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    Abitare la terra. Per educare ad un'«etica» ecologica



    Carmine Di Sante

    (NPG 1992-9-20)


    Se, per molti osservatori, la recente conferenza mondiale di Rio sullo sviluppo e l'ambiente (giugno 1992) - ribattezzata da alcuni come l'Earth Summit, il raduno dei massimi rappresentanti sullo stato di salute della terra - non ha registrato progressi notevoli, comunque ha avuto, certamente, il merito di aver posto al centro dell'attenzione di tutte le coscienze e di tutte le nazioni del mondo, sia quelle «sviluppate» che «sottosviluppate», lo spessore realmente oggettivo e drammatico della distruzione e della fine imminente del nostro habitat naturale; come infatti è noto ogni ora che passa, sale a migliaia, secondo i dati degli esperti, il numero delle specie vegetali e animali che scompaiono, mentre avanzano premurosamente la desertificazione e le montagne dei rifiuti non riciclabili che disegnano scenari di squallore e di morte, quasi metafora del biblico tohu-vabohu, il caos primordiale antecedente la creazione.
    Questo scenario apocalittico - non frutto di menti esaltate ma di dati scientifici sufficientemente incontrovertibili - costituisce un vero kairos: un'occasione particolare ed urgente per tutti, sia per il «laico» chiamato a interrogarsi sul perché di un logos che sta portando alla distruzione della terra, sia per il credente, sollecitato a ritrovare il senso autentico del suo atto di fede nel Dio «creatore del cielo e della terra».
    Per questo la crisi ecologica in atto acquista il valore di una sfida creativa:
    - per «inventare» o «reinventare» un pensiero e una prassi, l'uno esigitivo dell'altra, capaci di interrompere il processo di distruzione della terra in atto;
    - per ritrovare il senso originario della parola biblica quale evangelo, cioè buona novella, di un Dio la cui creazione, che è la «terra» dei viventi, è sette volte buona, secondo l'incipit della bibbia.
    Le note che seguono, assumono seriamente questo duplice kairos e si muovono all'interno di una duplice convinzione: che per salvare la terra e consegnarla al futuro dei nostri figli si richiede di avere, su di essa, un nuovo pensiero o un nuovo sguardo; e che nei testi fondanti (Antico Testamento e Nuovo Testamento) della tradizione ebraico-cristiana si nasconde un «senso» che, riscoperto e pensato al di là degli equivoci e delle interpretazioni riduttive (sia dal punto di vista «laico» che «confessionale»), prospetta una via d'uscita dalla crisi che non è il ritorno al premoderno e al naturalismo, come sembra emergere dalla maggior parte delle voci oggi più ascoltate,[1] ma un nuovo pensiero della giustizia e della pace che non nega il tecnologico, ma lo «messianizza» ponendolo al servizio della volontà di amore che dà «da mangiare» agli affamati, non distruggendo la terra ma trasformandola, con il messia e come il messia, in banchetto conviviale, secondo l'utopia isaiana (cf 25, 69).

