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    Storia di una catechesi in stile di animazione: i ragazzi e il clown



    Maria Teresa Pati

    (NPG 1991-10-35)

    Il nostro è un gruppo di giovani da qualche anno appassionati all'esperienza dell'animazione con i preadolescenti.
    Sorti come gruppo attorno ad un'esperienza di animazione nell'oratorio, ci siamo successivamente spinti «oltre i cancelli», per allargare l'esperienza sul territorio, in altre parrocchie della diocesi, molto diverse e di certo più sguarnite della nostra.
    Abbiamo tentato di trasferire all'esterno il desiderio di far fare ai preadolescenti della nostra città quell'esperienza avventurosa che in oratorio era possibile proporre con più facilità.
    Il nostro desiderio si è incontrato con una sfida: che la scelta dell'animazione nella catechesi con i preadolescenti, il fare gruppo oltre e al di là della «classe di catechismo», fosse realizzabile anche in ambienti e spazi meno strutturati del nostro, di tipo parrocchiale-oratoriano.
    Per diversi anni, negli incontri diocesani dove ci si scambiavano esperienze e difficoltà, ci eravamo sentiti dire di essere dei fortunati, dei catechisti privilegiati sul contesto, a motivo delle indubbie possibilità strutturali che offriva la realtà oratoriana.
    Il gruppo, da circa tre anni, ha accolto questa sfida; e siamo sorpresi e contenti per quello che pian piano sta prendendo forma sotto i nostri occhi. Operiamo in cinque parrocchie diverse della diocesi, un po' disseminate, ma continuiamo a camminare insieme.
    L'esperienza che raccontiamo è il nostro tentativo di farci compagni con i gruppi di preadolescenti, per tentare di dire loro che vale la pena di vivere, e per dire insieme con loro il «sì alla vita».
    Prima tuttavia riteniamo fondamentale indicare i punti di innesto della nostra avventura con i preadolescenti.

    IL GRUPPO DEGLI ANIMATORI

    La nostra scelta è quella di «essere animatori insieme».
    Nel confronto con la realtà dei catechisti che conosciamo, ci siamo accorti che essi sono insieme sotto lo stesso nome, hanno un'esperienza personale comune: l'aver incontrato il Signore che li ha chiamati e al quale essi intendono rispondere.
    Questo a noi non è bastato. Stare insieme come animatori significa per noi qualcosa di più.
    Prima di tutto ci sentiamo persone in cammino: sentiamo il bisogno di sperimentare nuove realtà per la nostra vita; di aprirci al nuovo, curare le sensibilità personali di ciascuno; di lasciarci interrogarci e mettere in crisi da quanto si muove intorno, nella ricerca comune di una fedeltà alla «vita», alla nostra e a quella dei ragazzi, che si fa nuova ogni giorno e che siamo chiamati ad inventare ben radicati nella cultura.
    È da qui che è nato in noi il desiderio di «perdere tempo» con i preadolescenti; un tempo che non fosse solo quello dell'incontro settimanale con il gruppo o quella «lezione di catechismo» magari ben programmata. Cercavamo un tempo che fosse anche di ripensamento insieme di quel che si vive, di formazione: il tempo della nostra vita.
    Sulla pelle abbiamo provato che se un animatore si riduce a ripetitore, non ha più niente da comunicare ai ragazzi. Se non ci apriamo al cambiamento, perdiamo il contatto con il mondo reale e ci facciamo trascinare nella corrente di chi lo legge tranquillamente sempre con gli stessi schemi.
    Ogniqualvolta ci accingevamo a ripartire con un nuovo gruppo di undicenni, ci accorgevamo di quanto fossero diversi da quelli incontrati pochi anni prima. Per questo, come gruppo di animatori, ci sentiamo in formazione permanente: cerchiamo di inventare, imparare, provare, creare, verificare.
    La domenica pomeriggio è diventata l'occasione del nostro rivederci: ci raccontiamo le storie dei ragazzi e dei gruppi, cosicché accade che i preadolescenti di un gruppo diventano i ragazzi di tutti. Insieme verifichiamo gli incontri della settimana; insieme sviluppiamo ipotesi di cambiamento e formuliamo le ipotesi nuove da verificare nel cammino di gruppo. Di tanto in tanto infatti i ragazzi ci pongono domande che rivelano la possibilità di andare oltre quello che già si vive al momento.
    Per dare inizio ad un nuovo gruppo quest'anno ci siamo messi in cortile o per strada a inventare giochi con tutti i ragazzi; questo lo abbiamo fatto quasi tutti i giorni, per qualche settimana.
    Ad un certo punto tra i ragazzi è sbocciata un'idea, formulata in una domanda: «Perché non ci vediamo solamente tra di noi, senza i più piccoli o i più grandi, per stare insieme in un modo diverso?».
    L'interrogativo ci ha spiazzato perché non ce lo aspettavamo così presto: «cosa potevamo proporre loro per un primo incontro?».
    I ragazzi già si conoscevano e si chiamavano per nome; allora abbiamo iniziato con un «ban» per farlo dire loro in modo allegro e simpatico. Di conseguenza abbiamo sviluppato una «caccia» al significato del nome di ciascuno, con l'aiuto del dizionario, per vedere quanto ciascuno si riconosceva nel significato del proprio nome, ma anche per dare la possibilità a ciascuno di raccontare qualcosa di sé agli altri, a partire dal nome.
    Abbiamo scoperto insieme per prima cosa che, sebbene essi il nome non se lo fossero scelto, erano tuttavia diventati capaci di attribuire ciascuno al proprio nome un significato contenente la traccia di quanto avevano finora vissuto.
    Scoprimmo così che era importante allora dare anche un nome al gruppo che stava nascendo con loro. Un nome per il gruppo che però non poteva riassumerne la storia, dal momento che non ne esisteva ancora una; un nome invece che indicasse la speranza del gruppo: quello che insieme sognavamo e desideravamo realizzare.

