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    La preadolescenza come problema pedagogico



    Mario Delpiano

    (NPG 1993-02-69)


    Guardare la realtà dei preadolescenti e del loro disagio, pensare alla preadolescenza stessa come età della vita, dal «punto di vista» pedagogico, significa compiere una operazione originale di interpretazione, ulteriore rispetto alle letture «parziali» ma preziose offerte dalle scienze umane.
    Gli stessi preadolescenti, fotografati, raccontati, descritti nelle loro dinamiche di crescita e di interazione con gli altri, collocati dentro la complessità sociale, possiamo, da educatori, osservarli con «un paio di lenti» diverse da altri filtri di lettura.
    La prospettiva pedagogica avanza infatti la pretesa di integrare, all'interno di uno «sguardo globale», le molteplici letture della loro realtà, per mettere a fuoco quello che è «il problema» da un punto di vista del tutto originale: quello educativo.
    Essa vuole capire e verificare se e come si produce l'evento (l'accadimento) educativo: lo scambio materiale e simbolico tra soggettività differenti che si incontrano sul terreno della cultura all'interno di un patto.


    PER RITROVARE IL «PUNTO DI VISTA» PEDAGOGICO

    Oggetto dell'interesse della ricerca è la «domanda educativa» che affiora più o meno percettibilmente dal mondo dei preadolescenti e, in raccordo ad essa, l'«offerta educativa» gestita nei luoghi dell'educazione intenzionale, al di là di quel «dappertutto» (la pervasività della cultura sociale) che riesce a plasmare, canalizzare, stravolgere o inibire i bisogni emergenti delle nuove generazioni.
    Il problema in particolare da focalizzare è quello dell'incontro tra domande vitali e offerte educative o, più probabilmente, il mancato incontro tra domanda ed offerta; il che evidenzia la distanza tra mondo delle nuove generazioni e mondo degli adulti.
    La realtà vitale del preadolescente, il suo processo di umanizzazione, la crescita e il cambiamento, vengono assunti come realtà educativa; per questo l'attenzione si rivolge agli scambi comunicativi tra «soggetti diversi» (soggetti tutti, gli adulti e i preadolescenti, coinvolti in processi di cambiamento) sul terreno della cultura sociale, cioè della induzione ma anche della rielaborazione di modelli, stili, linguaggi, rappresentazioni del mondo, prassi di vita.
    All'interno di questo scambio comunicativo, che è un chiamare l'altro dentro il proprio mondo e un lasciarsi ospitare nel mondo dell'altro per creare un terreno comune di condivisione, ciò che va assicurata e sostenuta (e dunque anche realisticamente verificata) è la «centralità del soggetto/preadolescente»; egli viene considerato partner di un patto a più, tutto da ricontrattare, al fine di dare il via ad un cammino da percorrere in compagnia invece che in solitudine.
    In quest'ottica anche il disagio che si manifesta spesso nei preadolescenti, rivelato dai suoi molteplici indicatori, altro non è che un modo con cui i soggetti-negati di un processo comunicativo segnalano, a volte gridando, più spesso proclamandolo in maniera discreta e silenziosa, una comunicazione spesso disturbata, a volte impossibile, in molti casi vitalmente impoverita, culturalmente vuota, o unilateralmente imposta: in ogni caso inadeguata.

    La preadolescenza come problema

    È all'interno della prospettiva educativa delineata che diviene possibile e corretto affrontare la preadolescenza come «problema pedagogico».
    Con sullo sfondo i problemi di una prassi educativa odierna, in un tempo di complessità sociale, di tramonto dei progetti forti e delle grandi narrazioni, di frammentazione culturale, di segmentazione delle prassi educative; all'interno di una crisi della trasmissione culturale dalle radici profonde, e nello smarrimento della funzione dell'educativo nella cultura del postmoderno, mi interessa mettere in luce i problemi che la preadolescenza pone all'educazione, e più da vicino i problemi che i preadolescenti, e in particolare i preadolescenti di oggi, pongono agli educatori, a coloro cioè che sono mossi da una esplicita intenzionalità educativa.
    Questa la prospettiva delimitata dell'intervento, anche se occorre tenere presente che una vasta parte della società adulta che ha a che fare con i preadolescenti, non appare granché animata da alcuna intenzionalità educativa.
    Per tanti adulti i preadolescenti sono una nuova fascia di consumatori da privilegiare, di utenti anonimi cui fornire prestazioni, di fruitori passivi e addomesticabili di offerte confezionate su misura di altri.
    In questo senso la preadolescenza come «problema pedagogico» riguarda però anche le difficoltà, il disagio, i problemi, che qualsiasi educatore soffre sulla propria pelle, coi quali deve fare i conti nel rapporto educativo con i preadolescenti.
    Quel che ora mi interessa e vorrei privilegiare è una riflessione in chiave educativa intorno alle problematiche che stanno a monte di ogni progettazione di intervento educativo-pastorale; quelle problematiche che emergono dalla fatica quotidiana degli educatori di incontrare i preadolescenti, di vivere con loro, di attivare uno scambio comunicativo capace di «aiutare a vivere».
    Assumo come punto di partenza l'analisi del vissuto problematico dell'educatore intorno alla sua esperienza educativa con i preadolescenti, e da questo versante tento di volta in volta di scivolare «dall'altra parte», per riuscire a vedere il mondo e i problemi «dal punto di vista dell'altro», dalla parte dei preadolescenti, i compagni di viaggio dell'avventura educativa.

