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    Tra razzismo e integrazione


    Tavola rotonda con Tullio Tentori, Laura Balbo, Fathi Makboul a cura di Fatima Lucarini

    (NPG 92-06-13)

     

    Domanda. Nei confronti degli immigrati terzomondiali si esprime una serie di atteggiamenti contrapposti, dalla solidarietà all'intolleranza. L'intolleranza e il rifiuto dell'altro che vanno sotto il nome di razzismo sono particolarmente preoccupanti perché storicamente ricorrenti e ideologicamente costruiti e connotati. Ma cos'è il razzismo?

     

    DISAGIO, INSOFFERENZA, RAZZISMO

    Tentori. È un'ideologia che sul piano scientifico prende piede nel secolo dei lumi, ad opera di alcuni scienziati che, stimolati dall'evoluzionismo, pretendono di classificare tutto, gli uomini come se fossero piante. Però è un male antico e comincia molto prima, fin da Aristotele. Nel secolo scorso un nobile francese, Gobineau, scrisse il «Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane», in cui propose l'idea della razza ariana come la razza pura. Egli intendeva valorizzare la nuova nobiltà a cui lui stesso apparteneva, e farla risalire ad alcune caratteristiche originarie, singolari. Da Hitler e dal movimento nazista inizia la politicizzazione alle sue estreme conseguenze di questo pregiudizio.

    Le ideologie razziste di derivazione nazista sono effettivamente residui di precedenti culture tenute in piedi da gruppi che si sentono superati e che vogliono richiamare l'attenzione (e in questo fanno male giornalisti e mass media che stimolano questi gruppi parlandone, facendo da cassa di risonanza). Quello attuale invece è il razzismo come opposizione all'immigrato: è il voler giustificare la sua esclusione bollandolo come inferiore. In realtà è la paura che viene dalla non conoscenza: la paura che porti via posti di lavoro, che «disturbi» l'ordinamento costituito, ecc. È sempre così, tutto quello che non rientra nell'ordine crea paura; il nuovo e il diverso sono perlomeno una possibilità di rompere gli equilibri; e pesa anche la paura di perdere il centro, la paura cioè di vedere che alla fin fine il centro del mondo non è proprio là dove uno posa i piedi.

    Domanda. Ma l'Italia è un Paese razzista?

    Balbo. È questa una delle domande rimbalzate da più parti, in questi anni, in Italia. Vorrei fare una precisazione sul termine. Parlando di razzismo molti si riferiscono ad atteggiamenti o tratti della personalità. Ma vi è un'altra accezione che a me come sociologa interessa di più, e si definisce in riferimento alla società nel suo insieme, ai processi di cambiamento messi in atto, come e perché, e dunque anche agli eventuali processi di razzizzazione, altrimenti ci si nasconde dietro un'immagine semplicistica e di comodo che in realtà nasconde e copre più che rivelare. Da questo punto di vista mi sembra che l'Italia non sia affatto diversa dagli altri Paesi. In realtà non ci eravamo mai occupati di tale problema, dato il nostro passato coloniale molto diverso dagli altri Paesi, e dato anche il nostro sistema politico e amministrativo che ci ha fatto mettere mano alla questione dell'immigrazione terzomondiale abbastanza tardi e in maniera raffazzonata. Questa carenza sociale e politica complessiva, il modo diverso dunque con cui si è posto il problema, ha creato un insieme di condizioni pochissimo favorevoli al maturare di un comportamento e di un'immagine a cui riferirsi simbolicamente.

    Dire che stiamo diventando un paese razzista è controproducente, semplicistico e non spiega quasi nulla. In realtà siamo un Paese diverso da quello di pochi anni fa. Non ci sono solo le immigrazioni con cui stiamo effettivamente facendo i conti dagli inizi degli anni Ottanta; c'è tutta una convergenza di fattori negativi che rendono tutto meno governabile. Non c'è un centro illuminato capace di portarci verso politiche di immigrazione, di integrazione positiva; sul piano socioeconomico si vede all'orizzonte disoccupazione, mancanza di alloggi, non funzionamento del sistema sanitario. Nei confronti della popolazione immigrata noi continuiamo nell'equazione immigrati = poveri o fortemente emarginati ed esclusi, anche se è ovvio che nel determinare il fenomeno migratorio concorre in massima parte il differenziale economico.

