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    Melanconici post-moderni


     

    Dialogo con J.F. Lyotard

    (NPG 1992-01-52)

     


    Jean-Franpois Lyotard è per eccellenza il filosofo del post-moderno. Professore ordinario di Philosophie Générale all'Università di Parigi VIII dal '70 all'86, e ora all'Università di Irvine in California, Lyotard, sessantasette anni, è uno fra i più importanti pensatori francesi contemporanei. Di formazione fenomenologica, è passato attraverso le esperienze politiche del gruppo «Socialisme ou barbarie», del «Comitato Vietnam» e del movimento del Sessantotto. «Ma era già troppo tardi per me - dice ora di quel periodo -. Sapevo che il '68 non sarebbe stato una rivoluzione nel senso classico, e del resto non lo era. Lo sapevo perché mi rendevo conto che era finito il tempo delle rivoluzioni, che non c'erano alternative al sistema».
    Lyotard è stato letto e discusso in questi ultimi anni in Italia soprattutto come autore del libro sulla Condizione postmoderna. Le sue opere successive hanno però dato l'impressione di una presa di distanza da questa tematica.
    Poiché è proprio intorno al problema del post-moderno che anche una parte della filosofia italiana ha lavorato (e alla tematica del post-moderno si legano certi aspetti del «pensiero debole» elaborato da G. Vattimo), e poiché del resto questo tema è forse quello di più largo interesse, non solo filosofico in senso stretto, è di qui che muove il dialogo.

    C'è veramente una minore attualità della tematica del post-moderno nel Lyotard più recente?
    Intanto, direi che anche prima il post-moderno è stato un tema solo relativamente centrale, per me. Il libro sulla condizione post-moderna ha avuto un'origine abbastanza casuale, è nato infatti come ricerca, richiestami da un ente governativo canadese, sulla situazione del sapere nelle società capita listiche avanzate. Partendo dalla pluralità e frammentazione dei vari linguaggi scientifici, mi è parso che la nostra epoca sia caratterizzabile come quella in cui sono finite le grandi narrazioni unificanti, le escatologie, i metaracconti: quello marxista dell'emancipazione rivoluzionaria, quello positivistico del progresso della scienza, quello cristiano della salvezza.
    È intorno a questi metaracconti che si è costruita la modernità. Per questo mi pareva che oggi si dovesse parlare di post-moderno. Tuttavia, già nel libro e sempre più dopo, mi sono reso conto che non si può parlare di un'epoca post-moderna. Anche nella modernità si incontrano posizioni, idee, opere, personaggi che non si pensano in relazione a un cammino progressivo, o regressivo, della storia in generale, e dunque che non sono moderni. Penso per esempio a Montaigne, a Cervantes, a Machiavelli.

    Se anche non si vuole parlare di epoca post-moderna, è pur vero che è solo oggi, e io credo in seguito a determinati cambiamenti storici, che si parla di modernità e di post-modernità. Se i metaracconti hanno perso la loro credibilità, è perché è cambiato qualcosa nell'esistenza. Non è questa trasformazione epocale che legittima l'uso del concetto di post-moderno?
    Non direi che si può legittimare il post-moderno; si può al massimo mostrare le motivazioni storiche, interpretando dei segni, degli indizi: per esempio, il fatto constatato che la gente non crede più alle grandi narrazioni; o che c'è un certo diffuso cinismo e una nostalgia per il fondamento, che tuttavia è definitivamente perduto. Anzi, direi che un segno a cui ci si può richiamare per pensare che la modernità è proprio una certa melanconia diffusa, una caduta di intensità.

    Dunque non è vero che, venute meno le grandi narrazioni, tutto è permesso e la vita diventa una festa. In Italia, per esempio, il pensiero debole è stato spesso interpretato, a torto, in questo senso: invece noi abbiamo sempre insistito sulla mortalità, sulla «pietas» per il vivente e le sue tracce; e ora lei mi conferma che lo stato d'animo post-moderno le sembra piuttosto la melanconia. Noi «debolisti», però, abbiamo ritenuto di trovare proprio in questa perdita di intensità una speranza di emancipazione. L'emancipazione, cioè, passa per l'indebolimento: delle pretese del pensiero (non più grandi sistemi) e prima ancora delle strutture forti dell'essere, della società, della stessa soggettività...
    Su questo io non sono mai stato d'accordo. La melanconia di cui parlo è un modo di vivere la radicale finitezza dell'esistenza, il suo dipendere da un Altro, con la A maiuscola. Ciò che il pensiero ha da fare non è consumare l'Altro, per esempio in un generale processo di indebolimento dell'essere, ma riconoscerlo come tale, accettare che esso si sottragga alla nostra volontà di includerlo nei nostri sistemi di legittimazione, che sono poi uno sforzo di impadronircene... Tutta l'etica mi sembra fondata qui, nella accettazione della alterità irriducibile da cui è attraversata anche la nostra individualità.
    Ciascuno di noi ha una preistoria, la sua infanzia, nella quale gli accadono cose decisive che sfuggono al suo controllo, persino alla sua coscienza: questo nocciolo opaco da cui dipende ogni chiarezza, ogni discorso articolato (infanzia vuol dire assenza di parola) è anche lo sfondo del linguaggio e dei vari linguaggi, per esempio scientifici, che parliamo. L'obbligazione etica primaria mi pare quella di rendere testimonianza a questo Altro da cui proveniamo e a cui restiamo sospesi.