    IL PREADOLESCENTE AGLI OCCHI DELL'EDUCATORE: QUALE RAPPRESENTAZIONE DELL'ALTRO?

    Una prima difficoltà in cui si imbatte ogni educatore di preadolescenti è quella della definizione della preadolescenza, e del preadolescente in particolare, come «oggetto pedagogico», cioè della costruzione di una immagine sufficientemente adeguata, una rappresentazione corretta e rispettosa dell'altro, in quanto destinatario di una intenzionalità e di una proposta, e in quanto soggetto da incontrare in una relazione.
    Il problema va ricondotto anzitutto ad uno più generale, che sta a monte di ogni intervento pedagogico: la possibilità, la necessità, la funzionalità di qualsiasi «rappresentazione dell'altro» nella relazione educativa.
    Non possiamo farne a meno, per entrare in relazione con una persona, di costruirci una pur provvisoria e rivedibile rappresentazione di essa.
    È la condizione per poterla incontrare e poterne parlare.
    Si tratta però di elaborare una rappresentazione adeguata: essa non deve risultare da un tentativo di «catturare l'altro» entro la propria identità, il proprio mondo, le proprie categorie; si rivelerebbe un ennesimo tentativo, per quanto mascherato, di dominio sull'altro, perciò un atto di violenza.
    È possibile costruirsi una rappresentazione dell'altro che non sia una forma di appropriazione?
    E che valore ha tale rappresentazione?

    La preadolescenza «oggetto pedagogico»?