    Tuttavia quasi automaticamente connotiamo di giudizio morale la povertà, che finisce col diventare positiva esclusione. E dunque ci poniamo in difficile rapporto con essi, in modo diverso da anni fa in cui il modello di società e di stato permetteva di limare progressivamente almeno le più grandi disuguaglianze e si assestava sul modello europeo nel senso di «stato sociale».

    Adesso il modello europeo diventa quello dell'Europa multirazziale e multiculturale, e dunque anche il problema in Italia è da vedere in questa direzione, perché ne è lo sviluppo futuro, e non riesco a intravedere un'Italia che sviluppa politiche sue, perché diversamente la situazione diventa non governabile. Basta vedere il problema delle frontiere aperte o chiuse...

    Tentori. La situazione sta peggiorando in questi anni, con l'aumento del numero degli immigrati. Non certo presso alcuni gruppi élitari aperti e che respingono ogni forma di razzismo. Ma la massa, soprattutto il ceto medio e anche quello basso (per non dire del curioso atteggiamento della classe agiata, che accetta l'immigrato finché gli è utile come manodopera casalinga a buon mercato o come status symbol, per prenderne poi le distanze quando li vedono al di fuori di questi ruoli), respingono l'immigrato con svariate motivazioni.

    Certo, l'immigrato non è un angelo, come nessuno di noi lo è, e non è immune dalle nostre stesse debolezze. Quando poi giungono nel nostro Paese, poveri, senza lavoro e senza casa... magari possono anche cadere in mano a organizzatori del crimine e della prostituzione. Ma per necessità, non per vocazione!

    Makboul. Non penso che in Italia ci sia razzismo, anche se capitano episodi anche gravi di intolleranza. Forse qualche giovane ingannato da vecchi nostalgici che soffiano sul fuoco...

    Ma vorrei tornare un istante sul tema del razzismo come ideologia. Albert Memmi, un tunisino professore di antropologia a Parigi, nei suoi studi illuminanti sul razzismo, afferma che esso ha la sua forza non tanto nella coerenza teorica (ogni argomentazione al riguardo è facilmente smontabile), ma nell'efficacia emotiva che riscuote e nelle finalità che si propone. I caratteri che creano la forza del razzismo sono anzitutto la propensione alla diffidenza verso il diverso, che si situa in un contesto culturale, sociale e storico ben determinato, e infine si fonda su l'utilizzazione della differenza contro gli altri per ottenere dei vantaggi. Qui alla fine starebbe il nodo del significato del razzismo. La sua finalità che lo rende appetibile e radicato sta nella dominanza: il razzismo illustra e simboleggia l'oppressione.

    Comunque, se ce ne fosse ancora bisogno, ricordo che ormai da tempo l'antropologia moderna ha riaffermato che tra razza e cultura non corre un rapporto di necessità: il concetto di razza non ha alcun valore esplicativo rispetto alle differenze culturali. Non ha senso infatti confondere il concetto di razza, nel suo senso specifico essenzialmente biologico, con i «prodotti» - psicologici, letterari, filosofici, sociologici - delle diverse culture umane. Gli uomini possono naturalmente essere, e di fatto sono, diversi dal punto di vista razziale; nel senso della produzione culturale, come produzione di senso e valori, gli uomini convergono invece al di là delle differenziazioni culturali specifiche: si ritrovano uniti in uno stesso vincolo, produrre significati, lingua, coscienza per la grande avventura comune del vivere e del dare significato umano alla vita.

    Domanda. A proposito di giovani, ci sono certamente segni ambigui del loro modo di collocarsi di fronte all'immigrato terzomondiale.

