dell'uomo.
    Cosicché il problema è duplice:
    - come entri la trascendenza nel progetto dell'uomo;
    - come egli la sappia interpretare ed esprimere.
    La legittimità dell'invocazione è allora il presupposto di ogni linguaggio religioso; ed è evidente che il modo con cui si legittima e si interpreta l'invocazione — il rapporto con Dio — definisce il linguaggio religioso.
    C'è da chiedersi se l'amara osservazione di Pascal sulla povertà e l'evasività della figura di Dio nell'orizzonte della riflessione razionale non sia denuncia di un razionalismo esasperato che estenuava la vitalità del rapporto religioso e rendeva esangue l'immagine di Dio. Pascal stesso (Kierkegaard più tardi) hanno impresso ben altra spinta alla riflessione religiosa, che oggi può avvalersi di indicazioni esistenzialmente suggestive.
    Si tratta di ricomporre il quadro di un'esperienza singolarissima che non s'accontenta di affermare Dio e il rapporto che l'esistenza instaura con Lui; ma è sollecitata ad accoglierne la presenza e a maturare la risonanza.

    DALL'AFFERMAZIONE DELL'ESSERE ALLA PERCEZIONE DEL MISTERO

    La singolare pienezza e novità in cui è percepita ed esplorata l'esistenza nella riflessione recente s'affaccia sull'orizzonte alternativo; evoca una presenza nascosta e fondante; fa rifermento o appello alla trascendenza.
    Un appello tuttavia non obbligato. Ciò che forse caratterizza l'incontro della riflessione recente – specialmente esistenziale e fenomenologica – con la trascendenza è una marcata connotazione di libertà. Non nel senso che risulti arbitrario affermarla o negarla; piuttosto perché il progetto stesso esistenziale è segnato dalla libertà: su questa base interpreta e si interpreta.
    L'affermazione del fondamento non è logica conclusione di un ragionamento astratto: è esistenziale consapevolezza d'una presenza presagita e riconosciuta. L'uomo può sentirsi «gettato» nel mondo o «chiamato» all'esistenza. La trascendenza dell'essere è percepita in tutta la sua alterità: l'orma che di sé ha impresso nel mondo è ambivalente: lo rivela e lo nasconde. La ragione può trovarsi sconcertata dal nascondimento o sollecitata dalla rivelazione: denunciare l'assurdità e l'inconsistenza del progetto umano, dove non ne vede lo sbocco e ne misura lo scacco – essere per la morte; o presagirne il senso e la pienezza dove avverte di poterlo ancorare ad una presenza ultima e appagante – esistere per l'incontro.
    La prima condizione del linguaggio religioso è l'opzione per la trascendenza, come misteriosa presenza su cui il progetto dell'uomo può dispiegarsi in una vitalità che attinge a risorse inesauribili. Un'opzione tuttavia che non è mai affermazione astratta, ma percezione vissuta: garanzia di stabilità e di approdo.
    Il linguaggio religioso esplora e comprende la realtà – anche quella materiale – animata e fermentata da una trascendenza che l'attraversa e la vivifica. «La natura è piena di dei»; il «logos» anima la realtà materiale già nell'ordinaria riflessione occidentale. «I cieli narrano la gloria di Dio/e l'opera delle sue mani annunzia il firmamento» nella più consapevole e perentoria attestazione biblica (Sal 19).
    L'uomo può sentirsi «spaesato» in questa immensa dimora che lo accoglie; ma può anche sentirsi «ospitato» in una casa fatta sulla sua misura e che tuttavia non è opera delle sue mani. Perciò l'intera realtà è invito suadente a riconoscervi una presenza misteriosa e ad invocarla.
    Il linguaggio religioso instaura dunque un rapporto nuovo con il mondo: vi abita in attesa di un incontro, per prepararlo. Nell'immagine suggestiva che la Bibbia ci ha tramandato considera l'universo come un immenso giardino che gli è stato affidato, su cui ha piena signoria, per quanto la fatica di dissodarlo e di asservirlo non riempia la sua attesa né le sue aspirazioni.
    La riflessione religiosa ha avvertito da sempre il presagio: talora ha trovato immagini fortemente evocative per esprimerlo. Ci sono documenti inequivocabili fin dalla più remota tradizione religiosa.