    Una scelta nella coscienza umana

    L'attuale distruzione del pianeta, ogni giorno vertiginosamente in aumento, non è fatale o casuale, ma la risultante di un modo sbagliato di porsi di fronte alla terra - o natura - di cui ciascuno, personalmente, deve prendere coscienza e assumersi, personalmente, la responsabilità. È questo il primo passo per educarsi ad un'etica ecologica e contribuire a riportare la terra alla sua abitabilità.
    Ciò comporta, in primo luogo, il superamento di un atteggiamento, a seconda dei casi fatale o provvidenzialistico, dal quale tutte le culture da millenni si sono lasciate, a loro stessa insaputa, plasmare e ispirare: l'atteggiamento di chi pensa che la natura - luogo della vita e delle condizioni che, dall'aria, all'acqua, alle piante, agli animali la rendono possibile - è un dato di fatto sul quale contare per sempre, cioè eternamente: o per una legge di necessità, come nel pensiero della grecità, dove le «cose» hanno una essenza, uno spessore che, al di là dell'apparenza, resta sempre permanente e persistente, essendo fatte così e non potendo essere che così; o per il volere divino, come nella concezione cristiana, secondo la quale, in base ad una interpretazione insufficiente del testo biblico, il corso degli eventi naturali e storici sono affidati alla provvidenza divina, la quale, amore indefettibile, non abbandona né può abbandonare il mondo a se stesso o alla catastrofe.
    Il fatto, per la prima volta emerso nella coscienza umana (rivoluzione copernicana superiore sia a quella galileana che a quella kantiana), è che non è più vero che l'esistenza della natura è garantita per sempre e eternamente, quale apriori del pensare e dell'agire umano, ma che è contingente e che, pertanto, può scomparire.
    La data d'inizio di questa nuova coscienza, impensabilmente traumatica, può essere fatta risalire allo sgancio della bomba atomica su Hiroshima con cui, per la prima volta, l'uomo ha scoperto il suo potere distruttivo nei confronti del genere umano e del suo habitat naturale: «Hiroshima 1945» ha modificato fondamentalmente la qualità della storia umana. Il nostro tempo è diventato tempo a termine. L'epoca in cui viviamo è l'ultima epoca dell'umanità, che viviamo in un tempo in cui in qualsiasi momento possiamo provocare la fine del genere umano. Il sistema della deterrenza nucleare, che abbiamo costruito e che perfezioniamo di continuo, ci consente ormai di porre termine, nell'arco di poche ore, alla vita di gran parte dell'umanità. L'inverno nucleare, che seguirà ad una battaglia combattuta con armi atomiche, non consente nessuna chance, neanche ai sopravvissuti. Questo tempo della fine, possibile in qualsiasi momento, è in effetti - e non soltanto secondo il quadro apocalittico, ma in termini puramente secolari - il «tempo della fine», dato che nessuno potrà aspettarsi che questa età nucleare lasci poi il posto ad un'altra età in cui il genere umano possa esistere senza essere minacciato di autodistruzione. Il sogno di un «mondo senza armi atomiche» (Gorbaciov) è bello, ma resta pur sempre un miraggio. Nessuno pensa seriamente che un giorno gli uomini si renderanno di nuovo incapaci di fare quel che ora possono fare. Chi ha imparato una volta la formula non la dimentica più. Con Hiroshima l'umanità ha perso la sua «innocenza atomica», e non la riacquisterà più.[2]
    Questa inedita e drammatica situazione, in cui, persa la sua «innocenza atomica», da «radicato» sulla terra, l'uomo se la scopre nelle sue «mani», affidata alla sua irremissibile responsabilità, deve trasformarsi in nuova coscienza antropologica, come già scriveva Albert Einstein nel 1946, all'indomani dell'inferno di Hiroshima: «La forza dell'atomo che abbiamo sprigionato ha cambiato tutto, eccetto il mio modo di pensare. Abbiamo bisogno di un pensiero sostanzialmente nuovo, se vogliamo che l'umanità sopravviva».[3]

    Oltre il dominio

    Il primo tratto di questo nuovo pensiero - o nuovo sguardo - è la consapevolezza delle ragioni che hanno portato a questa situazione di catastrofe.
    Secondo un'analisi unanimemente condivisa dalla maggior parte degli studiosi, indipendentemente dalle loro ideologie, alla base di tutte le ragioni pratiche e scientificamente rilevabili - bomba atomica, energia nucleare, tecnologia, «sviluppo», sfruttamento, inquinamento, scorie, sovrappopolazione demografica, ecc. - che di fatto stanno distruggendo la natura e le specie viventi, va individuata una ragione ancora più profonda che le sottende, le genera e pervicacemente le alimenta: l'autocomprensione del soggetto umano apparso, per la prima volta, con la modernità, e che, secondo una dizione divenuta corrente, può essere sintetizzata nella categoria di «dominio». Il soggetto moderno è un soggetto «dominatore» che, al di fuori di sé, non riconosce alcun senso che non sia la produzione del suo io, sia esso l'io desiderante, volente, progettuale, ludico, tecnologico o intelligente.
    La carta d'identità di questa nuova soggettività è il «cogito ergo sum» cartesiano («penso, quindi sono») dove, nella sua immediatezza e semplicità, si racchiude la nuova immagine rivoluzionaria con cui il soggetto umano si vede nella natura e la vede: non più suo corpo cui appartiene ma osservatore che, dall'esterno, la guarda e la misura come oggetto o res extensa. È come - per capire lo spessore sconvolgente di questa immagine emersa con la modernità - se un mattino, risvegliandosi, la mano o l'occhio si scoprissero non più membri del corpo, ma realtà autonome e irrelate che lo osservano dall'esterno. Questo cambiamento impensabile si fissa e si tramanda nel radicale capovolgimento semantico che subisce il termine soggetto: da colui che è sottoposto alla logica della totalità, secondo l'etimo originale di subjectum, a colui che, da giudice, la osserva e la misura dal di fuori.