    Balbo. Gli adulti si fanno delle immagini stereotipate dei giovani. Nelle ricerche si notano comunque atteggiamenti contraddittori: a manifestazioni molto forti di antirazzismo fanno seguito anche scelte di un leghismo che spaventa. Ma questo è probabilmente un problema della società adulta, non dei giovani. È la società adulta che non si è interrogata prima su un processo che andava maturando e che non ha certamente dato nessuna risposta valida. I giovani si sentono, magari a torto, minacciati e abbandonati. Le manifestazioni di sorpresa o di condanna da parte degli adulti, la nostra presa di distanza non risolve nulla. Quelli della mia generazione hanno dovuto affrontare il problema dell'antisemitismo perché ne hanno conosciuto l'esperienza, ma quali strumenti possiamo noi offrire alle giovani generazioni che non hanno avuto modo di elaborare una loro posizione e che sono certamente in una fase di maggior insicurezza e incertezza? Giorgio Bocca ha detto bene quando ha parlato di «razzismo elusivo», che sarebbe la modalità tipica dell'adulto italiano nell'affrontare i rapporti etnici: non vuole affrontare il problema e tende ad eluderlo, non parlandone o non riconoscendosi in un atteggiamento intollerante dichiarato, salvo poi a dimostrare continuamente atteggiamenti razzistici (o comunque di intolleranza) appena negati.

    VERSO UN'INTEGRAZIONE CULTURALE?

    Domanda. Perché si rifiuta l'altro? Cosa è cambiato nel rapporto con gli altri?

    Makboul. Vi è sempre paura e sospetto dell'altro, è una reazione emotiva che ha quasi i caratteri dell'universalità e dell'inevitabilità, come affermano gli studi psicologici e antropologici; e in ogni caso in questa reazione compaiono sempre atteggiamenti ambivalenti, perché l'altro, il diverso, può essere visto come ricchezza e come minaccia.

    Balbo. Nella nostra società costruiamo continuamente «altri», che servono a gratificare noi stessi come migliori: questo è un gioco che deve aver molto a che fare con fatti profondi come l'aggressività. Il rapporto tra gruppi e condizioni diverse nella società multiculturale è un problema del tutto aperto, e dobbiamo ancora imparare a rendere decenti e positivi i rapporti tra le persone, che sono comunque sempre rispettivamente «altre».

    Domanda. Il discorso che si fa oggi, da più parti, supera la pura idea dell'accoglienza, dell'assistenzialismo per arrivare all'ipotesi di una integrazione, financo culturale. Ma il più delle volte dal punto di vista del «più forte» integrazione vuol dire annichilimento dell'altro, non riconoscimento del suo bagaglio culturale e della sua identità, integrazione insomma come sopportazione, sfruttamento, non riconoscimento dei diritti, misconoscimento. È questo il tipo di integrazione proposta oggi in Italia?

    Tentori. È un problema di difficile soluzione. Lo è già per noi italiani, basti vedere il fenomeno delle leghe, le differenze tra regioni e i molteplici pregiudizi, figuriamoci poi nei confronti di chi viene da parti diverse del mondo con usi e costumi propri. Oltre al fattore etnico-culturale si aggiunga poi il fattore religioso, e si vedrà quanto è complicato, antropologicamente parlando, assumere l'integrazione culturale come un'ipotesi facilmente praticabile.

    Makboul. È un discorso da fare, da proporre. Chi va in un altro Paese, deve essere in grado non solo di vivere da segregato, ma di «comprendere» la nuova cultura e inserirsi in essa, mantenendo però la propria d'origine. Gli immigrati vogliono inserirsi nella nuova struttura sociale, ma non per questo debbono rinunciare alla loro identità, a quell'insieme di valori, dalla lingua alla religione, che sono fondamentali per l'autocollocazione e l'equilibrio di ogni essere umano. Certo non è facile, ma dobbiamo tener conto del fatto che moltissimi immigrati hanno titoli di studio e quindi anche capacità critiche per comprendere ciò che fa parte del patrimonio culturale d'origine ed espressione di ricchezza e di novità, rispetto a ciò che è caduco, provvisorio; e molti già si sono inseriti nella nuova società, anche attraverso matrimoni, e senza tradire le loro origini. Ma è ovvio che l'integrazione culturale così intesa è uno degli ultimi livelli dell'inte grazione, che parte dall'accoglimento e rispetto dell'altro, del suo riconoscimento a livello sociale e di diritti, perché non vengano alla fine sempre considerati come cittadini di serie inferiore.

