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    La devianza in preadolescenza e l'insufficienza delle risposte



    Carlo Alfredo Moro

    (NPG 1992-9-65)


    Il disorientamento, l'incertezza, la situazione di ansia, la perdita di sicuri riferimenti valoriali, la mancanza di equilibrio, e cioè tutti quegli elementi che creano un senso di profondo disagio nel ragazzo tra i dieci e i quattordici anni in accelerata e caotica crescita, tendono progressivamente a riassorbirsi man mano che il ragazzo percorre il suo itinerario formativo, acquisisce sicurezza, conquista una sua identità, trova un suo ruolo.

    UN DISAGIO CHE RISCHIA DI DIVENIRE DEVIANZA

    Il fisiologico disagio preadolescenziale tende così a scomparire, ma a condizione che il suo apprendistato alla vita sia costantemente sorretto dagli adulti che gli sono vicini, capaci di aiutarlo nel difficile trapasso dalla condizione infantile a quella adulta. Se questo aiuto manca, se l'ambiente sociale non favorisce il processo di socializzazione, se l'itinerario formativo è interrotto o deviato, il disagio non può non tradursi in disadattamento e cioè in una cronicizzazione della situazione di non equilibrio e in una spesso irreversibile incapacità di inserirsi in modo costruttivo e strutturale nel contesto sociale.
    Il rischio che il disagio si tramuti in devianza è certo molto più forte quando i fattori di disagio sono molteplici e cioè quando ai fattori di disagio individuale, propri di questo momento di passaggio della vita, si aggiungono altri fattori esterni di disagio conseguenti alla marginalità individuale e sociale nel proprio ambiente di vita.
    Se più fattori di disagio agiscono in modo cumulativo è evidente che il rischio di non riuscire a superare le proprie difficoltà aumenta in modo geometrico. Se con il senso dell'isolamento personale, proprio di ogni preadolescente, si coniuga il senso dell'isolamento sociale del gruppo e si ha consapevolezza di una oggettiva situazione discriminata, che implica non solo una situazione sociale precaria ma anche una condizione umana di inferiorità, la probabilità di un'effettiva integrazione sociale diviene remota.
    Perciò ci sembra utile accennare, sia pure in modo assai succinto, ad alcune situazioni di marginalità sociale che possono compromettere il regolare processo di crescita umana del ragazzo.