    La natura non è un oggetto

    Una volta non più dentro la natura, questa ha cessato di essere, per l'uomo, un organismo vivente e palpitante, dotato di una sua armonia e di un suo senso vincolante, per trasformarsi in oggetto: un corpo senza anima e una superficie bianca senza più figure e senza più colori, se non quelli che l'io vi disegna, a seconda dei suoi desideri e progetti. La natura, desacralizzata, privata del suo senso autonomo, intrinseco e immanente, non ha altro senso che quello strumentale immessovi dallo sguardo umano: «cosa» a servizio della sua progettualità, pezzi per la costruzione di «macchine» portentose (è a partire da questo periodo che l'immagine, il linguaggio e la realizzazione delle «macchine» si diffondono).
    Al fondo delle ragioni che distruggono la natura ed esigono una nuova etica ecologica, c'è questo sguardo oggettivante dell'uomo moderno che, svuotandola di ogni senso autonomo, la riduce ad una muta distesa di spazio dove l'unica armonia possibile è quella iscrittavi dalla sua logica desiderativa o razionale. Ma una logica che, proprio la distruzione della natura in atto, smaschera come illusoria ed omicida, venendosi così ad infrangere il mito dell'illuminismo secondo cui la ragione umana, liberata dalle autorità esterne (religione, rivelazione, tradizione, ecc.) e consegnata a se stessa, sarebbe stata finalmente in grado di disegnare figure di senso liberanti ed universali che avrebbero fatto entrare la storia nella realizzazione finale.
    Non si capisce nulla della crisi epocale che viviamo e del perché della distruzione del pianeta in atto, se, al di là delle specifiche ragioni pratiche e tecnologiche che vanno individuate con rigorosa competenza, non si intravede questo sguardo oggettivante e reificante che riduce il mondo ad un cadavere da vivisezionare.
    In questo gesto prometeico di reificazione del mondo, la modernità si è sentita legittimata dal testo biblico, che, unico tra i grandi testi religiosi dell'umanità, ha reso possibile desacralizzare il mondo grazie alla sua categoria centrale della creazione.
    Ma per la bibbia la desacralizzazione della natura - l'affermazione che essa, in quanto altra da Dio, non è né può essere divina, la sua veste o la sua epifania - non coincide in alcun modo con la sua riduzione ad oggetto sul quale il soggetto umano può rivendicare il dominio a piacimento. Per la bibbia, infatti, la natura, pur non essendo divina - cioè altra da Dio - resta sempre di Dio, appartenente a lui e non all'uomo.
    Qualsiasi educazione ad un'etica ecologica, soprattutto per chi si muove nell'orizzonte della tradizione ebraico-cristiana, non può ripartire che da qui: da questa pagina creazionale che se, per un verso, fonda la fuoriuscita del soggetto umano dalla totalità, come vuole la modernità, per l'altro lo mantiene, diversamente da quanto ha pensato e realizzato la modernità, sotto un vincolo che gli impedisce di trasformare il mondo in oggetto.
    Stando al primo capitolo della bibbia, la natura, infatti, non è un soggetto di dominio,[4] ma una realtà sette volte buona (tov): tutta buona (essendo questa valutazione ripetuta per ciascuna delle cose create) e pienamente buona (essendo il numero sette il numero della perfezione e della compiutezza). E lo è, per il testo biblico, almeno ad un triplice livello.