    La soluzione a questi interrogativi va nella direzione di un superamento e di una rinuncia alla pretesa assoluta di oggettivabilità dell'altro nella rappresentazione pedagogica, dal momento che l'altro è un soggetto di bisogni e di relazioni, mai riducibile alla loro oggettivazione.
    L'altro nella relazione pedagogica deve poter essere e rimanere «altro», novità, ulteriorità rispetto ad ogni rappresentazione e definizione, anche di quelle che egli offre di sé.
    Da questo punto di vista il problema appare risolvibile nella misura in cui l'educatore lascia all'altro lo spazio e la possibilità di rivelarsi, di definirsi e ridefinirsi continuamente; e rinuncia alla pretesa di racchiuderne la rappresentazione entro una figura statica, definita una volta per tutte.
    Ciò che risulta un tema spinoso e delicato nella teoria e prassi pedagogica, diviene una difficoltà spesso insuperabile nella prassi educativa con i preadolescenti.
    L'educatore infatti ha a che fare con soggetti coinvolti in un rapido intenso processo di cambiamento, per cui l'altro rappresentato nella mente dell'educatore rimane davvero in gran parte sempre «altro» (diverso, distante, sorprendente) rispetto ad ogni rappresentazione ed aspettativa cristallizzata.
    La rappresentazione del preadolescente risulta agli occhi dell'educatore sempre inadeguata rispetto al suo cambiamento, a quello che sta diventando.
    Ciò non implica la rinuncia alla esigenza e alla possibilità che l'educatore (perché proiettato verso l'altro da una intenzionalità educativa non catturante, centrato dunque non su se stesso ma sull'altro e sul suo divenire, convertito all'altro come soggetto di desiderio) si costruisca ed elabori una pur provvisoria immagine di preadolescenza e di preadolescente: di quel che significa l'essere preadolescenti, esserlo oggi, dei preadolescenti concreti che egli ha incontrato; e soprattutto ciò non elimina in ogni caso la funzione di quella rappresentazione di preadolescenza, tra reale e ideale, che l'educatore si porta dentro come «paradigma» operazionale, come modello da liberare nell'altro.
    La preadolescenza infatti, come «oggetto pedagogico» all'interno della rappresentazione sociale, non ha solo la funzione di fotografare la realtà di come essa si rivela; essa agisce come un vero e proprio «dispositivo di elaborazione» che, recepito e trascritto, orienta ogni progettazione educativa, quando essa viene attivata; oppure rimane come dispositivo sommerso, sempre attivo e pur sempre condizionante le tante prassi educative correnti, il più delle volte cieche, fondate su stereotipi, su elaborazioni riduttive e perciò pregiudiziali, che caratterizzano spesso i percorsi tradizionali «sicuri», regolati dalla logica del «si è fatto o detto sempre così».
    Diviene pertanto utile e interessante poter verificare il tipo di rappresentazione sulla preadolescenza e sui preadolescenti odierni da parte degli educatori stessi: come di fatto essi se li rappresentano, sia in base all'esperienza soggettivamente elaborata, sia in base alla sistematizzazione di quest'esperienza attraverso categorie descrittive ed interpretative mutuate dalle scienze umane oltre che dalla rappresentazione sociale.
    Ma è anche importante analizzare la rappresentazione di quel dover essere, di quei modelli ideali di preadolescenza che vengono coltivati tra gli educatori e giocati nei processi di definizione degli obiettivi educativi o proiettati come aspettativa nei giochi identificativi duali e gruppali.
    Ricerche su questi aspetti riferite alla preadolescenza, e non solo ad essa, non ne abbiamo a disposizione; rimane certo isolata ed esemplare la ricerca condotta in Lombardia sull'adolescenza, la sua immagine e il trattamento nelle agenzie educative, e curata da Riccardo Massa.[1]
    Solo una minima parte di questa ricerca si riferisce all'educazione dei preadolescenti: ai ragazzi e alle ragazze della terza media e alla immagine che di essi ne hanno gli insegnanti. Il fatto è che nell'immagine il ragazzo di terza media è assimilato all'adolescente, più o meno come quello dell'età successiva, dagli stessi ricercatori.
    Da qui la conseguenza che nella rappresentazione degli insegnanti la preadolescenza non c'è; c'è l'adolescenza della descrizione di tanta letteratura anche scientifica, aggiornata, contestualizzata; a volte magari fa capolino l'adolescente reale, negato poi nel trattamento.
    Sono costretto perciò a non considerare più di tanto questo materiale peraltro prezioso per la nuova linea di ricerca che esso introduce.
    Parto dunque dall'assunto che in qualsiasi relazione l'educatore si costruisce una provvisoria immagine dell'altro ed elabora in anticipo una ipotetica evoluzione di essa verso un modello ideale.
    Diversi possono essere gli elementi che concorrono a costruire questa rappresentazione prospettica dell'altro: le precomprensioni personali recanti le tracce del vissuto e della propria storia personale, le rappresentazioni collettive stereotipate, le categorie descrittive ma anche interpretative dell'età considerata o, piuttosto, di quelle confinanti mutuate dalle scienze umane.

    UNA TIPOLOGIA DI RAPPRESENTAZIONI DEGLI EDUCATORI INTORNO ALLA PREADOLESCENZA

    Se accettiamo che l'adolescenza sia da considerarsi principalmente come un fatto-prodotto culturale, proprio di una società, quella moderna, che riorganizza i processi formativi e riformula le fasi evolutive che preparano l'ingresso al suo interno (Aries 1968, Lutte 1984), sulla stessa linea mi sembra che questo assunto possa valere per la preadolescenza, in un momento storico (la società postmoderna) in cui la situazione di complessità e di frammentazione socio-culturale conduce alla segmentazione dei processi di trasmissione culturale e alla scansione molto più ristretta dei periodi evolutivi; al punto che la tanto conclamata dilatazione dell'adolescenza verso il basso e verso l'alto nel tempo presente, potrebbe anche essere interpretata, a livello di ipotesi, come il segnale di una sua incipiente frantumazione.
    A questo dato di complessità si assomma, e con esso si intreccia, il fatto della rappresentazione sociale della preadolescenza odierna o di tante preadolescenze differenti secondo le variabili considerate.
    Il ventaglio delle rappresentazioni sociali della preadolescenza si avvicina più ad un panorama caleidoscopico cangiante che non a figure dal contorno ben delineato e persistente.
    La tipologia che in maniera alquanto approssimativa tento di delineare, prende in considerazione il fatto della identificazione o meno della preadolescenza come «età della vita», come fase o momento evolutiva in sé, segnato da propri compiti di sviluppo, e della sua identificazione in base alla continuità/discontinuità con la fanciullezza che la precede e con l'adolescenza che l'accompagna.
    Dal riconoscimento della continuità/discontinuità con queste due fasi confinanti, emergono figure abbastanza coerenti di rappresentazione, cui si possono ricondurre le molteplici rappresentazioni circolanti nell'educativo.
    All'estremità di un continuum bipolare individuo una rappresentazione della preadolescenza (negata in quanto fase evolutiva) assorbita e inglobata prevalentemente come propaggine coerente della fanciullezza; al polo opposto, come ulteriore negazione, colloco un'altra rappresentazione che vede la preadolescenza tutta assorbita nell'adolescenza.
    In queste due figure essa rimane «età appendice» schiacciata verso il basso o verso l'alto.