    Le diverse marginalità

    La marginalità da povertà è stata certo fortemente contratta negli ultimi anni nel nostro paese, ma non è del tutto scomparsa. In molte plaghe della nostra comunità umana - nelle periferie urbane o in isolati e sperduti paesi di montagna - la povertà economica è ancora tristemente presente con redditi familiari inferiori al 50% del reddito medio della propria area economica. La mancanza di minimi vitali accettabili (con quello che ciò comporta sul piano della salute, delle condizioni abitative, dell'istruzione, del precoce sfruttamento lavorativo dei ragazzi e spesso della istituzionalizzazione assistenziale) e l'estraneità allo schema sociale di riferimento, che è totalmente diverso dal proprio, rischia di far divenire la marginalità emarginazione e di influire pesantemente in senso negativo sullo sviluppo del ragazzo.
    La marginalità da mobilità sociale è invece molto presente nel nostro paese a seguito dei massicci fenomeni di emigrazione interna che sono iniziati alcuni anni fa e che non sono del tutto superati. La rottura con la propria cultura di origine, la difficoltà di inserimento in contesti sociali spesso prevenuti ed ostili, la collocazione nei quartieri ghetto, le difficoltà anche lessicali che portano a ripetuti insuccessi scolastici, la perdita di ogni funzione di controllo sociale negli anonimi ed eterogenei quartieri di periferia, il forte contrasto tra la propria situazione di deprivazione e l'opulenza, talvolta sfacciata, ostentata nel centro della città, tutto ciò costituisce una miscela esplosiva che fortemente spinge verso una scelta di vita nella devianza. Il fenomeno è ancora più rilevante per gli immigrati da altri paesi extraeuropei, le cui difficoltà di inserimento e di accettazione sono molto più consistenti ed in cui alla marginalità sociale si aggiunge spesso la marginalità razziale con tutti i problemi che essa produce.
    La marginalità da devianza familiare. Se il o i genitori sono dediti ad attività criminali o esercitano la prostituzione o sono tossicodipendenti o alcoolizzati, il modello antisociale genitoriale non può non avere pesanti ripercussioni sui vissuti del preadolescente. Ciò è ancora più grave quando la subcultura deviante non è limitata alla propria famiglia, ma è patrimonio comune di tutto il contesto sociale in cui si vive (è il caso di molti quartieri delle città meridionali). I valori della asocialità o dell'antisocialità, così largamente praticati dall'ambiente di vita, hanno una significanza molto maggiore dei confusi valori, così estranei alla esistenza del ragazzo, debolmente e spesso solo verbalmente declamati dalla società dei «regolari». In questi casi la marginalità non è fonte di ulteriore disagio ma è fonte di sicurezza e di identità; è cosciente scelta di contrapposizione ad una società che è sostanzialmente estranea e le cui regole appaiono sostanzialmente incomprensibili.
    La marginalità culturale. Tutte le situazioni precedenti - ma non solo esse - si risolvono in una deprivazione culturale familiare che rende difficile al ragazzo orientarsi in un mondo complesso e far chiarezza in se stesso. Ma vi può essere deprivazione culturale - e cioè perdita delle chiavi di lettura della realtà - anche in famiglie non socialmente emarginate, che però hanno perduto ogni capacità di restare fedeli alla vecchia cultura sapienziale o alla cultura tradizionale e l'hanno sostituita come una omologazione acritica alla egemone cultura consumistica propagandata dalla pubblicità e dai mezzi di comunicazione sociale.
    La incapacità di reali comunicazioni interpersonali, l'accentuazione dell'avere sull'essere, la caduta di riferimenti valoriali, la globale perdita di senso rendono assai difficile, a chi proprio risposte di senso va disperatamente cercando, un processo maturativo adeguato. La solitudine del ragazzo, e la sua emarginazione, si accentua; né le aggregazioni tra coetanei, tutti egualmente deprivati di elementi chiari di giudizio e di chiavi interpretative della realtà, consentono per altra via quell'aiuto che i «fantasmi» genitoriali non sono in grado di dare. Anzi l'emarginazione individuale diviene emarginazione di gruppo e le situazioni di ansietà e di insicurezza si sommano.

    ALCUNE TIPOLOGIE Dl DEVIANZA IN PREADOLESCENZA

    Non è certo possibile essere esaustivi nella individuazione e nell'analisi delle varie tipologie in cui si esprimono quei disagi preadolescenziali che sfociano nella devianza: sembra comunque opportuno indicare alcuni fenomeni più vistosi che esigono una particolare attenzione e impongono delle adeguate risposte.

    Violenza nell'ambito scolastico

    Vanno aumentando gli episodi di violenza nell'ambito scolastico, specie nell'ambito delle scuole medie di borgata nelle grandi aree metropolitane. Una violenza che si estrinseca non solo nei danneggiamenti agli edifici e alle suppellettili scolastiche - e spesso anche alle auto degli insegnanti - ma anche in forme di sopraffazione nei confronti dei compagni.
    Non vi è alla base di questi atteggiamenti solo il rifiuto di un sistema scolastico che si percepisce inadeguato, non infrequentemente respingente e a cui si reagisce nella forma rozza della subcultura della violenza gratuita, altra faccia di quella ribellione che ha portato in forme collettive alla contestazione giovanile contro il sistema scolastico e ha caratterizzato questi ultimi anni della nostra storia. Né vi è solo la volontà di vendetta contro insegnanti che si percepiscono ostili o in qualche modo castranti, perché appartengono ad una istituzione che si rifiuta e che rifiuta il ragazzo. Vi è anche il bisogno, per chi non ha alcuna prospettiva di essere un «eroe-positivo», di assumere comunque un ruolo - anche se di «eroe-negativo» - che è in qualche modo appagante, perché dà l'impressione di «essere» e di contare e di non ridursi ad un «invisibile», ad un «nessuno».