    Lo sguardo fruitivo

    Ad un primo livello la natura è buona perché in essa quanto vi si trova o, vi si potrà trovare, risponde adeguatamente al bisogno di chi l'abita. A livello fenomenologico è questo il significato primo ed universale che la categoria della bontà contiene. Dire di una mela che è «buona», come pure dirlo di un bicchiere d'acqua o di un legno o di una pietra, vuol dire affermare un loro rapporto di adeguatezza tra il soggetto umano e la loro realtà, tra il bisogno del primo e la presenza dei secondi colti come adatti a soddisfarlo: una fame da calmare, una sete da colmare, un rifugio da costruire, un qualcosa da tagliare. Lo sguardo primo dell'uomo sulla natura - anche dell'uomo delle società più sacrali dove la natura, tematicamente, è proclamata come «corpo divino» e, pertanto, intangibile - si identifica con questo sguardo che la commisura al proprio bisogno, trovandola oggettivamente adeguata. I traduttori dei LXX della bibbia, per esprimere questo livello di bontà, hanno fatto ricorso al termine krestos, che vuol dire utile.
    Questa categoria della bontà come «utilità» è incancellabile dalle stesse culture più sacrali, le quali hanno conosciuto e legittimato anch'esse una certa forma di oggettivazione e di dominio della natura trascendendo, così, la loro totale dipendenza e instaurando, con essa, un tipo di rapporto non più, come nel regno animale, solo di passiva fruizione, ma anche di attiva collaborazione e «sfruttamento».
    Se questo è vero, l'intervento tecnologico dell'uomo sulla natura, con cui il primo adegua al proprio bisogno la seconda con l'invenzione di strumenti adeguati (dalla palafitta, ai canali di irrigazione, alla freccia, al coltello, alla ruota, alle macchine a vapore, all'aereo e al computer), non è un'invenzione della modernità, ma coincide con l'affermarsi stesso dell'umano. E se la tecnologia moderna, come denunciano molti dei suoi critici, è «violenta», non si tratta né può trattarsi, come spesso si sostiene, di una critica di principio, secondo cui l'uomo non avrebbe il diritto di «imporsi» sulla natura, avendo l'uomo, di fatto, esercitato, da sempre, una forma di «dominio» e di «controllo» su di essa (che cosa è, infatti, la cultura, se non questo?), ma del ripensamento e della riorganizzazione delle sue finalità e dei suoi limiti reali. Educarsi ad un'etica ecologica non è rinunciare alla tecnologia a favore di un ritorno alla natura, magari intesa romanticamente, ma ritrovare il senso del «tecnologico», che non è quello di essere fine bensì mezzo.
    Ora il fine del tecnologico - per le grandi tradizioni religiose e culturali ma soprattutto per la bibbia - è il bisogno umano, e l'intervento sulla natura è giustificato, cioè giusto, se mosso da questa intenzione ed attenzione. Un fine come questo, solo all'apparenza innocente, capovolge alla radice la logica della tecnologia e dell'antropologia di dominio che la alimenta, facendo dell'uomo non una «parte» della natura ma il suo «centro»: però, non in quanto dominatore, bensì in quanto destinatario principale: e destinatario principale non in quanto intelligente o progettuale, ma in quanto povero o essere di bisogno.
    Ne consegue che, in un'educazione per un'etica ecologica, la vera conversione da operare, non è l'abbandono dell'antropocentrico per fare ritorno al cosmocentrico, ma il passaggio dall'antropocentrismo, inteso come dominio, all'antropocentrico inteso come bisogno e povertà. Il vero antropocentrismo, soprattutto quello della bibbia, non è l'antropocentrismo di chi, con la sua intelligenza e il suo potere tecnologico, domina la natura, bensì quello di chi, consapevole della destinazione della natura alla felicità dell'uomo, la pone, per principio e di fatto, a suo servizio.

    Lo sguardo poetico

    Ad un secondo livello la natura è buona perché essa, oltre a rispondere al bisogno umano, vi risponde con quella particolare modalità che è la compiutezza ed armonia delle forme che appagano l'occhio che le guarda. In questa seconda accezione le cose sono buone perché belle: l'albero che, oltre a produrre frutti, è come il volto di una persona cara; l'acqua del ruscello che, oltre a dissetare, è come la voce di un amico; il campo di spighe o la foresta che, oltre ad essere il serbatoio della sussistenza, è lo spazio familiare dal quale ci si sente accolti e protetti. È stata soprattutto la grecità ad avere colto e oggettivato questa dimensione di bontà, per la quale, come è noto, il mondo è kalos kai agathos: dove il bello non sta accanto al buono ma dove, più in profondità, il bello si identifica con lo stesso buono; dove, pertanto, il bello esaurisce la totalità della bontà e diventa la stessa definizione del divino, suprema bellezza, perfezione ed armonia, oggetto desiderato (si ricordi il Dio 'eromenos, amato, di Platone) o soggetto attraente.
    Per molti, la violenza che distrugge la natura affonda la sua radice nella perdita, da parte dell'uomo moderno, di questo sguardo.
    Recentemente M. Luzi, intervistato da un gruppo di giovani, a proposito del mondo del quale non sappiamo più ascoltare la voce, ha risposto che noi siamo come «ottenebrati dal nostro egoismo, quasi asserragliati dentro il nostro ego che ci chiude le porte e le finestre», per cui «il mondo diventa muto, la parola diventa quasi una pietra tombale, una "epigrafe mortuaria"».
    Se tutto questo è vero - e nessuno avrà dubbi al riguardo - educare ad un'etica ecologica è educare al recupero di uno sguardo capace di cogliere il bello che la natura incarna e dispiega e di tradurlo nella parola poetica, al di là del parlare quotidiano e al di là del dire scientifico.