    Si ha in essa la precisa consapevolezza che la realtà è popolata di una presenza arcana: traspare e si sottrae nel fascino fugace e accattivante che riveste ogni cosa e la fa rivelativa e testimone della divinità.
    L'uomo religioso non evade dal mondo: vi si sente immerso; può stupirsi e contemplare: vi ricerca e vi scopre l'orma d'una realtà misteriosa che lo trascende.
    Il mondo diventa il luogo del presagio e dell'attesa. Per l'uomo religioso la realtà materiale non è solo terreno ambito di conquista: è spazio sollecitante all'incontro.

    LA DIMENSIONE PERSONALE DELL'INCONTRO RELIGIOSO

    La bibbia ha raccolto in un racconto di straordinaria potenza evocativa il confronto primordiale dell'uomo con il mondo (cf Gen 2). Il primo risvegliarsi alla consapevolezza della propria dignità: la pienezza della vita che s'accorge di sé e prende le distanze dal mondo in cui è immersa. L'autorevolezza con cui l'uomo impone nome alle cose interpreta bene la novità, la prerogativa di cui egli dispone; i greci nella loro lucida riflessione hanno colto nel segno: il linguaggio distingue ed esalta l'uomo sul mondo.
    Ma il brano biblico sottende anche un'altra intuizione: lo stupore e la gioiosa esaltazione dell'incontro con la donna sposta sul confronto con l'altro la piena consapevolezza che l'uomo assume della propria dignità. L'uomo è di fronte all'uomo. Non è più il dominio e la signoria ma l'incontro e l'intimità che caratterizzano il nuovo rapporto. Nel volto dell'altro egli può leggere una dignità che non ammette asservimento; che impone rispetto, sollecita all'accoglienza.
    L'uomo si desta ad un rapporto singolare, instaura un confronto carico di trepidazione e di attesa; l'universo dell'altro non è terreno di conquista: è caso mai spazio all'accoglienza e alla disponibilità: all'ospitalità. L'uomo vive un'esperienza unica ed esaltante; incomparabilmente diversa da quella che lo chiama a signoria sull'inerte soggezione della realtà materiale. L'altro non è oggetto di possesso: è occasione di incontro: irriducibile alla «misura» e alla manipolazione: afferma una barriera non valicabile; può offrire una disponibilità singolare.
    Si instaura un nuovo linguaggio non più definito dalla preoccupazione di asservire, ma dalla trepidazione di accogliere. Si profila la condizione dialogante dell'uomo. Egli si percepisce in rapporto costitutivo con l'altro, segnato di distinzione e di libera disponibilità. Nel mondo dell'altro non si ha accesso che nel margine preciso di accoglienza e di ospitalità che liberamente offre. Ogni violazione non è solo vietata: è impossibile. Se cerca una breccia per penetrarvi, non è quella della forza ma della persuasione.
    L'incontro è permanentemente esposto alla rottura, alla preclusione; com'è in permanenza sollecitato alla pienezza e alla totalità. Perciò ha ragione Buber: all'incontro con l'altro si va con la pienezza dell'esistenza. La totalità delle proprie risorse è in gioco in ogni rapporto umano autentico. L'altro è appello alla persona come tale, che nell'incontro non può che offrire se stessa – per quello che una lunga storia alle spalle può aver accumulato e per quello che l'emergenza di indefinite aspirazioni può sottendere.
    Il linguaggio che esprime il possesso e il dominio è fondamentalmente operativo: concerne l'esistenza nel suo occuparsi delle cose. Il linguaggio che interpreta il rapporto con il tu coinvolge l'esistenza e la impegna, anche totalmente; risulta il solo ad esprimere non un'azione dell'uomo, ma l'uomo stesso. Dio che si rivela nella natura è vestito di maestà; Dio che si rivela nella persona è richiamato alla responsabilità.
    Cosicché la religione è sollecitata alla contemplazione dalla natura, è verificata nella dedizione dalla persona. Quando l'uomo, oltre la percezione conturbante del mistero, avverte la vocazione all'intimità con il Tu, cambia radicalmente il senso che egli dà al proprio atteggiamento. Dall'ammirazione passa alla trepidazione: l'incontro a tu per tu con Dio è celebrazione e preghiera.