    Balbo. Una piena integrazione culturale è del tutto impossibile, e non so quanto potrebbe essere una buona soluzione. Le culture non sono un abito che si può togliere o indossare, ma vogliono dire religione, costumi, tradizione, identità personale e sociale. Del resto, la storia mostra la difficoltà di questa soluzione, e la presenza sempre più viva e forte di minoranze che, anche dopo essere da tempo presenti sul territorio di accoglienza, formano comunità, se non impermeabili, almeno alquanto arroccate, se non altro come comunità di difesa.

    Domanda. Il sociologo Ferrarotti, a proposito dell'esplosione del conflitto etnico, parla della priorità del problema della convivenza e della tolleranza, nel rispetto della nuova autoconsapevolezza culturale di chi «esce dai sotterranei della storia». E confuta le due teorie sociologiche di integrazione proposta, quella della «melting pot» americana e quella del «villaggio globale», in quanto l'una non tiene conto del fatto che i gruppi diversi spontaneamente tendono ad arroccarsi in comunità difensive, e l'altra non tiene conto dei fattori umani, soggettivi e temporali oltre quelli tecnologici della comunicazione. Quali possono essere le strade della possibile integrazione?

    Tentori. Vi è anzitutto un problema di presa di coscienza delle motivazioni che portano al rifiuto, all'intolleranza: e qui credo che il superamento del pregiudizio etnocentrico europeo sia un passo assolutamente necessario, come anche l'intreccio tra differenza etnicoculturale-religiosa con la diversità di classe, e poi avviarsi decisamente verso la costruzione di una nuova cultura in cui si riconosca la comune umanità degli esseri umani e si concepisca, come dice lo stesso Ferrarotti, la società come «struttura globale, articolata, multiculturale».

    Le strade dell'integrazione passano anche attraverso dei centri di accoglienza non spersonalizzanti (in modo che si possano avviare i primi contatti tra immigrati e italiani arricchendo così una vita sociale in genere scarna, e avviare insieme la sperimentazione di forme di rappresentanza), attraverso l'offerta di servizi scolastici e sanitari, una corretta organizzazione del mercato del lavoro. È importante poi anche che si impari a considerare la propria identità culturale non come una gabbia nella quale si resta chiusi, e che escluda.

    Balbo. Se si mettono in moto meccanismi troppo conflittuali, nessun inizio di integrazione è possibile; altrimenti è possibile mettere in circolo ricchezze culturali in uno scambio reciproco. Ma la convivenza umana è un obiettivo difficile, non un processo spontaneo né un dato di partenza. Tanto per cominciare bisogna vedere se davvero c'è questo obiettivo condiviso di una società capace di far coesistere le diverse culture. Allora bisognerebbe già parlarne, strutturarsi, darsi risorse e strumenti. Resteranno comunque ancora infiniti elementi di conflitto, perché questo non è un processo di armonia.

    Makboul. Fattori decisivi per la costruzione di una società multirazziale sono fondamentalmente la famiglia, la scuola (che dovrebbero insegnare il rispetto dell'altro e offrire una serie di conoscenze sulla grande varietà di espressione dell'umanità e sui meccanismi che portano al rifiuto, allo sfruttamento, all'impoverimento) e la società, nei suoi aspetti di cultura e di legislazione.

    Secondo me bisognerebbe al rìguardo avviare una campagna di educazione, nei confronti dei giovani e dei meno giovani. Questo marocchino, o senegalese che troviamo per strada ha una sua storia alle spalle, una sua cultura, una sua dignità, né più né meno di un altro europeo. Tra l'altro, la civiltà non è nata in Europa, e neanche la cultura organizzata delle università!

    Domanda. Il fattore religioso può essere un aiuto all'integrazione?

    Balbo. Princìpi religiosi, etici, tra loro coerenti e comuni sicuramente faciliterebbero l'integrazione. Ma questo è un discorso di principio e astratto; nella storia bisogna poi vedere come si praticano i princìpi. Tuttavia le grandi religioni hanno certamente in comune dei valori fondamentali.

    Makboul. Se è vissuto da uomini di autentica fede, sì, è possibile. Ma se per aiutare lo straniero, l'immigrato si fa ricorso unicamente a motivi religiosi, o se quasi lo si costringe a cambiare religione, allora vuol dire che non si fa leva sul fattore umano, della solidarietà, che va oltre qualunque credo religioso.