    Lo sguardo religioso

    Ma al di là della bontà come bellezza, il testo biblico conosce un terzo livello di bontà - quello più radicale e fondativo dei due precedenti - che non si identifica con essa ma la trascende. Solo riscoprendo questo terzo livello di bontà, per la bibbia è possibile un rapporto con la natura né di dominio né di dipendenza, ma di rispetto e di tenerezza che, nel suo movimento, assume il regno animale e lo stesso regno vegetale (cf il senso dell'anno sabbatico).
    Quando si dice, per esempio, di una persona che è buona (perché si è fermata con la macchina dando un passaggio o si è mostrata sollecita verso un povero facendogli l'elemosina), la bontà di cui in questo caso si parla ha un'accezione irriducibile sia alla categoria della fruizione che a quella della bellezza, sia a quella dell'utile che a quella del bello: buona non perché oggetto di appetizione (come nel caso di un oggetto) né perché forma in sé compiuta (come nel caso di un fiore per l'artista), ma perché generosità che si dà, disponibilità che si offre, attenzione che si rivolge verso ciò che è altro.
    Per la bibbia e per le grandi tradizioni religiose, la natura è buona - «sette volte» buona, cioè totalmente buona soprattutto secondo questa ultima e radicale accezione: non solo perché risponde al bisogno umano, non solo perché è armonia e perfezione di forme, ma soprattutto perché nasconde e rivela, nella sua profondità ultima, inaccessibile e indicibile, una presenza generosa che, pur sottesa ad essa, non si identifica con essa e la cui bontà è altra sia da quella dell'appetizione che da quella della perfezione: una bontà da non fruire come utile o da riprodurre come forma, ma da accogliere e acconsentire. I LXX, per esprimere questo livello del tob biblico, hanno fatto ricorso al termine agathos, inteso non più come l'equivalente del bello ma come il suo trascendimento. Nell'accezione biblica, infatti, l'affermazione del mondo kalos kai agathos non equivale a identificare la bellezza con la sua bontà, come per la grecità, ma dischiudere, dentro la bellezza del mondo, un'ulteriore dimensione che la trascende.
    La vera educazione ecologica comporta il recupero soprattutto di questo sguardo capace di cogliere, oltre il livello fruitivo della natura e oltre quello estetico, la presenza buona di un'Alterità che la dona e che in essa si incarna: la presenza del «sacro», di Dio, del divino, dell'assoluto, ecc.
    Lo sguardo capace di cogliere, al di là dello spessore utilitaristico ed estetico della natura, la sollecitudine di una Presenza buona che la dona, sottrae il mondo a qualsiasi atteggiamento di violenza da parte dell'uomo (il dono in cui prende corpo la sollecitudine di chi ama non si «manipola» né si domina ma si custodisce nella riconoscenza!) e vi coglie, in esso, una compagnia indefettibile alla quale abbandonarsi.
    Pochi giorni prima di morire (aprile 1992), il giornalista Giovanni Forti, ricoverato in ospedale a motivo dell'Aids, scriveva nel suo diario per l'Espresso; «Di fronte alla mia finestra d'ospedale vi sono due pini romani. Li guardo all'alba e al tramonto, e il mio cuore si riempie di gioia».[5]
    Se ci si chiede come sia possibile che una persona, prossima alla morte senta il cuore rallegrarsi alla vista di due pini piantati al di là della propria finestra d'ospedale è perché in essi viene colta, pretematicamente prima che tematicamente, la presenza di questa compagnia profonda e indefettibile della quale, anche se se ne ignora la nominazione e la dicibilità, se ne sperimenta la potenza della vicinanza.
    Per interrompere il cammino di distruzione della natura si richiede questo sguardo che, oltre l'utilitaristico e l'estetico, coglie in essa il «sacro» o il «religioso», cioè questa dimensione di bontà assoluta alla quale sentirsi «legati», come vuole l'etimo stesso di religione: da religio, religare.
    Senza la presenza di questa bontà assoluta e vincolante, sia pure a insaputa stessa del soggetto umano, la natura perde il suo incanto, e da habitat familiare si fa ambigua e produttrice di morte.