    Nella preghiera «il diritto alla parola» abbraccia finalmente l'orizzonte dell'aspirazione interiore: raccoglie in unità l'arco intero dell'esistenza come progetto delineato e vissuto in pienezza, verificato con l'unico che ne è all'origine e ne costituisce l'approdo. Marcel ha espresso correttamente la formula della preghiera: «Tu che solo possiedi il segreto di ciò che sono e di ciò che sono atto a diventare».
    All'interno di un'accoglienza piena che l'uomo religioso vive, si comprendono in tutta la loro umana densità formule frequenti nella preghiera biblica:
    - la supplica: Dal profondo grido a Te, o Signore; Signore, ascolta la mia voce (Sal 130);
    - lo stupore: Che cos'è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi? (Sal 8);
    - l'ammirazione: Signore, mio Dio, quanto sei grande! Rivestito di maestà e di splendore, avvolto di luce come di un manto (Sal 104).
    La preghiera è il solo caso in cui l'amante esprime la verità dell'ambiziosa pretesa di offrire il mondo all'amato. L'orante guarda il mondo; può inebbriarsi della sua bellezza: non è tuttavia il possesso né la contemplazione che lo appaga, quanto piuttosto la percezione di un tesoro inesplorato di cui disporre per farne dono, per dare corpo alla propria offerta. Il mondo torna ad essere la patria dell'uomo — grande e suggestiva — che egli sa amare ed apprezzare: perciò può farne oggetto di dono. La preghiera è consapevolezza di ospitalità, ricevuta in una dimora regalmente adornata, data in eredità: luogo suggestivo dell'incontro, ma anche oggetto di libera offerta.
    Il diritto alla parola non è solo presa di coscienza della propria dignità, è anche libertà di disporre con autorità di sé e della propria eredità: può rendere finalmente giustizia di una chiamata all'esistenza, misurata nella sua germinalità e pienezza; riaffermarne il valore incomparabile — sacro — degno di essere dedicato.
    La preghiera è celebrazione dell'uomo e di Dio. Nella libertà di Dio riconosce l'origine e l'approdo. Nella libertà dell'uomo trova l'interprete che dispone della creazione e, in un gesto di offerta, vi restituisce il suo carattere definitivo, sacro. Ogni volta che un uomo prega fino all'offerta di sé e di ciò che è nel mondo, fiorisce un gesto di novità, il cui significato e valore non hanno misura.
    La preghiera è espressione del rapporto autentico con Dio: l'uomo misura la propria dignità; la va esplorando e ne dispone con autorità: Dio è riconosciuto all'origine dell'esistenza: non vi rivendica alcuna signoria; ne accoglie caso mai il dono per custodirla oltre la precarietà del tempo, che la minaccia. Nell'adorazione è iscritta la celebrazione definitiva della grandezza di Dio che nella creazione suscita una presenza singolare, capace di un gesto di libertà — sotto un certo aspetto «causa sui» (Lévinas). La creazione «narra la gloria di Dio»; ed anche l'uomo, parte della creazione, entra in questa «narrazione obbligata». Ma la presenza dell'uomo scrive con caratteri incomparabilmente nuovi la narrazione. Egli si erge sulla vita e sulla propria vita: può imprimervi il segno del rifiuto o il carattere dell'invocazione. Di questa scelta è l'ultimo depositario e il solo responsabile. Dio riceve nell'invocazione l'unico riconoscimento gratuito di cui l'universo è capace.
    Perciò la preghiera è celebrazione singolare di Dio, ma anche dell'uomo. L'uomo è linguaggio in quanto può dare nome e volto alla propria esistenza, raccoglierne le ramificazioni indefinite, comporle in unità e disporne. La preghiera coglie l'esistenza allo stato nascente: evoca e riesprime un rapporto primordiale costitutivo: dove è autentica, uomo e Dio vanno all'incontro con la trepidazione del primo appuntamento.

    QUALE LEGITTIMAZIONE?

    Il diritto di dare il nome alle cose è compito natio. Il diritto di «dare volto» al mistero è vocazione.
    L'antica distinzione di Eraclito tra desti e dormienti è ancora monito severo: spartisce gli uomini fra coloro che si avvedono del mistero, percepiscono il richiamo di un mondo trascendente e definitivo e coloro che, sordi dell'appello, restano chiusi entro l'orizzonte del tempo e della finitudine.