    Un gruppo di animatori con un sogno...

    Essere insieme per noi animatori significava anche condividere il desiderio di esplorare il mondo dei preadolescenti in particolare. La capacità di metterci in ascolto era anzitutto curiosità verso il mondo dei ragazzi: non quella di chi analizza distaccato, bensì quella di chi vive con loro, non si vergogna di giocare, di prendere sul serio le loro domande, i loro problemi, le loro noie, le loro insicurezze.
    È mettendoci accanto a loro e calandoci dentro il loro mondo che abbiamo cercato di agire in riferimento ad un sogno fatto in precedenza da tutti noi animatori.
    Abbiamo sognato di portare l'oratorio in tutta la città. Adesso, mentre ci troviamo fuori dell'oratorio, sogniamo di far sperimentare che è bello farsi compagnia, vivere insieme da amici la nostra vita, ed essere così un segno per i più giovani e una domanda provocante per gli altri.
    Questo sogno ci anima, ci sprona a partire dopo i fallimenti che abbiamo sperimentato.
    Tre anni fa, primo anno in cui alcuni di noi si trovarono ad operare in una parrocchia un po' meno fortunata, iniziammo l'esperienza con un gruppo di ragazzi dai quattordici ai diciassette anni A fine anno ci ritrovammo in compagnia di soli quattro ragazzi! Con l'estate venne anche il tempo e la tranquillità necessaria per ripensare quanto vissuto e ritrovare il coraggio di ripartire a settembre, in modo diverso che non fosse solo con il trucco delle tecniche usate come specchietti per allodole, ma anche un metodo per elaborare i contenuti. Ora quel gruppo c'è ancora, con i quattro coraggiosi che hanno resistito la prima tornata, a cui si sono aggiunti altri sedici ragazzi. È un bel gruppo di adolescenti. Con loro la nostra preoccupazione non è stata più quella di «far capire le cose», bensì quella di vivere insieme.
    Non ripensavamo ciascuno da solo la propria esperienza. La possibilità di farlo con altri, unendo sensibilità diverse e la creatività personale, ci ha permesso di riprovare. La possibilità di confronto aperto, di scambio reciproco, di ricerca paritaria, di messa in comune degli interrogativi e delle sfide, lungi dal pensare che «si è troppo grandi per certe cose», che «si sa tutto», impegnati magari solo a creare strade per i ragazzi, ci ha fatto rivedere criticamente la vecchia esperienza del gruppo-catechisti parrocchiali di un tempo. Avevamo partecipato qualche volta ai loro incontri, e ne eravamo usciti piuttosto annoiati. Si parlava, soprattutto si ascoltava qualcuno che parlava tanto..., si dicevano delle cose che erano verità, che però non riuscivano ad interessare la vita: erano come «cose» messe lì, ad una certa distanza da noi e dai ragazzi, intoccabili, perfette, lontane. Non ci bastava dirci convinti che Gesù è il Signore: quel modo non riusciva a smuovere la vita nostra e degli altri; non la cambiava, né sembrava avesse la pretesa di cambiarla.