    Tentori. Io vedo degli sviluppi anche dal punto di vista dell'integrazione delle religioni. L'ecumenismo può essere visto anche sotto questa prospettiva, però bisogna vedere che direzioni prenderà e la via non è semplice. Anzi, tra le grandi religioni, anche se tutto sommato ci sono da secoli contatti e avvicinamenti, è difficile andare al di là di un reciproco rispetto e attenzione. All'interno delle convinzioni religiose dei singoli e di gruppi vedo possibile se non facile certi spostamenti, nuove aggregazioni e culti con proposte religiose diverse dalle originarie: qualcosa di nuovo sta sorgendo, nuovi spostamenti dell'identità religiosa, una difficile tenuta delle tradizioni originarie. Davanti a queste forme però vedo anche ritorni di integralismi, riaffermazioni forti delle tradizioni religiose nonostante l'impatto con la secolarizzazione e la modernità. Questo diventa allora un ulteriore elemento di disturbo, di difficoltà, talora insormontabile, di integrazione sociale e culturale.

    Domanda. Quale è il giusto atteggiamento per lavorare nella direzione dell'integrazione o della società multirazziale e multiculturale?

    Tentori. Occorre ricordare. Gli Italiani stessi sono stati emigranti e hanno sofferto pregiudizi, discriminazioni, e hanno dovuto lottare e soffrire per conquistare delle posizioni, o almeno per far valere i diritti. D'altra parte è difficile che ci sentiamo in atteggiamento di superiorità se pensiamo al valore e al fascino delle civiltà con cui ora veniamo a contatto, il cui sviluppo è stato interrotto per una serie di ragioni in cui c'entra molto anche il mondo occidentale. Quanto al razzismo, non vi è nessuna ragione culturale o biologica per accettarlo, figuriamoci poi per farlo. Apparteniamo tutti a un'unica specie e all'interno di questa specie tutti dobbiamo contribuire ad una salvezza che è la salvezza comune. Nella differenza poi possiamo anche trovare l'amore, l'aiuto a crescere, lo stimolo allo sviluppo. Resta comunque poi sempre la solidarietà, l'aiuto per chi ha bisogno e per cui noi possiamo fare qualcosa.

    LO STRANIERO

    «Fra l'uomo e il cittadino una cicatrice: lo straniero», scrive Julia Kristeva avvicinando il suo intelligente sguardo di emigrante colta e illustre ad alcuni dei più gravi e profondi fenomeni della storia moderna: le fughe di massa, le invasioni pacifiche, gli spostamenti incontrollati, gli insediamenti coatti, le mescolanze di cultura, il bisogno di darsi una identità e contemporaneamente il bisogno di mescolarsi ad altre e più fortunate culture.

    «Esclusi dalla simbologia del paese, essi diventano un simbolo». Ma di che? Del malessere, della perdita, dell'allarme che annuncia un tempo nuovo fatto di identità cercate, rubate o scambiate?

    Non c'è dubbio che nei prossimi anni sempre più dovremo confrontarci con le forme nuove e inquietanti delle emigrazioni collettive. E non c'è dubbio che sempre di più la parola «straniero» diventerà argomento di sfida, di paura, di minaccia, di interrogativi, di nuovi e subdoli razzismi.

    Già i greci, ci dice la Kristeva nel bel libro che si chiama «Stranieri a se stessi» (pubblicato da Feltrinelli), si preoccupavano dei tanti stranieri che affluivano nelle loro raffinate città modificandone il carattere.

    Aristotele stesso era un «meteco». Platone, nelle sue fantasiose e a volte aberranti proposte politiche, immaginava di mettere gli stranieri in case speciali, fuori dalle città, controllati da magistrati.

    Furono gli Stoici a inventare il cosmopolitismo e lo fecero in nome della Comunità della Ragione. Gli Stoici romani a loro volta tradussero il termine «oikeiosis» con «conciliatio». E da questi nacquero le nozioni di «Amor nostri» e di «Caritas». Terenzio fa dire a Cremete: «Sono un uomo e nulla di ciò che è umano mi è estraneo».

    Il cosmopolitismo stoico prefigura una nuova religione «in cui si confondono l'individualismo greco, l'introspezione della pietà egiziana, i banchetti delle comunità siriane, la morale ebraica».