    Leopardi aveva già notato che non si descrive l'infinito mentre lo si prova; ma che neppure lo si può descrivere senza averlo provato. L'osservazione è richiamo perentorio alla matrice del linguaggio. È solo importante rilevare che l'avventura del linguaggio non inizia là dove il poeta riveste di forma e di armonia «la materia» del canto. Il linguaggio è già all'opera dove l'infinito lo «prova». Dove un'intuizione affiora allo stato nascente, lì si articola il linguaggio che accompagna la fatica del Poeta fino a svolgersi nella composta e suggestiva espressione del «canto».
    Il linguaggio parla con la forza di un'intuizione oscura, già in atto, che va progressivamente articolandosi fino a trovare l'espressione definitiva. La risorsa ermeneutica del linguaggio sta precisamente nel conferire parola all'intero orizzonte interpretativo dell'uomo: è questo stesso orizzonte interpretativo. Cosicché la prima condizione per parlare di linguaggio religioso è l'apertura al mistero e alla trascendenza. Il linguaggio è religioso non per le cose di cui parla, per i temi che tratta, ma per la risonanza e l'accoglienza che il progetto esistenziale dà ad una presenza trascendente: a Dio.
    R. Otto ha analizzato con singolare lucidità le categorie in cui il sacro si manifesta. In una concezione progettuale dell'esistenza il sacro non si esprime in categorie, razionali o irrazionali che siano. Risulta a sfondo del progetto; lo fermenta e vi conferisce una destinazione. La chiave del linguaggio religioso è la percezione di una presenza arcana a perno dell'esistenza. La categoria di cui si avvale Kierkegaard resta profonda e risolutiva: l'uomo sta di fronte a Dio, anzi è costitutivamente in rapporto con Lui. E in quanto si sforza di decifrare questo rapporto egli interpreta la propria esistenza in termini religiosi.
    Da Heidegger e Ricoeur, secondo due preoccupazioni marcatamente differenziate, affiora il carattere arduo e inaccessibile dell'esperienza religiosa. Appunto perché si colloca sul crinale che sporge sulla trascendenza, la parola religiosa si immerge nel mistero: tenta di decifrare la risonanza che di riverbero l'incontro conferisce all'intera esistenza. Nel presagio avverte la novità e la freschezza imprevedibile che vi affiorano. Ma il mistero non risulta sondato. Dio resta nascosto, imprevedibile, e il rapporto con Lui in tanta parte oscuro. Per lo più l'uomo religioso si sente accolto, ma non garantito. Si fida anche se non sa prevedere su quali sentieri lo conduca colui di cui si fida. Del resto proprio qui sta l'altezza del gesto religioso.
    Giustamente Ricoeur che analizza le forme del linguaggio religioso le trova sovraccariche: indotte a portare un senso per lo più sproporzionato alla consueta designazione. La «stravaganza della parabola» sarebbe giustificata precisamente dal di più a cui il riferimento religioso sottopone il linguaggio.
    Hanno una loro suggestione anche le annotazioni di Lévinas: l'altro nella sua imprevedibilità e assolutezza non si lascia ridurre al «sistema», alla «totalità»; li trascende e spalanca l'orizzonte interpretativo sull'infinità.
    Domandarsi come il linguaggio acceda all'orizzonte religioso è lo stesso che chiedersi come l'esistenza prenda atto del rapporto con la Trascendenza, che le è costitutivo. È ancora mettere in atto un processo di esplorazione attorno alla fondamentale domanda su cui l'esistenza si risveglia: chi sono? Tuttavia senza precludersi una risposta che oltrepassi la propria esistenza – anzi prenda appunto le mosse da una ricerca che ha presagito l'alterità e non vi si rifiuta. È all'interno di un'oscura e affiorante percezione dell'alterità che il riferimento alla trascendenza s'impone e che il circolo ermeneutico s'allarga e accede all'orizzonte religioso.