    ANIMATORI IN UNA COMUNITÀ

    Se non si è parte di una comunità più vasta, insieme ad altri da riconoscere, coi quali collaborare, è un po' difficile fare esperienza di fede nella Chiesa.
    Il rischio che abbiamo corso è stato quello di ritagliarci un Gesù Cristo tutto su misura nostra. E non è stata un'ipotesi solo astratta, ma qualcosa che abbiamo vissuto e sofferto nella storia del gruppo.
    Da qui l'esigenza di sentirci nella comunità come a casa nostra.
    In alcune comunità è stato più facile raggiungere questo obiettivo, perché abbiamo trovato parroci con i quali si poteva dialogare, essere riconosciuti mediatori delle esigenze dei diversi gruppi nella comunità. Altrove è stato più difficile: ci sentivamo «ospiti»; oppure c'era qualche responsabile di comunità che decideva tutto da solo, o ci accoglieva dicendo più o meno esplicitamente: «Va bene, la vostra programmazione è interessante. Sono trent'anni che io ci provo, ma qui i ragazzi non li attiri per niente. Provate pure, tanto si sa come finiranno le cose! Mi raccomando però: che i ragazzi non facciano chiasso! Devono essere educati» (che tradotto significa «muti»).
    E noi tiravamo dritto sulle linee di metodo portanti del nostro progetto: il cortile, il gioco, la sala da mettere sottosopra... Eppure proprio uno di questi «pastori», che si lamentava spesso e volentieri quando superavamo il livello tollerabile di baccano, ha fatto asfaltare il cortile di sua iniziativa, perché i ragazzi potessero meglio scorrazzare.

    Un ponte tra la comunità e i ragazzi

    Essere dentro la comunità piú vasta per noi significava essere un ponte fra i preadolescenti, dei quali ci sforzavamo di abitare il mondo, e la parrocchia che non ha solo il compito di dire la fede con i ragazzi, ma ha tante situazioni diverse di cui farsi carico.
    Il nostro intento era quello di portare la voce dei ragazzi quando si progettava insieme, quando si programmava la vita della comunità, quando si ripensavano le celebrazioni, per non ottenere l'effetto che, proprio a quel punto, in quei momenti, i preadolescenti si allontanassero con la scusa di comodo.