    Lo sguardo riconoscente

    Ma parlare di bontà - che è la sostanza del religioso o del sacro, nonostante le diffidenze ingiustificate che, per motivi vari, sia i laici che i cristiani, hanno per termini come questi [6] - è parlare di una bontà peculiare che trascende l'ordine dell'appetizione e instaura quello della bontà personale, l'ordine del «Tu» di fronte all'altro.
    È stata ed è soprattutto la tradizione ebraico-cristiana a concepire il principio dell'amore sottostante alla natura come principio personale, simboleggiato non con la metafora della madre terra, come avviene nella maggior parte delle culture di cui abbiamo conoscenza, ma con quello, discreto e severo, del padre: «Padre nostro che sei nei cieli».
    Affermare che l'amore che inabita il mondo è di carattere personale non è una quisquilia terminologica, ma una delle più grandi rivoluzioni nella storia della produzione delle idee umane, consistente nel concepire la natura non più come il «corpo» del divino, sua espressione e sua manifestazione, del quale l'uomo, come ogni altra cosa, è parte, bensì altra da esso e ad esso irriducibile e, per questo, «manipolabile», «prensibile» e «comprensibile». È questo il significato principale della categoria della creazione biblica - la categoria centrale della tradizione ebraico-cristiana - che, mentre istituisce un legame essenziale e costituito tra Dio e il mondo, afferma, contemporaneamente, l'alterità irriducibile tra l'Uno e l'altro.
    Si è già notato che, per molti, è soprattutto a questa tradizione che va addebitata la distruzione del pianeta in atto: perché essa avrebbe svuotato la natura della sua trascendenza, riducendola a puro oggetto della prensibilità e comprensibilità umana. Ma la tradizione biblica, a ben riflettere, se è vero che finalizza la natura all'uomo, non la riduce, in alcun modo, ad oggetto, cosa, res o quantum, perché in essa vi legge iscritta l'intranscendibile intenzionalità divina - la sua trascendenza - che è di essere dono per il bisogno umano e che, nella preghiera di lode o di benedizione, trova la sua espressione adeguata.
    Educarsi ad un'etica ecologica - ad uno stare nel mondo secondo verità che aiuti a recuperare le giuste coordinate - è educarsi al recupero di questo sguardo riconoscente che, dentro il mondo ma irriducibile ad esso, coglie la bontà personale e gratuita di Dio che lo dona. Per la bibbia l'anima mundi non coincide con il principio naturale che si manifesta e si autoespande nella inesauribile apparizione delle forme esistenti, ma con la bontà divina intesa come benevolenza - come volontà di bene - che dal soggetto umano attende di essere riconosciuta ed acconsentita. Lungi dal creare un soggetto dominatore, che ignora la natura riducendola ad oggetto, la bibbia istituisce il soggetto ricettivo - e per questo riconoscente nel duplice senso di nuova conoscenza e di gratitudine - che sa di vivere non in forza della sua progettualità, ma in forza di ciò che ogni giorno, gratuitamente, gli è dato: «Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o di quello che berrete... Guardate gli uccelli del cielo: non seminano né mietono, né ammassano nei granai. Eppure il padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro?» (Mt 6, 25-26).
    Perché il mondo diventi la vera patria dell'uomo, la sua casa ospitale, si richiede, per la bibbia, questo sguardo riconoscente e ricettivo che, se vive, sa di vivere in forza di un extra che gli è dato e che i maestri della tradizione cristiana, con un termine bellissimo, hanno chiamato «grazia». Qualsiasi discorso ecologico - che si voglia veramente interessato all'oikos (casa) o habitat umano - può solo partire dal recupero di questo sguardo che fiorisce oltre il progettuale ed è pura accoglienza della grazia.