    Il problema religioso come «scommessa» pro o contro è iscritto nelle pieghe dell'esistenza. La scelta è iniziativa e libertà dell'uomo; esprime un'interpretazione totale dell'esistenza che sta di fronte a Dio e ne «cerca il volto» o lo rifiuta. Si erge in una solitudine orgogliosa, di cui la riflessione sull'esistenza ha segnato con desolata lucidità lo sbocco – nell'angoscia, nella noia, nella morte. Dove l'uomo accetta il rapporto con la trascendenza instaura un dialogo che nella sua esigente serietà mette in gioco la totalità delle risorse.
    La trascendenza assume i caratteri dell'interlocutore in cui l'esistenza cerca spiegazione ed accoglienza. Riferirsi in modo autentico e «oggettivo» a Dio non può che significare parlargli in termini personali, a tu per tu. («Niente, se Dio è un esso che non potrà mai diventare un tu. Dio inteso come verità impersonale, è senza dubbio la più povera, la più morta delle finzioni»: G. Marcel, Giornale Metafisico, cit., p. 24). Il rapporto religioso s'instaura sulla logica dell'intimità e il linguaggio religioso esplora il gioco sottile e imprevedibile che è proprio di ogni intimità interpersonale. Anzi dove Dio è l'Altro - è l'interlocutore - assurge a riferimento privilegiato e, in definitiva, unico, appena l'aspirazione umana oltrepassa la soglia della quotidianità e avverte l'insofferenza per la finitudine.
    Né appare incomprensibile il gesto di disponibilità e di offerta di cui ogni religione autentica è testimone. Nell'amore l'esistenza cambia centro, come giustamente rileva Marcel. Sposta sull'altro il perno della propria vita.
    Già Agostino aveva acutamente sottolineato lo sbocco a cui giunge l'esperienza di fede. Credere in... non è accettare una testimonianza, condividere un'aspirazione, un progetto... è donarsi fino ad affidare se stesso. Accettare come proprio l'orizzonte di vita altrui; instaurare un rapporto carico di partecipazione e di trepidazione.
    Un'intuizione su cui i maestri della riflessione esistenziale sono tornati con annotazioni di grande suggestione. Le indicazioni suggerite a livello di rapporto interpersonale valgono anche e soprattutto per l'esperienza religiosa. Ciò che la distingue, caso mai, è il fatto di situarsi costantemente sull'ultimo crinale, come situazione limite, in cui l'aspirazione dell'uomo cerca e può trovare compimento. Forse si può ancora tornare all'immagine agostiniana: «trova la pace»; purché la pace non smorzi l'intensità e la trepidazione del rapporto, ma lo custodisca e vi garantisca l'approdo.
    È in questo fidarsi ed affidarsi che ragionevolmente s'accampa la speranza come ribellione e rifiuto definitivo dello scacco e perfino della morte. Dove l'uomo difende la propria solitudine sa di essere votato alla morte. Il rapporto religioso lo trasferisce sul versante presidiato dalla fedeltà di Dio. Perciò giustamente l'uomo vi presagisce l'ultimo riparo alla minaccia che incombe sulla vita. La speranza, appena balenante e troppo alta e ambiziosa per essere conclamata nella ricerca religiosa, ha avuto nella rivelazione conferma categorica. Naturalmente il credente non invoca per mettersi al riparo; ma nell'invocazione sa di essere accolto e custodito dall'unico che è al riparo da ogni minaccia.
    Resta tuttavia carica di sottile ed - il futuro, la pace, la patria e comunque la si voglia chiamare - è promessa. L'uomo può attenderla e fidarsi: vivere di fiducia; vivere dunque al riparo di un rapporto su cui non ha mai un possesso garantito e un dominio sicuro. Il rapporto interpersonale sosta rispettoso sul crinale dell'alterità. Un progetto portato su questo crinale non ha mai i contorni definiti e risolutivi. È tenuto a riformularli in continuità sulla risposta e sulla proposta che l'altro avanza.
    Questo è vero per ogni incontro. Nel rapporto interpersonale consueto non è lecito garantirsi e prevedere la risposta: può sempre sorprendere. Il rapporto religioso dilata i margini della sorpresa. Dio può imporsi e irrompere nell'esistenza come risposta - o più spesso come proposta - sproporzionata ad ogni previsione. Per lo più proietta l'esistenza in un confronto che non può rispettare le proporzioni, né in definitiva salvaguardarle.