    La preadolescenza: fase evolutiva non-identificata in totale continuità con la fanciullezza

    Il primo gruppo di rappresentazioni circolanti sulle quali richiamo l'attenzione degli educatori è quello in cui la preadolescenza non viene assunta come età specifica, in nessun modo distinta dal periodo della fanciullezza, il periodo della latenza.
    In tale prospettiva la preadolescenza è considerata più che altro una propaggine della fanciullezza, un suo prolungamento, al più un insieme di segnali che essa sta per concludersi.
    Il preadolescente viene così visto come quel «bambino cresciuto», ma pur sempre bambino: tipico al riguardo il linguaggio insistente, monotono quasi, della cronaca dei quotidiani e dei media in genere, che in cronaca continuano a parlare del preadolescente come di un «bambino/a» quando si riferiscono a dodicenni e tredicenni protagonisti attivi o passivi di cronaca nera.
    In questa immagine il preadolescente viene rappresentato come un bambino che manifesta magari irrequietezza e nervosismo, che non si riesce più tanto a «tenere buono» (cioè sottomesso agli adulti), verso il quale occorre alzare il livello delle richieste, la posta dei ricatti e delle imposizioni, rinforzare le barriere di contenimento e magari di sfogo controllato. I bisogni e le esigenze di questo preadolescente sono né più né meno identificati con quelli di un non-più-tanto bravo/brava fanciullo/fanciulla.
    All'interno di questa rappresentazione il cambiamento è totalmente negato. I segnali della crescita, gli indicatori di un avvio del cambio, le manifestazioni di irrequietezza e di insofferenza dell'assetto pedagogico, vengono per lo più ridimensionati e ricondotti a pura e semplice «irrequietezza fisiologica».
    In questa prospettiva tutti i segnali del «disagio» sono considerati meri «capricci infantili» e la battaglia segreta tacitamente attivata dai soggetti viene svuotata del suo significato simbolico. Gli interventi educativi tendono ancora alla infantilizzazione, alla riproposizione di giochi relazionali finalizzati a richiedere ulteriormente l'identificazione nel modello adulto, come se poco o nulla stesse cambiando.
    I compiti di sviluppo non sono identificati e il problema educativo è vissuto come problema di «contenimento» nel senso riduttivo di una più forzata riproposizione di soluzioni fondate su meccanismi difensivi, nel meglio delle ipotesi come problema di spostamento e di deviazione di tipo sostitutivo; poco o nulla il problema viene inteso nel senso invece di soluzioni proattive, in grado esse sole di produrre cambiamenti in termini relazionali e in termini di nuova identità; di mettere perciò in discussione il gioco delle identificazioni infantili.
    Si ritiene che la preadolescenza riproponga tout court il medesimo assetto di bisogni e di strategie di elaborazione della fanciullezza; al massimo si riconosce il fatto di un intensificarsi soltanto quantitativo della pulsionalità all'interno però di un quadro che non ha nulla di nuovo.
    Entro questo schema rientrano semplificazioni e immagini stereotipate che configurano il preadolescente (maschio soprattutto) come un soggetto ora irrequieto, agitato, indisciplinato, ora invece svogliato, indolente e passivo, globalmente incapace di autogoverno e autodirezione; si riafferma così l'assoluta necessità della eterodipendenza ed eterodirezione, che non fanno che giustificare il dominio dell'adulto.
    Si ha l'impressione così di trovarsi dinanzi ad un tentativo di prolungamento forzato della fanciullezza.
    Una tale rappresentazione mi spinge ad ipotizzare negli educatori l'esistenza di atteggiamenti caratterizzati da una certa resistenza alla rivisitazione della propria rappresentazione del «preadolescente bambino», con una incapacità di decodifica di tutti quei segnali che chiederebbero nell'educatore un cambiamento sia nella rappresentazione dell'altro che nella relazione educativa, oltre che una rivisitazione dell'assetto istituzionale e della progettualità.
    La «rappresentazione congelata», rigida e non flessibile e dinamica, dell'altro («non si sa chi mai potrebbe diventare un preadolescente!») induce ad immaginare nell'educatore una resistenza alla ridefinizione di sé, una paura di mettere in discussione le strategie o le tattiche formative, magari collaudate e sicurizzanti quanto a chiarezza di posizione di ruolo adulto e quanto a gratificazione personale.