    Lo sguardo etico

    Ma per la bibbia non è lo sguardo recettivo lo sguardo ultimo sul reale capace di scioglierne l'ambiguità e il suo potere negativo, perché, per essa, la recettività da pura passività - accogliere il mondo come dono - si fa, paradossalmente, suprema attività: ridonarlo allo stesso modo che è donato. Lo sguardo etico - lo sguardo peculiare della tradizione ebraico-cristiana - consiste nel trasformare in principio operativo della propria soggettività la realtà dell'amore divino. riconosciuto e accolto come il cuore stesso del reale. Quell'amore gratuito che lo sguardo ricettivo coglie iscritto ed oggettivato dentro ciascuna e tutte le realtà mondane - dal pane al fiore, dal sole alle montagne - lo sguardo etico lo rilegge come istanza, come amore che non si offre quale oggetto ma come imperativo e come comandamento, che non dice: amami e fruiscimi, ma: ama anche tu allo stesso modo che sei amato.
    Lo sguardo etico è, pertanto, lo sguardo responsabile: lo sguardo che, cogliendo nel mondo la bontà personale che lo sottende, vi acconsente rispondendo sì (è questo il significato etimologico di responsabile) e ridonandolo: perciò è lo sguardo che coglie le cose non per sé, all'interno del proprio arco progettuale, e neppure in sé, all'interno della compagine totalizzante cosmica e sociale, bensì per l'altro, per la sua gioia e per la sua pace.
    Questo sguardo di acconsentimento, che da contemplante si fa responsabilizzante, è racchiuso, per la bibbia, nella categoria della giustizia, categoria che, lungi dal contrapporsi all'amore, come ha voluto una ingenerosa tradizione cristiana, lo ridefinisce al di fuori dell'orizzonte desiderativo: l'amore che non va verso l'altro per portarlo a sé e riempirsene, bensì l'amore che va verso l'altro per restare ai suoi piedi e per servirlo.
    Educarsi ad un'etica ecologica, a comportamenti e scelte che salvaguardino veramente il pianeta dalla distruzione in atto, è soprattutto educarsi a questo sguardo che dentro le cose vede iscritto il loro appello originario alla destinazione universale: il loro essere per tutti e il loro non poter essere accaparrate, pena il loro ripiegarsi su se stesse e contraddirsi.
    Da questo punto di vista, il contributo della tradizione ebraico-cristiana resta, oggi più di ieri, fecondo per uscire dalla crisi del pianeta in atto. La distruzione, infatti, che minaccia il mondo, se, a livello di cause prime e immediate va addebitata allo sfruttamento forsennato e alle fonti d'inquinamento derivatene, a livello di cause ultimali essa trova la sua radice prima nel «cuore» ingiusto e violento (cf Mc 7,17) del soggetto umano che, nel suo movimento alienato, coinvolge e aliena la stessa creazione, come ha ben visto Paolo quando, nella lettera ai Romani, scrive che questa stessa «attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio» (Rm 8, 19 ss).

    Solo la giustizia ci potrà salvare

    Per uscire, pertanto, dalla crisi, non è sufficiente una nuova razionalità o un nuovo «illuminismo», ancora più «illuminato», come sostengono molti analisti del moderno, bensì una nuova soggettività al cui centro collocare non più l'io - essendo una soggettività incatenata intorno all'io la natura stessa, per la bibbia, del peccato - ma l'altro: il «povero», «l'orfano», la «vedova», «lo straniero», ecc.
    In un mondo divenuto, grazie ai mezzi di comunicazione, villaggio, la categoria del «povero», dell'«orfano», della «vedova» e dello «straniero» cessa di essere regionale e diventa, per la prima volta, categoria epocale, con cui rileggere l'intera storia contemporanea che, come i mass media ci sbattono in faccia ogni giorno, si divide in due aree: quella dei ricchi, dotati di potere economico e tecnologico, e quella dei poveri - i tre quarti dell'umanità - che hanno solo da mostrare il volto della disperazione e della fame.
    Lo sguardo capace di salvare il pianeta è lo sguardo che coglie questo volto, registrandone il gemito e ascoltandone la potenza di appello. L'assoluto - il non proveniente dall'uomo ma il vincolante l'uomo , che impedisce alla storia di ripiegarsi su stessa e di precipitare nel caos o nella catastrofe, è nel volto dei quattro miliardi di affamati del mondo che i telegiornali ci rendono commensali importuni delle nostre mense.
    Di fronte ai problemi immani coi quali siamo chiamati a confrontarci, aumentano le voci di coloro che, riprendendo una celebre formula di Heidegger, ripetono che «solo un Dio ci può salvare».
    È vero, solo un Dio ci può salvare. Ma un Dio - da aggiungere se non si vuole ricadere nell'irresponsabilità della riedizione di un Deus ex machina che è il Dio la cui voce è nel gemito del povero e la cui assolutezza è nella incondizionatezza con cui comanda a farglisi prossimità.
    Imparando ad ascoltare il gemito dei poveri, noi paesi ricchi e tecnologici salveremo, contemporaneamente, anche noi stessi, ridando senso - cioè direzione e scopo - alla scienza e alla tecnologia che, da fini in sé, sono e devono tornare ad essere come, l'olio e i denari della parabola lucana (Lc, 10), strumenti di salvezza per l'altro.
    Non solo. Sfuggiremo alla tentazione oggi suadente più che mai che per uscire dalla crisi sia necessario tornare alla concezione naturalistica dove il rispetto dalla natura si fa prioritario rispetto al gemito del povero, dimenticando quanto recentemente e acutamente ha scritto Lévinas polemizzando con Heidegger: «La possibilità o speranza di nutrire coloro che hanno fame nel Terzo e nel Quarto Mondo mi sembrava, perlomeno, che giustificasse semplicemente la distruzione del paesaggio naturale che tanto spaventa le anime sensibili e intelligenti di cui non intendo affatto burlarmi».[7]
    Educarsi ad un'etica ecologica è educarsi, in ultima istanza, alla giustizia o amore di alterità dove il senso del proprio agire e del proprio essere non è misurato dalla propria progettualità (il peccato della modernità), e neppure dal rispetto della totalità (il peccato del naturalismo), ma dal gemito del povero cui si va incontro a mani piene, facendogli dono del pane necessario.
    È questo - il povero e non la natura - l'unico assoluto dove, per la bibbia, Dio, rivelandosi, incontrando la storia, la salva, facendogli dono di una direzione e di un senso. Si tratta di un assoluto che è l'unico del quale si può dire che è veramente tale, perché estraneo all'orizzonte del desiderio - non è infatti vero che il povero invece di at-trarre, dis-trae cioè allontana -, oltre e altro dall'umano, «sciolto» (è questo il significato letterale di assoluto) dalle sue produzioni e proiezioni.
    Ma si tratta anche di un assoluto che, appunto perché tale e non l'ennesima figurazione del desiderio umano, è in grado di salvare veramente il mondo, facendo di questo né una totalità di senso né un'avventura umana senza senso, bensì una possibilità di benedizione sempre aperta affidata alla responsabilità umana, secondo il noto principio di Isaia per cui la «pace», cioè il mondo riuscito e felice, fiorisce dalla giustizia: da soggetti che amano di amore di alterità e intenzionano di questo amore il mondo cose e persone cui vanno incontro (cf Is 32, 16).
    A salvare il mondo non sarà, per la bibbia, il recupero del rispetto per la natura che, come è ovvio nessuno non può non augurarsi , ma l'instaurazione della giustizia e dell'amore di alterità che, decentrando l'uomo dal suo io, lo sottrae alla volontà di potenza e di dismisura.
    Per la bibbia, sarà solo l'amore al «povero», cioè la giustizia o amore di alterità, a salvare la natura e l'uomo.