    Violenza negli stadi

    La violenza negli stadi, a cui anche il preadolescente è ammesso a partecipare anche se in posizione marginale, ha spesso analoghe motivazioni. L'inserimento in un gruppo che accetta nuove presenze senza difficoltà, perché la partecipazione è prevalentemente di esclusivo tipo fisico e corale; la assunzione di un ruolo che può essere considerato quello di un adulto in chi è tutto proteso a bruciare le tappe e ad uscire da una condizione di forte ambiguità come quella preadolescenziale; la sicurezza della impunità che consente di agire senza timori (e che si sia non punibile è presto trasmesso al ragazzo attraverso il «tamtam» tra coetanei); la possibilità di nobilitare la guerriglia attraverso l'autoconvincimento che si serve una fede e si esprime un amore per una realtà che assume quasi connotati metafisici (una squadra, una bandiera, una maglia); tutto ciò immette il ragazzo - alla ricerca non solo di una identità, di un ambiente e di un ruolo, ma a anche di una valorizzazione personale stemperata nel collettivo - in un sistema di violenza, e in realtà in una subcultura deviante, che può profondamente segnare tutta una esistenza.

    Le fughe da casa

    Le fughe da casa dei ragazzi di questa fascia di età sono più frequenti di quelle registrate dalle statistiche dell'Istat.
    Un contrasto con i genitori, una incomprensione o un fallimento scolastico, una reale o presunta ingiustizia patita in una condizione esistenziale di gravi tensioni e di frustrazioni profonde può spingere ad una fuga da casa nella illusione di diminuire l'angoscia e
    di trovare vie d'uscita da una situazione che si percepisce come insopportabile. Ma si fugge anche per saggiare la propria autonomia, perché la famiglia non concede spazi di libertà; si fugge per saggiare se il genitore o i genitori hanno reale interesse per il loro ragazzo e nel contempo per costringerli - con l'unico modo che si ritiene possa essere utile - a ricostruire un rapporto e a dimostrare che lo si considera un valore.
    Ma la fuga del minore in genere, e del ragazzo preadolescente in particolare del tutto incapace di autogestirsi, è sempre una situazione di gravissimo rischio. Perché la mancanza di risorse economiche impone una estrema precarietà di situazioni di vita (si vive nei giardini o nelle stazioni) e la necessità di «arrangiarsi» con tutti i mezzi; perché la solitudine fa cercare protezione in gruppi di devianti o in adulti pronti a strumentalizzare e mercificare il ragazzo. La via della prostituzione minorile è spesso imboccata proprio in occasione di queste fughe: ed è una via molto spesso senza ritorno.

    La prostituzione minorile

    Va aumentando anche la prostituzione maschile e femminile in questa fascia di età. La devastazione di una personalità per carenti apporti educativi, e la conseguente scarsissima stima di se stesso coniugata con le incipienti pulsioni sessuali, l'oscuro appagamento per il richiamo che il proprio corpo acerbo e incontaminato esercita su un adulto che per questo dimostra al ragazzo una attenzione e considerazione altrimenti non ottenibile, costituisce un insieme di fattori che rendono accettabile la vendita di quell'unico bene che si possiede e che è il proprio corpo.
    La percezione che nella società si vale solo se si ha danaro e cose, e che accaparrarsi comunque beni materiali è condizione per essere compiutamente se stessi, non può non spingere chi non ha mai sperimentato la stima degli altri, e quindi un riconoscimento del suo più autentico «sé», a procacciarsi le cose utilizzando la propria unica risorsa.
    Al fondo vi è però ben altro: il desiderio di annientarsi, di punirsi perché non si è riusciti; di punire chi non ha saputo dare affetto e sostegno, di degradare con sé l'altro e in lui tutto quel mondo adulto così ambiguo, sfuggente e cattivo. Non per nulla l'ingresso nella attività prostitutiva ha connotati analoghi all'ingresso nell'uso degli stupefacenti: sono due situazioni speculari e spesso intersecantisi - di un'unica realtà di fuga e di rifiuto della vita, di profonda disistima della propria personalità umana, di rinuncia ad ogni impegno di costruzione individuale e sociale.