    La preadolescenza come età-indefinibile: età «vuota»

    Una seconda immagine di preadolescenza di cui gli educatori sono portatori sembra essere quella che vede la preadolescenza come un'«età anguilla», età sfuggente, che sempre sorprende l'aspettativa dell'operatore educativo; perciò un'età indefinibile, che non si lascia racchiudere in una figura coerente e costante.
    Secondo questo modello la preadolescenza viene considerata come «età dell'ancora e del non più» per quanto riguarda la continuità/discontinuità con la fanciullezza, ed «età del già e del non ancora» per quanto riguarda il suo rapporto con l'adolescenza.
    Il cambiamento, contraddittorio e sorprendente, sembra in tal modo percepito e riconosciuto, tuttavia non identificato entro una figura comprensibile e coerente.
    Gli indicatori del cambiamento e della novità del momento evolutivo vengono tuttavia interpretati a partire da una collocazione a metà strada, che utilizza come elementi descrittivi fenomeni che possono qualificare la preadolescenza solo per la sua «distanza» da fasi esterne ad essa.
    La rappresentazione oscilla tra i due confini estrinseci all'età, la fanciullezza e l'adolescenza, ma alla fin fine essa rappresenta o sostituisce solo un «vuoto» consapevolmente sofferto dagli operatori nell'educativo.
    E appunto perché «vuoto» si tende a non considerarla e a lasciarla scomparire dall'orizzonte progettuale.
    A tutto ciò si accompagna la sensazione, da parte dell'operatore, della inadeguatezza dei propri e altrui interventi, della impossibilità di definire l'evoluzione intrinseca della fase, se non attraverso il favorire la presa di distanza dall'età inferiore e l'avvicinarsi nel più breve tempo possibile a quella successiva. Non c'è e non ci può essere nulla di originale e di caratteristico da vivere nel tempo della preadolescenza. Né alcuna meta o compito evolutivo definibile!
    La preadolescenza è rappresentata come «età di transizione», età ponte, fenomeno evolutivo di guado, e il preadolescente è collocato in quella ambiguità di un essere che non è «né carne né pesce»... cosicché alla fin fine ogni intervento non può che rivelarsi inadeguato e votato all'insuccesso («l'età ingrata»!)
    A ciò si accompagnano prevedibilmente atteggiamenti di attendismo educativo, calorosi appelli all'esercizio della pazienza e dell'attesa da parte dell'educatore, perché, si pensa, «prima o poi la sventura passerà».
    Questa situazione di indefinibilità sembra più spesso giustificare l'alternarsi incongruente nell'educatore di atteggiamenti eccessivamente responsabilizzanti di adultismo con atteggiamenti opposti, infantilizzanti, tesi a misconoscere la soggettività del preadolescente.
    E così ragazzi e ragazze sono più spesso sottoposti a condizioni educative contraddittorie, indefinite, come esprime con lapidaria chiarezza questa dodicenne parlando dei suoi genitori: «... Mi dicono sempre che sono troppo piccola per certe cose... però devo essere abbastanza grande per altre!».

    La preadolescenza dissolta nell'adolescenza

    Questa immagine di preadolescenza è forse la più diffusa; con essa si sottolinea la discontinuità e la novità rispetto alla fanciullezza, e si attribuisce un significato di segnale di annuncio del nuovo ai molteplici indicatori del cambiamento che la fanno accostare ed identificare con l'adolescenza tout court.
    È sottolineata di conseguenza la continuità con l'adolescenza, in cui essa è inglobata, e perciò viene supportata nella sua rappresentazione da tutto quanto offre la ricerca scientifica sull'adolescenza e da quanto offre la rappresentazione sociale odierna.
    In questo senso la preadolescenza non verrebbe affatto a differenziarsi dall'adolescenza; per alcuni ne rappresenterebbe la prima tappa, al punto che a volte la si identifica con la «prima adolescenza», per altri con il fenomeno pubertario, l'ingresso in adolescenza.
    La totale assimilazione all'adolescenza spesso impedisce di cogliere il significato specifico ed originale di dinamismi e fenomeni focali (Coleman 1983) che non possono essere misconosciuti (Cospes 1986).
    I bisogni e le domande, ma anche le strategie di elaborazione, sono ritenuti né più né meno quelle dell'adolescenza. Si suppongono percorsi di elaborazione dell'identità personale e sociale, di autonomizzazione e di individuazione tali che si rimane sorpresi e delusi quando le aspettative coltivate («Quanto sono ancora bambini!») e i compiti evolutivi ad essa attribuiti si rivelano il più delle volte irraggiungibili e gratuitamente predefiniti.
    La percezione consapevole e netta del cambiamento favorisce, entro questa figura, la ridefinizione del progetto di intervento e del setting educativo (comunicativo-relazionale in particolare), anche se esso tuttavia risulta alla fin fine non ancora mirato su bisogni, regolato su dinamismi e percorsi di elaborazione propri del momento preadolescenziale. Si pensi, per esempio, alla ricorrente assenza di riferimento e di elaborazione educativa dell'identità corporea e psico-sessuale, comune un po' a tutte le agenzie, come è documentata anche dalla ricerca curata da R. Massa; o ancora alla accentuazione oltre misura del cognitivo e dei processi di pensiero formale da un lato, e l'esaltazione dell'identità nella sua componente temporale e di interiorità dall'altro (l'accentuazione sulla progettualità, l'ossessionante problema dell'orientamento scolastico e professionale), misconoscendo invece il problema dell'identità gestita prevalentemente sulla linea dell'«esteriorità», dell'esplorazione e della sperimentazione quasi per gioco, né privilegiando le dimensioni spazio-motoria (il corpo agito nello spazio) e socio-relazionale (l'io proiettato in relazione con gli altri).