    E anche là dove il presagio dell'uomo sollecita all'incontro non circoscrive né predefinisce la risposta; tanto meno interpreta la trascendenza: magari invocata per recare una risposta, in realtà irrompe con una proposta che supera il presagio e può sconcertare la ricerca e l'attesa.
    Il linguaggio religioso si gioca dunque sul confronto con il Tu: ha il carattere singolarissimo di ogni incontro con l'altro. Per quanto nell'ambito religioso l'altro è e si manifesta Totalmente altro: carico dunque di una trepidazione esistenzialmente totalizzante.
    Dove la religione è autentica l'uomo va all'incontro senza riservarsi alcun retroterra, che costituisca un estremo approdo. Perciò il linguaggio religioso è un modo singolare ed unico non tanto di parlare di Dio, quanto di celebrarne la presenza per parlare dell'uomo: per quello che sa di essere e spera di riuscire ad essere. Nell'annotazione di Lévinas il linguaggio sorge nel confronto con il tu è la presenza che suscita la parola. Bisogna concludere che la ricerca religiosa è fatto ottuso e generico finché fa riferimento ad una trascendenza indefinita ed evanescente. Si colora di intensità appena la trascendenza assume carattere personale e nella proporzione in cui la presenza del Tu si fa dialogante e risolutiva.
    Dove l'uomo gioca se stesso è naturalmente indotto ad interpretarsi: vuol capire, porta la ricerca religiosa sul suo perno.
    È ancora la presenza personale che può trasformare l'invocazione in preghiera senza snaturare l'invocazione. L'annotazione di Marcel è pertinente: non posso pregare per avere di più, ma per essere di più («Posso pregare per essere maggiormente, non per maggiormente avere. Questa distinzione mi sembra sempre più importante. Non può trattarsi di ciò che si possiede ma dell'uso che se ne può fare: ciò che ho non può mai apparirmi come dono di Dio. In nessun caso posso pregare perché ciò che ho in questo mondo sia accresciuto»: G. Marcel, Giornale Metafisico, p. 112).
    È la sincerità e l'intensità dell'incontro che sono in gioco. La preghiera è questa fondamentale aspirazione a portarsi all'altezza dell'Altro per essere capace di accoglienza e di risposta per essere di più; che è il modo autentico di disponibilità e di supplica: dimentico di sé, sollecito dell'altro.
    Che poi l'altro sappia anche elargire oltre misura «le cose» che la preghiera non chiede è un fatto che trova conferma esplicita nella più accreditata tradizione religiosa. Sta di fatto che non la ricerca del possesso o del vantaggio, ma dell'altro, della intimità con Lui, è il cuore di ogni preghiera come interprete privilegiata del linguaggio religioso.

    L'orizzonte del linguaggio

    Sul linguaggio sí è concentrata la ricerca recente: vi ha rilevato un orizzonte singolarmente significativo per una più attuale interpretazione dell'uomo e della sua esperienza.
    Del linguaggio si sono impadronite diverse scuole filosofiche, con accentuazioni spesso unilaterali: nel rischio dì isolarne ed esasperarne qualche aspetto sono incorsi di fatto movimenti di pensiero che hanno avuto vasta risonanza nella nostra cultura: dalla filosofia analitica, a quella fenomenologico-esistenziale, allo strutturalismo.
    Ma il rischio ha anche confermato il richiamo: il linguaggio si è manifestato un terreno straordinariamente fecondo e poco arato dalla tradizione. Questa ne aveva fatto fondamentalmente uno «strumento» di comunicazione del pensiero. Il linguaggio poteva assurgere a dignità in quanto lasciava trasparire la «conformità» fra pensiero e realtà.
    Il problema restava concentrato sul pensiero e la sua forza interpretativa della realtà. Il linguaggio andava affinato e valorizzato come mezzo di espressione, quasi manifestazine di un pensiero che era stato elaborato o si andava elaborando in seguito a processi propri e indipendenti.