    L'uso da parte della delinquenza adulta organizzata

    Va aumentando l'uso da parte della delinquenza adulta, organizzata o non, dei ragazzi di questa fascia di età.
    La Commissione antimafia - nella sua relazione sulla delinquenza minorile nelle zone ad alta densità criminosa (dell'8 marzo 1991) - segnala «la cooptazione, da parte di nuclei criminali, di minori anche di 1213 anni per poi destinarli alla consumazione di reati da strada come il contrabbando, il lotto clandestino, lo spaccio di droga, furti e rapine di varia entità; sono stati portati esempi di minori usati come sicari per un corrispettivo di 300.000 lire o legati a gruppi criminali per restituzioni mensili di 500.000 lire». Anche se come rileva la Commissione - «la camorra non arruola, ancora, esplicitamente i bambini di Napoli», è però vero che «il terreno di cultura su cui raccoglie i frutti è vasto e rischia pericolosamente di estendersi», perché a Napoli «sono migliaia i bambini disorientati, indifesi, insicuri, che vivono allo sbando e senza attenzione familiare, senza guida, senza riferimenti istituzionali, spersi in una eterna provvisorietà».
    Ma se le grandi organizzazioni criminali non arruolano i preadolescenti, l'ingaggio di essi avviene da parte di singoli criminali adulti, o da sottospecie di minicriminalità organizzata che aprono degli itinerari delinquenziali da percorrere fino a portare i più bravi, i più spietati, i più determinati, ad inserirsi stabilmente, avendo superato tutti gli «esami» e quando si è divenuti più grandi, nella «mitica» criminalità organizzata. Gli altri resteranno nell'area della microcriminalità.
    Non spinge ad imboccare il tunnel della devianza criminale solo il bisogno di danaro o la sicurezza dell'impunità (anche se questi elementi certamente sussistono): vi è anche, in questa violazione cosciente della legge o in questo aggregarsi a personalità criminali più adulte, un «rito di iniziazione» ed una «socializzazione perversa» altrimenti non realizzabile. Per un ragazzo privo di reti di protezione e bloccato nel suo processo di inserimento nella società per i ripetuti fallimenti (scolastici, lavorativi, nel gruppo dei pari positivi), l'aggregazione della strada costituisce l'unico mezzo per sentirsi non escluso e rifiutato, e per assumere non solo una identità, anche se negativa, ma anche una funzione non infantile ma da adulto.
    Non possiamo non riconoscere che per molti ragazzi deprivati di affetto e di personalità la pedagogia criminale ha una valenza particolarmente positiva. Perché è una pedagogia che sfrutta (di questo però il ragazzo non si rende conto) ma che nel contempo valorizza, esprime fiducia, utilizza le poche capacità che il ragazzo ha, assegna compiti rilevanti e delicati, assicura attenzione e protezione, suscita abilità che possono essere concretamente utilizzate, stimola lo spirito di avventura e di iniziativa. Nel deserto delle altre valorizzazioni, nell'assenza di altri rapporti gratificanti, non ci si può meravigliare che l'inserimento nella attività criminali rappresenti per molti ragazzi l'unica attività praticabile e soddisfacente, l'unico itinerario per divenire compiutamente adulto e maturo, l'unico strumento per inserirsi in un contesto sociale rassicurante e gratificante.

    LE INSUFFICIENTI RISPOSTE ALLA DEVIANZA PREADOLESCENZIALE

    Di fronte a queste situazioni di iniziale devianza le risposte della società organizzata e della stessa società civile appaiono assai flebili e talvolta inconsistenti.