    La preadolescenza come età identificata e identificabile

    Questa quarta immagine, in realtà scarsamente diffusa, coltivata per lo meno nell'educativo soprattutto dai progetti educativi specifici e mirati per l'età (quelli associativi) e che sembrano esprimere una maggior sensibilità e un accentuato interesse per una precisa identificazione della preadolescenza e dei preadolescenti attuali, descrive e considera la preadolescenza come caratterizzata da dinamiche evolutive, fenomeni focali, configurazione di bisogni e interessi che ne fanno un momento relativamente autonomo della crescita e del cambiamento, e ciò attraverso l'asserzione di «una certa, seppure relativa, discontinuità» sia con la fanciullezza che con l'adolescenza.
    Tutta una serie di fenomeni emergenti vengono colti come segnali di un cambiamento in atto e di una richiesta di profonda trasformazione dell'assetto educativo e dei modelli comunicativi; il tutto viene interpretato entro una figura coerente in cui acquistano significato le contraddizioni e le ambivalenze, registrate dalle rappresentazioni descritte in precedenza, ma non caricate di significato.
    La preadolescenza è qui età di «soglia», in transizione, di uscita e di ingresso.
    Entro questo quadro di preadolescenza, che la ricerca ha il compito di investigare e di ridefinire ulteriormente, si iscrivono anche i più recenti contributi in termini di interpretazione e categorizzazione della ricerca Cospes (1986, De Pieri-Tonolo 1990).
    In questa prospettiva infatti matura anche l'esigenza di una ridefinizione più mirata e specifica della preadolescenza in quanto oggetto e problema pedagogico, di rivisitazione dei dispositivi di elaborazione e di una più specifica progettazione educativa.

    L'ALTRA FACCIA DEL PROBLEMA: LA CRISI DI IDENTITÀ DELL'EDUCATORE

    La difficoltà di definizione e di riconoscimento del preadolescente nel suo «divenire altro», soggetto sempre sfuggente nella relazione educativa, accentua nell'educatore anche la difficoltà di definire se stesso nella relazione con il preadolescente.
    Se questo è un problema di ogni relazione educativa, la situazione per così dire sgusciante del preadolescente lo accentua maggiormente e lo esaspera al punto da configurarlo come «il problema secondo» degli educatori dei preadolescenti.
    La difficoltà di rappresentazione e di identificazione del «destinatario-preadolescente» in quanto partner di un rapporto di scambio asimmetrico, e la ineliminabilità dell'alterità dell'altro nella relazione trascinano dunque con sé il problema dell'identità dell'educatore del preadolescente e lo espongono ad una crisi profonda.
    La risposta alla domanda prima che deve porsi ogni educatore: «Chi è l'altro nella relazione educativa che io intendo attivare con lui?» (quell'altro da educare e da cui essere educato, l'altro da incontrare, da accogliere e da cui essere accolti...), è fondamentale né può essere isolata dalla risposta ad una seconda domanda: «Chi sono io che ho la pretesa di incontrare l'altro nella differenza?».
    L'educatore ha anche bisogno di anticipare a se stesso la propria identità di educatore in relazione con l'altro, non solo come identità di ruolo, di posizione (perciò insegnante, genitore, animatore, educatore professionale...).
    La preadolescenza risulta perciò essere un'età particolarmente «destabilizzante» dal punto di vista educativo• anzitutto nella ridefinizione dell'identità comunicativa-relazionale dell'adulto educatore.
    I problemi dell'identità dell'educatore possono essere raggruppati attorno alle seguenti difficoltà.
    - Anzitutto una esigenza urgente, ineludibile, di ricupero da parte dell'educatore adulto della storia personale della propria preadolescenza; il che significa in gran parte il riscatto della propria preadolescenza negata. È questo un aspetto fondamentale e assolutamente prioritario: se è vero che la preadolescenza viene solo di recente riconosciuta e identificata nei suoi vissuti e nella sua originalità di età della vita, dobbiamo riconoscere che di essa noi adulti siamo stati in gran parte espropriati. L'occasione di giocarsi con loro nella relazione induce nell'adulto, spesso per la prima volta, il desiderio e la paura di ricuperare ed esplicitare un pezzo della storia personale non ancora vissuta, perché non rielaborata. Risulta allora particolarmente interessante, per la liberazione dagli stereotipi, un lavoro collettivo di adulti che insieme cercano di ricuperare i frammenti di queste storie di preadolescenze sommerse.
    - Una seconda difficoltà è quella di operare un tentativo serio, favorito dalla acquisizione di categorie interpretative poggianti sulla riflessione scientifica (in gran parte ancora carenti), di «lettura interpretante» e non solo descrittiva, del cambio preadolescenziale e del nuovo che esso comporta, sia nella rappresentazione dell'educatore che nella sua ridefinizione come soggetto di relazione con il preadolescente. La risposta a questa ricerca deve poter dire «che cosa oggi richiede sul serio agli educatori l'essere preadolescenti».
    - Una terza difficoltà da parte dell'educatore è quella di liberarsi dall'immaginario con i suoi fantasmi persecutori che raffigurano il preadolescente come minaccia al setting educativo, soggetto destabilizzante l'equilibrio dell'ambiente educativo. Il preadolescente (quello maschio soprattutto) visto come soggetto disorganizzato dal punto di vista organismico ed esperienziale, con la sua incontenibilità, la sua esplosione pulsionale trascritta attraverso il corpo agito, viene vissuto dall'adulto, come «eversore» dell'ordine costituito negli anni della latenza. Egli viene rappresentato come il dissacratore, discreto e sotterraneo, perciò sfuggente, di ruoli e di ritualità instaurate dall'ordine simbolico dell'adulto.