    NOTE

    [1] Restando a livello teologico, anche J. Moltmann, nel suo La giustizia crea futuro. Una politica ispirata alla pace e un'etica fondata sulla creazione in un mondo minacciato, Queriniana, Brescia 1990, sembra muoversi su questa linea.
    [2] J. Moltmann, cit., pp. 32-33. In una recente intervista pubblicata sul quotidiano de La Repubblica, martedì 28 luglio 1992, p. 27, il novantenne filosofo K. Popper, per il quale le due minacce più drammatiche alla sopravvivenza del pianeta vengono dalle atomiche e dalla esplosione demografica, solo a proposito delle bombe atomiche sparse nella ex Russia e del loro potenziale distruttivo, scrive: «Sacharov suggerisce di calcolare la sua bomba nucleare in base a quella di Hiroshima... Ha detto che la sua bomba nucleare era migliaia e migliaia di volte più potente della bomba di Hiroshima. Ora Gorbaciov ha dapprima ammesso che esistevano 11.000 bombe del genere, poi è salito a 14.000 e infine, prima del suo discorso d'addio, a 30.000, il che equivale a 90 milioni di bombe di Hiroshima. Tenendo conto di una certa reticenza, possiamo dire che attualmente vi sono 100 milioni di bombe di Hiroshima sul mercato nero in Russia. È una cosa terribile, orribile, inimmaginabile». Se a queste 100 milioni di bombe si aggiungono tutte le altre sparse negli Stati Uniti e nelle altre parti del mondo, qualsiasi linguaggio si rivela impotente per esprimere la follia e l'orrore del potenziale distruttivo accumulato dall'uomo nelle sue mani durante gli ultimi decenni di questo secolo».
    [3] Ivi, p. 31.
    [4] L'accusa formulata da molti teorici dell'ecologismo, per i quali lo sfruttamento sconsiderato del pianeta viene addebitata alla tradizione ebraico-cristiana per essere stata responsabile della desacralizzazione del mondo, se conserva una certa dose di verità per quanto riguarda l'uso che, di fatto, è stato fatto di alcuni versetti (come, ad esempio, del celebre v. 26 della Genesi: «Dominate sui pesci del mare...»), resta totalmente infondata a livello di corretta ermeneutica del testo biblico, rispettosa della sua intenzionalità portante e del contesto.
    [5] Cf La Repubblica, 4 aprile 1992, p. 20.
    [6] Si pensi solo al grande dibattito riaperto recentemente sul Manifesto (giugno) sulla eclissi o meno del sacro e alle diverse posizioni emerse per la polisemia del termine mai chiarito da coloro che l'utilizzavano.
    [7] In Religiosità e Occidente, a cura di A. Krali, Marietti, Genova 1991, p. 12.


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