    L'ordinamento giuridico: tra criminalizzazione e sostegno astratto

    L'ordinamento giuridico oscilla tra proposte di criminalizzazione sempre più accentuata e proposte di mero sostegno pedagogico astratto.
    Nell'ultimo dibattito parlamentare, in ordine alla necessità di nuove misure legislative per combattere la criminalità organizzata, da più parti - ed anche autorevolmente dallo stesso Ministro degli Interni - è stato proposto di abbassare a dodici anni il limite della non imputabilità.
    Ciò da una parte per una asserita maturità anticipata dei preadolescente e dall'altra per evitare che la sicurezza della non imputabilità divenga occasione, e stimolo, per spingere il ragazzo verso il delitto. Ma entrambe le motivazioni appaiono assai poco condivisibili.
    Non è affatto vero che il ragazzo di oggi sia più maturo del ragazzo del passato. Se maturità significa non tanto conoscere molte cose della vita, ma avere una capacità di discernere la gerarchia dei valori che regola l'esistenza umana, una reale possibilità di vincere le proprie pulsioni più banali, una autentica libertà nel determinarsi nei comportamenti non recependo acriticamente gli stimoli da altri indotti, una effettiva attitudine ad uscire da sé e dalle proprie onnipotenze per inserirsi in una rete relazionale in cui l'altro non sia solo un soggetto da sfruttare ma il partner di un incontro che costruisce entrambi, dobbiamo riconoscere che il giovane di oggi in genere, e il preadolescente in particolare, per quanto abbiamo già detto su questo difficile momento della vita, è nel mondo di oggi assai più immaturo che nel passato.
    Nella mancanza di consistenti apporti educativi in una società che sembra aver sostituito l'informazione all'educazione; nella proliferazione delle proposte culturali tutte deboli e confliggenti; nella carenza dei punti fermi e di regole di condotta da tutti riconosciute come valide; nella diffusa crisi della legalità che non è solo data dalla disobbedienza alla legge ma anche, ed anzi principalmente, dalla caduta di un'etica collettiva che veda nella legge e nel diritto uno strumento indispensabile perché gli interessi più giusti, e non quelli più forti, finiscano con il prevalere; in una situazione di questo genere la maggior libertà, di cui può usufruire il ragazzo, e il più ampio spettro di conoscenze che assicurano i mezzi di comunicazione di massa, non comportano affatto una maggiore capacità di discernimento e di autodeterminazione, e quindi una possibilità di attribuire precocemente una responsabilità morale per comportamenti devianti.
    Né lo sfruttamento della minore età e della impunità del ragazzo da parte degli adulti può legittimare una sanzionabilità penale del comportamento dei ragazzi: ancora una volta si scambierebbe la vittima per il carnefice e si farebbero scontare al ragazzo le colpe degli adulti. Per fortuna la proposta della anticipazione della età in cui scatta la imputabilità è stata archiviata. Ma non sono nate proposte di intervento veramente significativo a tutela di quella fascia di età a rischio.