    IL PREADOLESCENTE COME SOGGETTO DI UNA DOMANDA

    Un problema che si colloca tutto dalla parte dell'educatore, perché si riferisce al modo di porsi dinanzi al preadolescente, è quello della considerazione del preadolescente come soggetto di bisogni; il che implica il conseguente compito della loro decodifica e della interpretazione come «domanda» da inserire entro una progettazione educativa.
    Che cosa vuole davvero il preadolescente? Di che cosa ha bisogno? Conosce se stesso e il suo cambiamento? Quali bisogni riesce ad esprimere in maniera consapevole e quali invece egli consegna totalmente all'interpretazione dell'adulto? Quale percorso di umanizzazione, cioè di elaborazione culturale del bisogno, egli intraprende, in un tempo in cui i bisogni vengono sempre più manipolati, devitalizzati, svuotati della carica di cambiamento e di creatività, e sempre più consegnati all'interpretazione altrui? Quali bisogni del preadolescente sono da considerarsi autentici e quali invece sono indotti attraverso manipolazione? Verso «dove» essi spingono?
    Sono queste alcune delle domande a cui non è possibile sottrarsi, se si intende prendere sul serio i soggetti, le loro domande, i loro debolissimi punti di partenza ai quali agganciare un qualsiasi itinerario educativo.

    Quali bisogni nel preadolescente?

    La preadolescenza è certamente segnata dall'accrescimento della pulsionalità vitale. Lo slancio dirompente e disorganizzante del cambio è espresso attraverso bisogni che cercano risposte spesso improcrastinabili. Sono modulazioni, espressione nuova, spesso molto parziale, del desiderio.
    Sono i bisogni primari e secondari che richiedono percorsi di soddisfacimento e di elaborazione differenti dal recente passato. Si tratta di bisogni di sicurezza e di fiducia, di riconoscimento e di conferma, di identità e integrazione corporea; ma anche di esplorazione, conquista e appropriazione della realtà a partire da se stessi; bisogni affettivo-relazionali di intimità e vicinanza, di fusione e al contempo di differenziazione, di autonomia e di inclusione sicurizzante.
    L'aspetto più caratteristico da considerare, da un punto di vista educativo, riguarda il loro livello di espressione e di elaborazione: ci sono i bisogni non-detti e quelli detti-altrimenti, quelli verbalizzati e condotti alla consapevolezza con il sostegno di un contesto che favorisce l'interpretazione; quelli trascritti in prevalenza attraverso il corpo agito (il modulo analogico come modalità privilegiata della comunicazione tra i preadolescenti?). O ancora i bisogni alienati e «consegnati» nella interpretazione e nella gestione ai percorsi abbaglianti della cultura di massa e del consumo.
    Ed infine c'è il legame stretto bisogno- interesse nella preadolescenza, dal momento che attraverso gli interessi sembra davvero affiorare la soggettività dei bisogni.
    Che dire degli interessi dei preadolescenti, messi in luce anche da recenti ricerche: chi e in nome di che cosa è autorizzato a riconoscerli come autentici interessi o pseudo-interessi indotti?