    Ma ciò che rappresenta l'Altro dalla coscienza, e dal linguaggio articolato, non sarà proprio quel che vi è di più casuale, anche individuale e privato, nella nostra esistenza? Il nostro rapporto con i genitori, gli eventi casuali dell'infanzia che ci hanno segnato. Non sarebbe logico pensare che il compito etico consista nel consumare queste opacità di origine, nel rendersi trasparenti, mettersi in forma, comunicarsi agli altri in un discorso possibilmente universale?
    No, sono duramente contrario al contrattualismo, o al conversazionalismo, che domina molta filosofia contemporanea, e per cui tutto si risolve nel dialogo, nella contrattazione esplicita: non si tratta di dissolvere l'opacità e l'alterità a cui è sospesa la nostra esistenza, bensì di renderle testimonianza. Solo su questo riconoscimento dell'Altro in sé può fondarsi un rispetto degli altri, del senso della vita sociale, della solidarietà, dell'amicizia civile.

    Questo impegno di testimonianza è anche dunque un impegno etico-politico. Ecco, la nostra curiosità nei confronti del suo pensiero non è solo quella di capire come si compongano le sue posizioni recenti con la teoria del postmoderno; ma anche come si leghi la sua insistenza sull'Altro con le tesi che per esempio esponeva nella «Economia libidinale», un altro dei suoi testi tradotti e discussi in Italia.
    L'Economia libidinale ha avuto un destino curioso, anzitutto perché è un testo deliberatamente provocatorio. Risale a un'epoca in cui io stavo elaborando il lutto proprio per la dissoluzione del metaracconto marxista, a cui prima mi ero sentito legato. Ma già alla fine degli Anni Sessanta, quando pure ero intensamente impegnato su posizioni di sinistra radicale, mi rendevo conto che non aveva senso pretendere di cercare un'alternativa al capitalismo.
    Questo mi sembrava non solo un sistema repressivo e sfruttatore, ma anche un sistema pazzo: parlai allora di «capitalismo energumeno»; una vasta esplosione pulsionale, che prova vertiginosamente tutte le vie. Un tale sistema non richiede una decifrazione critica, esige piuttosto che il pensiero si metta nel suo stesso movimento e ne sfrutti le possibilità. Il capitalismo è venuto sempre più sviluppando il suo carattere liberale, direi sperimentale: prova tutto, del resto si parla spesso di «venture capital». E dunque accetta e stimola anche la critica e la discussione, come se sperasse che, prima o poi, anch'esse gli tornino utili. Ecco, io mi sento oggi come uno di cui il sistema capitalistico non ha bisogno, ma che viene lasciato libero di agire, pensare, discutere, in una delle tante zone franche, come macchie bianche nella mappa del sistema, che per ora sono tenute in riserva.

    Se non ci sono più grandi alternative «di sistema», sembra che il filosofo non abbia più interesse alla storia, alla politica, ai processi di emancipazione. Sarà vero che la storia è finita, come ha detto qualcuno?
    È solo finita una certa tonalità della storia. Non c'è più, non si crede più che ci sia una linea escatologica, un cammino verso un fine. E questo, per tornare al nostro tema, è post-moderno. Per esempio, la guerra del Golfo mi sembra la prima guerra post-moderna della storia: non più motivata, come tutte le grandi guerre dopo la Rivoluzione francese, da ragioni ideologiche globali, i buoni contro i tiranni, eccetera; ma da una affermazione più modesta del diritto internazionale. Post-moderna, questa guerra è anche perché è stata combattuta da una grande coalizione di tutte le nazioni sviluppate contro un dittatore «marginale». Mi sembra chiaro, cioè, che nella nostra epoca non possono più scoppiare guerre tra i Paesi industrialmente avanzati, perché le loro tecnologie distruttive rendono irrazionale la scelta delle armi.
    Tra questi Paesi si combattono invece guerre commerciali. La guerra degli eserciti sarà sempre più un fatto delle regioni marginali, e naturalmente dovrà scomparire quanto più si supererà questa marginalità...

    Lo sviluppo tecnologico sembra capace di far finire le guerre, dunque. È da parte sua una professione di ottimismo?
    Certo, non condivido le diffidenze «umanistiche» verso lo sviluppo della tecnica. Bisogna che il pensiero, l'arte, la morale collettiva si innalzino al livello delle possibilità aperte dalla tecnologia. L'unico limite che penso insuperabile è quello segnato dall'Altro, dalla zona opaca da cui proveniamo, la nostra infanzia. Finché non si riuscirà a produrre un'umanità che può fare a meno dell'infanzia, non cadrà quella che mi sembra di dover chiamare - con una parola politicamente bella anche se malfamata per gli psicoanalisti - la linea di resistenza.

    (G. Vattimo, La Stampa, 14 maggio 1991)


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