    La recente legge n. 216 del 19 luglio 1991 intitolata «Primi interventi in favore dei minori soggetti a rischio di coivolgimento in attività criminose» ha certo il merito di non aver seguito la strada della criminalizzazione precoce e di avere invece imboccato la strada degli interventi preventivi di sostegno. Ma l'intervento previsto è ancora una volta un intervento di tipo finanziario. Nella mancanza di un chiaro quadro di riferimento e di una strategia unitaria per la prevenzione della devianza, nella sostanziale non-conoscenza della entità e delle caratteristiche del fenomeno, tale cospicua cascata di miliardi rischia di attivare solo processi di interventi sporadici, episodici, velleitari, più di tipo meramente speculativo che realmente produttivi. Lo stesso volontariato, pur meritevole per tante preziose iniziative prese, rischia sotto questa pioggia di danaro di smarrire lo stesso senso del suo intervento e di burocratizzarsi e anchilosarsi in un professionismo dell'assistenza che finirebbe con lo snaturarlo.
    Di contro l'ordinamento - ancora fortemente segnato dalla polemica antistituzionale degli anni Settanta - propende ad escludere del tutto interventi in qualche modo coercitivi, anche se non criminalizzanti, nei confronti del giovane deviante, ritenendo che solo una misura di protezione civile può essere utilmente azionata per il recupero.
    È giusto - in nome della libertà del ragazzo e della opportunità della sua perfetta e convinta adesione al trattamento - dimenticare che, per lo meno all'inizio, qualche limitazione della libertà personale può essere essenziale per fare acquisire al ragazzo spazi di maggiore autentica libertà, perché egli non sempre è veramente libero, potendo essere devastato e schiacciato dal suo ambiente e dal suo delirio di onnipotenza?
    Ed è possibile, in nome della libertà di chi non ha potuto realizzare una effettiva liberazione, condannarlo alla rinuncia ad ogni serio intervento di formazione e quindi alle pesanti servitù dello sfruttamento e dell'annientamento di personalità? Di fronte al dodicenne che ha compiuto venticinque furti; di fronte al dodicenne che fugge e si prostituisce; di fronte all'infraquattordicenne che è divenuto stabilmente corriere della droga o si è inserito in una banda dedita alle rapine e alle estorsioni, è proprio vero che l'unica via da seguire è quella del provvedimento sulla potestà dei genitori?
    Equivoca - a mio modo di vedere - è anche l'equazione tra misure imposte coattivamente e misure inefficaci, tra opportunità dell'adesione partecipativa e inopportunità di un qualsiasi provvedimento impositivo ed autoritativo.
    Che il ragazzo vada coinvolto nel progetto educativo di recupero è innegabile, ma è pure innegabile che non ci si può arrestare di fronte al primo, ovvio, rifiuto, perché tale rifiuto non è espressione di un valore di libertà ma di un disvalore, in quanto connesso ad una condizione di dipendenza che lo porta a fuggire dalla vita e dalla difficile, ma indispensabile, fatica della costruzione di una personalità umana autentica.
    Il consenso e l'adesione al recupero non può essere un prerequisito, ma deve essere il risultato di un processo che all'inizio può e deve comportare momenti coattivi per far decantare ribellismo e onnipotenze, e decongestionare situazioni ansiogene che portano ad imboccare scorciatoie e a promuovere cortocircuiti.
    In realtà nel processo educativo coazione e consenso possono non essere termini antitetici, perché possono essere entrambi utili strumenti di un'unica strategia finalizzata non a conformare il ragazzo ad una norma o ad un predefinito, ma ad aiutarlo alla liberazione e quindi al cambiamento.