    Quando i bisogni diventano domanda educativa

    Un elemento sul quale vorrei richiamare l'attenzione degli educatori è lo scarso livello di consapevolezza soggettiva dei bisogni personali; esso consiste nel fatto che il preadolescente non riesce a coglierne il significato in relazione al proprio cambiamento e al processo di umanizzazione.
    E poi il loro scarso e assai debole livello di elaborazione culturale all'interno dei percorsi linguistici della cultura sociale, ancora molto colonizzatrice verso i preadolescenti. Infatti dei bisogni e della loro consapevolezza gran parte dei preadolescenti ne sono espropriati: con questo fatto deve anche fare i conti l'educatore.
    Il bisogno può diventare domanda educativa nella misura in cui viene investito nel processo di presa di coscienza soggettiva, inserito nel cammino di ricerca e costruzione dell'identità, orientato dal radicamento critico e creativo nella cultura sociale. In tal modo esso diviene «compito di sviluppo».
    Questo compito non può essere lasciato al preadolescente. Deve essere in un certo qual modo anticipato, promosso, definito, sostenuto dall'adulto.
    La domanda educativa del preadolescente è ancora tutta implicita, essa deve essere faticosamente decodificata.
    È una domanda che si specifica in questi termini:
    - una domanda di «autocomprensione» consegnata all'esterno; è la ricerca di un supplemento di coscienza e di interpretazione, che diviene «ricerca di qualcuno», di una relazione, meglio di un «contesto comunicativo» entro cui liberare la parola sui bisogni, permettere al corpo di esprimerli e di avviarne l'elaborazione culturale. Questo compito il preadolescente non riesce a gestirlo da solo: è alla ricerca di una compagnia fidata;
    - una domanda già avviata nella elaborazione culturale anche se scarsamente soggettivizzata. Nel preadolescente di oggi appare avviato già un primo tentativo di elaborazione soggettiva dei bisogni: è quello indicato dal percorso degli interessi, soprattutto gestiti lontano dalle agenzie-madri della inculturazione. L'interesse può essere assunto dall'educatore come indicatore di uno spazio materiale e simbolico, entro cui affiora una prima presa in carico soggettiva da parte del preadolescente dei propri bisogni e un primo tentativo di elaborazione personale. Naturalmente con tutta l'ambiguità, da portare alla coscienza, della induzione ambientale e della manipolazione culturale.
    In questo senso gli interessi dei preadolescenti sono ancora in larga parte «interessi di altri», il sintomo di una eteroprogettazione, anche se assumono per il soggetto un significato, spesso solo una parvenza di autoprogettazione, di autorientamento, di sperimentazione di sé nella cultura sociale.

    Una domanda che sfida l'educativo

    La domanda educativa del preadolescente è dunque da assumersi come una sfida rivolta alle agenzie e agli educatori; essa è la condizione educativa per non dilatare e produrre un'età del disagio.
    Essa richiede all'educatore:
    - di riconoscere e favorire lo sviluppo della soggettività preadolescenziale (auto- comprensione di sé come soggetto di bisogni e presa in carico della responsabilità della loro elaborazione), contro la facile tendenza alle deleghe in bianco da parte dei soggetti o ai tentativi continui di deresponsabilizzazione e di condizionamento interessato da parte del mondo adulto;
    - di gestire bisogni-interessi in una prospettiva di intersoggettività. Il che vuol dire saper favorire l'incontro con la soggettività degli altri, proprio nel momento della elaborazione del proprio bisogno; e ciò a fronte di una tendenza, favorita da una cultura del narcisismo, alla chiusura nella gratificazione immediata e nella ricerca di percorsi di piccolo cabotaggio;
    - di realizzare e favorire lo scontro-incontro con la corposità-materialità del mondo (la natura, le cose, gli altri) che si sperimenta nel «fare esperienza» della realtà, per non allontanarsi da essa;
    - di favorire l'incontro con la realtà attraverso la mediazione liberante della memoria culturale, quale fruttuoso percorso di umanizzazione dei bisogni che li radica in una cultura sociale;
    - di intervenire e instaurare modelli di comunicazione con il mondo degli adulti (mediato dall'educatore e dalla comunità educativa) che segnino una discontinuità con il passato infantile e si presentino come nuove possibilità di relazione tra generazioni, capaci di assicurare riconoscimento proprio alla soggettività dei preadolescenti.


    NOTA

    [1] R. Massa (a cura), L'adolescenza: immagine e trattamento, Angeli, Milano 1990.


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