    Nella riflessione recente e contemporanea viene ripensato proprio questo presupposto. Il linguaggio non è uno strumento del pensiero nel senso che si riduce ad essere una via obbligata per manifestarlo; è l'orizzonte del pensiero e del processo interpretativo della realtà. L'interpretazione stessa si elabora nel linguaggio e su quella base: non è che prima si interpreti intellettualmente una qualunque realtà e si cerchi poi nella lingua un nome che ví corrisponda. Elaborare la comprensione e conferire il nome costituiscono il processo stesso dell'interpretazione. Perciò il linguaggio è l'orizzonte dell'uomo: in ambito interpretativo l'uomo ha coscienza di sé e del mondo in cui è immerso in quanto ha chiamato una qualunque esperienza per nome, l'ha articolata in linguaggio. Donde la forza evocativa della pagina biblica: nel gesto del primo uomo che dà nome alle cose è espresso un tratto costitutivo e qualificante dell'esperienza umana, su cui la riflessione attuale ritorna come ad un archetipo da esplorare (Gen 2,20).
    L'altro aspetto, non meno fecondo, tocca la responsabilità del soggetto nell'interpretazione. L'uomo dà nome e volto alle cose: qual è allora la parte che gli spetta nell'interpretazione della realtà? La riflessione moderna ha lungamente arato questo terreno con apporti nuovi e provocanti, specialmente dopo la ricerca kantiana. Qui importa ribadire che progressivamente, accanto al problema della verità delle cose in se stesse, si è venuto profilando l'interrogativo sul senso che l'uomo conferisce alle cose. Ora proprio nel dare senso e nell'attribuire un nome, emergono alcune considerazioni che si impongono con sempre maggiore chiarezza.
    La prima ribadisce un'acquisizione fondamentale della tradizione: s'è concentrata in uno slogan che ha orientato e orienta la ricerca fenomenologica: andare alle cose! II motto raccoglie e sintetizza la preoccupazíne di tenere il linguaggio saldamente ancorato ai proprio oggetto, anche dopo la riflessione idealista: il linguaggio parla dí qualche cosa, è segno (e segno legittimo) del reale. Questa rivendicazione, da sola, salva il linguaggio dal ripiegare unicamente su di sé: sfata la pretesa strutturalista che esaurisce il linguaggio nel labirinto dei rapporti e delle «strutture» che lo caratterizzano. Il linguaggio è orientato alla realtà, ne è segno; l'afferma e la interpreta legittimamente: sulla base dí un'analisi rigorosa e consapevole ví ricupera una funzione che la tradizione aveva affermato e ín parte tematizzato nei suoi grandi maestri, da Platone ad Aristotele ad Agostino.
    Resta la domanda sull'iniziativa del soggetto, nell'interpretazione: lo spazio di novità e di autonomia che gli spetta nell'incontro con reale. È la domanda più specificamente ermeneutica che la riflessione esistenziale ha saputo esplorare con originalità di apporti.
    Se pongo una domanda, se sono comunque interessato a conoscere alcunché, sìgnifica che mi trovo in una certa situazione: sono stimolato da peculiari interessi; sono preoccupato dì trovare la soluzione ad interrogativi che mi attraversano: è un dato evidente anche nei fatti più consueti: se voglio visitare un museo al centro della città, le mie domande sono comandate da questa prospettiva: mi informerò sulla strada che vi porta, sui mezzi di locomozione per accedervi, sull'orario di apertura, sul catalogo illustrativo... E chiaro che ín una città strade, mezzi di locomozione, orari, cataloghi ce ne sono a bizzeffe: magari strade più panoramiche, mezzi di locomozione più interessanti, orari più significativi, cataloghi più importanti... Da tutto questo prescindo: una decisione presa orienta ad un cumulo di informazioni in sé anche banali, importanti tuttavia sulla base di quella particolare iniziativa, per darvi attuazione. Il mio orizzonte improvvisamente s'è ristretto e concentrato.