    Una carenza di riflessione culturale

    La riflessione culturale si è anch'essa sostanzialmente ritratta di fronte a questo inquietante problema che in realtà non era in grado di affrontare sulla base di chiare coordinate.
    Entrato in crisi in molti lo stesso concetto di educazione, perché - si assume - si presta a manipolazioni e colonizzazioni non rispettose dell'autonomia e della libertà dell'essere umano; stemperata la responsabilità individuale in una generica responsabilità sociale e ritenuto per molti impossibile operare sull'individuo se prima non si procede ad una indifferibile - anche se improbabile - palingenesi sociale; spostata l'attenzione tutta sul versante della prevenzione, perché il recupero si considera non tanto difficile quanto praticamente impossibile perché tutto è irreversibilmente compromesso nei primi anni di vita, poco spazio restava ad una seria riflessione sulle problematiche e le tecniche di recupero della devianza adolescenziale.
    Non è senza significato che negli ultimi dieci anni la rivista del Ministero di Grazia e Giustizia dedicata ai problemi dei minori devianti, «Esperienze di giustizia minorile» - che negli anni Sessanta aveva prodotto un dibattito culturale vivacissimo sulla devianza minorile e sulle possibilità di recupero coinvolgendo anche l'Università -, non ha mai affrontato il tema della preadolescenza deviante e dell'intervento nei confronti dell'infraquattordicenne che, attraverso anche la ripetuta commissione di reati, ha dato palesi segni di difficoltà nell'inserimento sociale.
    Sulla base di un - sia pure riduttivo e per molti aspetti mistificante - concetto di traviamento diffuso negli anni Quaranta e Cinquanta, si era sviluppato, anche se finalizzato (come recitava l'art. 68 del regolamento delle case di rieducazione) a «far bene conoscere al minorenne quale sia stato l'errore che ha commesso disertando la vita del dovere e come egli possa ancora tornare degnamente tra i buoni cittadini», un notevole dibattito culturale e pedagogico e un certo tentativo di recupero.
    Sulla base di una sia pure insufficiente ipotesi della devianza come «sintomo di un disagio personale che trova spiegazione nella storia familiare» - diffusa negli anni Sessanta - si è poi prodotta un'ampia letteratura, anche se prevalentemente di psicologia clinica, per individuare strumenti nuovi di trattamento e di recupero (i gabinetti medico psicopedagogici per l'osservazione; i focolari all'interno degli istituti e i gruppi famiglia per il trattamento). Sottolineate - e opportunamente - le cause sociali della devianza, si è restati sostanzialmente paralizzati di fronte alle ipotesi di effettivo intervento di recupero. Una certa mitologia dell'intervento sul territorio ha fatto sì che, nel vano tentativo di prosciugare lo stagno, si sia rifiutato al malato di malaria anche la somministrazione del chinino. Una certa mitologia del servizio sociale - o meglio del singolo assistente sociale - polivalente e dotato di poteri taumaturgici eccezionali ha ridotto tutti gli interventi di protezione e di recupero del minore all'affidamento al servizio sociale che può ridursi, e spesso si riduce, ad una formula vuota e ad una mera pratica burocratica, se non è individuata, sorretta e finalizzata una concreta attività recuperativa.
    Oggi va nascendo la nuova mitologia della «comunità educativa» - che oltretutto è chiamata in causa più per gli ultraquattordicenni sottoposti al trattamento penale cautelativo o sanzionatorio che per gli infraquattordicenni - ma senza una seria e approfondita analisi, anche dottrinaria, della tipologia di queste comunità e delle metodiche di trattamento. Certo, gli operatori, che si sono rimboccati le maniche di fronte al bisogno che hanno visto emergere, dibattono questi problemi e li approfondiscono, ma né la scienza criminologica né quella pedagogica sembrano seriamente interessate a questo tema, pure cruciale, ed impegnate ad individuare e suggerire strade nuove per tentare un effettivo recupero.