    «Voi tratterete lo straniero come uno di voi, lo amerete come voi stessi, perché anche voi avete dimorato come stranieri in Egitto». Per i profeti l'universalismo abbraccia tutti gli uomini ed è totalizzante.

    San Paolo riprende il proposito dell'uomo di Israele «amerai il tuo prossimo come te stesso» e inventa la Civitas Peregrina facendone un'arma per rompere con il nazionalismo delle comunità ebraiche e con il regionalismo delle devozioni orienta 

    I luoghi per poveri

    Nei primi secoli del cristianesimo vengono creati dei luoghi di accoglienza per gli stranieri. Ma presto le «tabernae» non bastano. E il concilio di Nicea stabilisce che ogni città deve avere i suoi «hospitia e xenodochia» per l'assistenza ai poveri e agli stranieri.

    Nel Medioevo lo straniero è colui che non è protetto dal signore, proprietario di terre. L'Aubain, «alibi natus», è una persona che si stabilisce in un'altra signoria sen 

    za per questo fare professione di sudditanza al nuovo signore. Egli gode di uno statuto giuridico speciale. Solo nel XIV secolo la nozione di straniero cambia, non essendo più pensata in rapporto al signore e alla sua terra, ma in rapporto al regno e al re.

    Sarà la rivoluzione francese ad abolire per sempre il diritto di albinaggio (lo stato incamera i beni di uno straniero defunto privo di eredi legittimi). Ma come dice la Kristeva «la misura rimarrà inefficace perché non verrà eseguita dagli altri stati ed è soltanto nel XIX secolo che le convenzioni internazionali si armonizzeranno e aboliranno tale diritto».

    Le nuove intolleranze

    Il romanticismo riprende in mano il concetto di straniero, ma rovesciandolo. Lo straniero non è più «né una razza né una nazione». In modo inquietante e subdolo si insinua dentro di noi: siamo noi gli stranieri, gli esseri divisi e sconosciuti a noi stessi.

    Questa consapevolezza non impedisce la nascita di nuove intolleranze verso gli stranieri, in nome questa volta delle nazioni, delle bandiere, delle lingue, del colore della pelle.

    Si tenta di giustificare l'odio per il diverso. «L'umiliazione che avvilisce lo straniero conferisce al suo padrone non si sa quale meschina grandezza».

    In effetti, vivere con l'altro, con lo straniero, «ci mette di fronte alla possibilità di essere o non essere un altro». La formula è «lo è un altro» di Rimbaud e non era che «il fantasma psicotico che incombe sulla poesia».

    «Lo straniero è un sognatore che fa l'amore con l'assenza, un depresso squisito» scrive Julia Kristeva che di esilio in terra matrigna se ne intende.

    Come si potrebbe sopportare uno straniero se non ci si sapesse stranieri a se stessi? La psicoanalisi riprende il concetto dell'estraneità proponendolo come un viaggio nell'inconoscibilità dell'altro, verso una morale del rispetto per l'inconciliabile.

    Freud non parla degli stranieri, ma fa di più, ci insegna a scoprire l'estraneità in noi. Egli ha il coraggio di dirci che siamo «disintegrati» e quindi non possiamo integrare gli stranieri e tanto meno perseguitarli, ma solo accoglierli in quella «inquietante estraneità che è loro come nostra».

    Ci stiamo incamminando a grandi passi verso un tempo di nuove conoscenze, nuove alleanze, nuove identità. Ci aspetta una società polivalente e multiculturale. E questo richiede cambiamenti spesso inaspettati e sorprendenti. Si tratta di «estendere alla nozione di straniero il diritto al rispetto della nostra stessa estraneità che garantisce la libertà delle democrazie».

    Dovremo «scommettere» sui nostri codici morali personali senza potere sperare in ideologie universali che possano trascendere le nostre particolarità.

    Il futuro insomma si presenta come una comunità fatta di stranieri che si accettano nella misura in cui si riconoscono stranieri a se stessi e disposti ad accettare l'estraneità dell'altro come parte e sviluppo della propria.

    (Dacia Maraini, Corriere della sera, 28 marzo 1991)

     


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