    Se dal dato concreto e banale si porta l'attenzione sul progetto complessivo che una persona va elaborando per orientare e identificare la propria esistenza, la considerazione resta sostanzialmente la stessa. II suo progetto decide delle scelte che fa, degli impegni che assume, degli interessi che giudica meritevoli di considerazione. ll progetto apre una prospettiva che privilegia quanto vi risulta proporzionato e solidale. Il progetto dischiude un mondo che risulta proprio della persona: ín cui essa si riconosce, si interpreta, intrattiene relazioni, prende iniziativa: è il suo mondo; a partire da questo mondo dà un nome, conferisce un senso alle relazioni con le cose e ai rapporti con le persone. Un mondo evidentemente parziale e limitato: quasi un punto di vista sulla realtà: il nome e il senso che ciascuno è in grado di conferirvi è precisamente de-limitato dal proprio progetto; il linguaggio lo
    La realtà è interpretata da un particolare punto di vista: a sua volta quel punto di vista lascia trasparire e manifesta il progetto. C'è dunque un circolo interpretativo fra realtà e persona che il linguaggio tiene in reciproco e vitale rapporto. Heídegger ha sottolineato che questo rapporto di circolarità è certo un limite: è tuttavia anche una risorsa preziosa. II processo circolare fra realtà e progetto personale che la prende in considerazione si rivela singolarmente fecondo: il linguaggio che ne è tramite e continuamente lo percorre rappresenta l'itinerario della progressiva presa di coscienza di sé e della realtà: definisce la statura dell'uomo situandolo nel mondo che gli risulta proprio. L'uomo ha un mondo che il linguaggio circoscrive e rivela.
    E un'ulteriore considerazione. Dí per sé l'uomo non ha inventato, né pone la realtà: questa gli è data. Però è il suo progetto che vi dà senso e nome: c'è dunque un margine dì iniziativa e di libertà che si situa a perno del processo ermeneutico; e c'è una precisa attestazione d'incontro con la realtà che s'impone all'intervento dell'uomo. Il linguaggio rivela la realtà ed esprime l'identità della persona: raccoglie i due estremi in un unico orizzonte interpretativo: in questo senso Gadamer può legittimamente parlare del «linguaggio come orizzonte di un'ermeneutica ontologica».

    La risonanza in ambito religioso

    Restano aspetti oscuri e controversi; non è qui il caso di approfondirli: ne rilevo solo due perché particolarmente attinenti alla ricerca religiosa.
    Il primo concerne la provocazione imprevedibile con cui la realtà, anche nel suo senso definitivo, sembra offrirsi e magari imporsi al progetto dell'uomo. La riflessione heídeggeriana aveva chiaramente segnalato la traccia dí ricerca. Di fatto il monito di Heìdegger è polarizzato sull'essere. Il rapporto uomo-essere è a perno della sua ricerca, fonda la sua singolare concezione del linguaggio come evento dell'essere aperto dall'esistenza umana. Viene così ribadita una presenza interpellante di cui il linguaggio si fa portatore, per quanto ne denunci iI margine di indicibilità. La presenza dell'essere è affermata come operante e inaccessibile. Questo emergere nella realtà finita di un presagio, di un'orma della trascendenza è fatto centrale e costitutivo del linguaggio religioso.
    Un altro aspetto che orienta la riflessione più recente, comandata soprattutto dalla ricerca di Ricoeur, riguarda il dinamismo insito nel linguaggio stesso. li gioco dei riferimenti che alimentano la vitalità del linguaggio testimonia un margine di creatività che gli è propria: donde l'attenzione alle strutture stesse del linguaggio, analizzate in alcune figure «rivelative»: in particolare feconda soprattutto l'analisi attorno alla metafora, alla molteplicità dei rapporti, al «salto» di significato che sottende. Il processo metaforico è esplorato quale dato risolutivo nell'evidenziare la risorsa che spinge il linguaggio su versanti costantemente aperti all'inedito e ne giustifica l'evoluzione semantica.
    Per quanto concerne il linguaggio religioso, particolarmente cristiano, è evidente l'importanza della doppia pista di ricerca.
    Da una parte il Dio della fede cristiana è personale, sovranamente libero nella propria iniziativa, che dì fatto assume nei confronti dell'uomo, dando testimonianza di sé — rivelandosi —. Come il linguaggio umano possa assumere tale rivelazione e portarla resta uno dei nodi del linguaggio credente: dato che la parola umana è sempre circoscritta nella fìnitudine.
    Sul versante opposto di una realtà finita e quindi altra dalla trascendenza resta il problema di come possa recare l'orma - dare segni - e in definitiva chiamare Dìo per nome: sovraccaricarsi di senso. La metafora, la sua risorsa innovatrice e allusiva sembra il presupposto che abilita il linguaggio religioso ad operare «un salto semantico», a trasferirsi sul versante della trascendenza, fino a darvi nomi forse solo evocativi e però significativi.


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