    La risposta della comunità locale

    Anche la risposta della comunità locale, nei suoi servizi e nelle sue strutture anche di privato sociale, è su questo versante piuttosto carente.
    Non è innanzi tutto senza significato che quasi tutti i progetti giovani elaborati dagli Enti locali negli anni '85-88 ignorino completamente i preadolescenti e si riferiscano esclusivamente ai giovani dai quattordici/quindici anni ai trenta (vedi il volume su i progetti giovani curato dal Centro di documentazione e ricerca del gruppo Abele ed edito dal Ministero degli Interni): la mancanza di una attenzione specifica alla preadolescenza, che è situazione di particolare rischio, è indicativa di una diffusa strategia della disattenzione nei confronti di questa età.
    Vi è poi il problema se le attuali strutture di servizio degli Enti locali siano in grado di gestire una devianza come quella che abbiamo descritto e di adeguatamente provenirla. Non è - ci sembra - solo problema di carente formazione sulle problematiche preadolescenziali in genere e su quelle che portano alla devianza manifesta, e talvolta radicata, in specie; il problema è se sussista, sia pure in via embrionale, una metodologia di intervento di fronte a queste situazioni ovvero solo una improvvisazione e una «gestione singola» e occasionale degli specifici casi; se vi siano strutture non solo di primo intervento ma di approfondimento delle varie situazioni per un progetto individualizzato di recupero; se vi siano le premesse per porre in essere un generale progetto di recupero che sappia utilizzare al meglio agenzie di formazione (in particolare la scuola) e strutture comunitarie (associazionismo, comunità specializzate e così via).
    Sarebbe opportuno - ed è da studiare come - un più continuo rapporto tra i servizi ministeriali della giustizia (oggi però troppo esclusivamente assorbiti dalle tematiche connesse con l'intervento squisitamente penale) e i servizi degli Enti locali, perché la riflessione e la cultura più specifica sul tema della devianza, propria dei primi, si comunichi anche ai secondi, troppo legati agli interventi da realizzare nella fascia dell'età infantile.
    Non possiamo non interrogarci se la cultura dell'assistenza - assai viva anche per ragioni storiche nell'ambito dei servizi sociali territoriali - e la peculiare funzione della comunità locale di protezione e di sostegno dell'utente che richiede l'intervento (rifiutando ogni principio di controllo sociale e di intervento autoritativo) non renda assai difficile un intervento in qualche modo coattivo nei casi di più rilevante disadattamento sociale.

    Quale prevenzione?

    È anche da domandarsi se nei servizi della comunità locale sia veramente nata una moderna cultura della prevenzione: non vista più come «prevenzione repressiva-difensiva» per salvare i soggetti «sani» dai pericoli rappresentati dai devianti; non vista neppure come «prevenzione promozionale paternalistica» che considera il marginale come un soggetto di cura, aiuto, sostegno, e non come soggetto della propria emancipazione individuale e sociale, così sviluppando solo un'azione riduttiva di mero contenimento delle conseguenze della marginalità e della devianza.
    Una prevenzione promozionale vista invece come azione che cerca di andare alla radice dei fenomeni, che sia contemporaneamente mirata sulla persona e sulla società, che sviluppi - come esigenza strategica - una mobilitazione permanente che sappia elaborare interventi multilaterali da attuare nella sfera del pubblico e del privato, dell'educazione e del sociale.
    Una prevenzione particolarmente attenta all'intervento precoce (prevenzione primaria) per rimuovere le cause di marginalità, ma anche per intervenire tempestivamente nelle situazioni di rischio; ma una prevenzione che sappia anche ripiegarsi sui soggetti che già evidenziano sintomi di adesione ai modelli di comportamento deviante (prevenzione secondaria) incidendo sui condizionamenti esterni e interni, e sviluppando un progetto educativo individuale e collettivo realizzando una pedagogia ricostruttiva, una terapia di sostegno e di appoggio, una reale funzione di orientamento.
    Sembra infine che le stesse strutture della comunità civile trovino difficoltà a farsi carico dei problemi degli adolescenti devianti. Perché l'affidamento familiare si rivolge più verso soggetti piccoli e con problematiche meno gravi, del resto difficilmente gestibili da una famiglia normale; perché le comunità organizzate sono calamitate verso il recupero dei tossicodipendenti (per cui, fra l'altro, vi è amplissima disponibilità di risorse economiche) o l'intervento nella fase della custodia cautelare o dell'affidamento in prova (su cui vi è pressante richiesta anche dell'autorità giudiziaria); perché gli stessi gruppi associativi hanno difficoltà ad immettere nel proprio tessuto umano soggetti provocatori e disturbanti e ribelli che rischiano di far saltare l'armonia e la funzionalità dell'intero gruppo.
    Non è certo possibile dare ricette per affrontare un tema di così rilevante delicatezza e complessità: ci auguriamo solo che l'aver fatto emergere i problemi di questa età negata, consenta una riflessione collettiva e una mobilitazione di intelligenza e di risorse, per aiutare concretamente chi ha bisogno non solo di protezione ma anche di effettivo sostegno per acquisire compiuta dignità umana.


    T e r z a
    p a g i n A


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