    IL PROGETTO DI UN'ESPERIENZA

    Fatto il passo oltre i recinti dell'oratorio, lasciate alle spalle le grandi strutture, ci siamo venuti a trovare ad animare preadolescenti in parrocchie organizzate prevalentemente sulla catechesi della cresima, gestita in modo più o meno tradizionale secondo il modello della classe scolastica, oppure sull'esperienza dei gruppi Acr.
    Ci siamo anzitutto interrogati sul «come fare» per incontrare ed aggregare i ragazzi attraverso una proposta che non fosse solo legata all'idea del sacramento da ricevere, o strutturata su modelli dotati di scarso potere aggregante su ragazzi demotivati e sbarazzini.
    La possibilità concreta che si apriva dinanzi era quella di immergerci in quelle cose che piacevano ai ragazzi e alle ragazze, per condividerle con loro, così da poterli condurre oltre quelle stesse cose, più dentro lo spessore della vita.
    Ad essi piaceva la musica, il cinema, il gioco, il teatro, lo sport...; noi abbiamo cercato di abilitarci intorno a queste attività che, in modo diverso per ciascuno degli animatori, erano poi nient'altro che i nostri stessi interessi.
    Chi studiava al conservatorio, chi aveva la passione per la recitazione, chi aveva fatto l'esperienza di un gruppo di promozione sportiva: da qui siamo partiti e abbiamo cercato di andare un po' più a fondo, di prepararci per vedere se, attraverso questi linguaggi privilegiati, potevamo comunicare con i preadolescenti.
    Abbiamo letto, discusso, sperimentato, fantasticato; abbiamo frequentato corsi specialistici, campiscuola; abbiamo cercato di coniugare insieme ciò in cui credevano e l'idea di partire da queste attività che piacevano loro.
    Il rischio, ce ne rendevamo conto, era quello di dare vita a due esperienze parallele, scollate tra loro: quella degli interessi e quella della catechesi. Nelle esperienze del primo anno s'è proprio registrata la carenza di... «collante»; il secondo anno siamo riusciti a riscrivere un itinerario che mettesse insieme le due cose armonicamente.
    Pur consapevoli di quanto fosse indispensabile avere in testa obiettivi ben chiari, non volevamo però lasciarci catturare dalla preoccupazione delle «cose importanti» da dire ai ragazzi.
    Essi, i preadolescenti, rappresentavano per noi la vera cosa importante.
    Abbiamo capito che era anzitutto importante preoccuparci di stare con loro, invece di angosciarci per i contenuti da far digerire. Oggi comprendiamo più che mai che, se si vive in pieno la vita e qualunque sua esperienza, i contenuti sono scritti lì dentro: basta scavare!
    L'unica vera fatica che ci siamo proposti e che anche oggi siamo disposti ad affrontare è quella di «far venire fuori» questi contenuti, di rifletterci sopra anzitutto tra educatori, liberati dalla preoccupazione di seguire le pagine del catechismo o gli itinerari «didattici» prefabbricati e calati dall'alto.
    Tutti questi strumenti li utilizzavamo e consultavamo al momento opportuno: quando dovevamo formulare un itinerario, quando avevamo bisogno di ripescare qualcosa che ci stavamo perdendo, quando sentivamo il bisogno di rinfrescarci la memoria sul modo in cui la Chiesa esprimeva certe verità sulla vita.
    Pensare gli obiettivi non era sufficiente; abbiamo analizzato la situazione molto differente delle diverse parrocchie in cui si operava; diversità di ambiente sociale, di mentalità, di modelli di vita, di tradizioni, di tessuto culturale.
    Abbiamo cercato di capire i ragazzi all'interno dei diversi problemi che emergevano sul loro territorio; di comprendere il loro stile di vita, soprattutto in famiglia. Partivamo dalla convinzione che tutto quello che pensavamo di poter dire ai ragazzi di undici-dodici anni, avremmo dovuto dirlo all'interno della loro situazione socio-culturale e vitale.
    Una seconda direzione di riflessione preliminare è stata quella di chiarirci tra animatori che cosa volevamo dai ragazzi: quali comportamenti ci aspettavamo di poter indurre e osservare per riconoscere se si stava camminando nella direzione di un obiettivo educativo, nel consolidamento di un atteggiamento nuovo verso la vita. Così abbiamo tentato di operazionalizzare gli obiettivi, uno per uno, per poter verificare, in itinere, il progredire dell'esperienza e riadeguare la proposta lungo il cammino.
    Abbiamo così preparato quattro itinerari diversi, a seconda dei punti di partenza: uno ruotava intorno all'interesse del teatro e della recitazione, uno attorno alla musica, un altro attorno all'attività del gioco e un quarto sull'attività attraverso l'immagine.
    Il progetto alle spalle era lo stesso, ma nella storia concreta dei gruppi avevamo individuato quattro strade diverse per realizzarlo.
    Analizzando i preadolescenti che incontravamo e avevamo cominciato a conoscere in profondità, abbiamo identificato, sia pure in modi differenti, alcune esperienze che abbiamo considerato tipiche dei preadolescenti di oggi: essi vivevano intensamente il momento della crescita, e la crescita corporea in particolare, l'esperienza della fatica e della ricerca della comunicazione con gli altri, l'esperienza della vita sociale in gruppi anche molto diversificati, l'esperienza della loro amicizia con il Signore Gesù (frequentavano abbastanza la messa, gironzolavano attorno alla parrocchia magari in bici o in motorino, avevano ancora come punto di riferimento la croce del campanile..). Queste erano le cose che ci apparivano «importanti ai loro occhi», le cose importanti della vita quotidiana.
    Proprio all'interno di queste esperienze abbiamo scommesso sulla possibilità di dire di sì alla vita e a Gesù il Signore della vita.

    IN GRUPPO DA CLOWN

    Quella che ora vi raccontiamo è la storia dell'itinerario con il gruppo del teatro.
    Abbiamo formulato un tema che indicasse il cammino di tutto l'anno. Serviva agli animatori; i ragazzi all'inizio non sapevano nemmeno che esistesse, potevano solo scoprirlo attraverso la vita e l'esperienza.
    Il tema l'avevamo formulato così:
    - «gruppo: perché è bello stare» (nel senso di essere insieme);
    - «stare: perché vogliamo essere» (l'accento è posto sulla crescita);
    - «essere: per vivere la festa di una vita che diventa nostra; e vogliamo mostrarlo a chi ci sta intorno» (a chi non vive il gruppo, per contagiarlo).
    Su questo tema abbiamo ritmato argomenti, contenuti, esperienze; abbiamo cercato delle idee vicine al mondo dei ragazzi per potervi leggere dentro la loro storia e la storia di Gesù. Abbiamo definito le scelte metodologiche conseguenti per far maturare in loro tutte queste cose, invece di appiccicarle loro in fronte.

    «Gruppo: perché è bello!»

    La prima tappa era quella del gruppo come realtà di far esistere, dal momento che era affascinante e bello stare insieme in un certo modo. Eravamo convinti che non bastasse fare delle cose insieme per essere e diventare gruppo. Occorreva sfondare il muro dell'isolamento, la facciata della compagnia rumorosa e facile, rivestita di maschere. Ci siamo accorti che, in fondo in fondo, i nostri ragazzi erano molto soli, anche se stavano sempre con gli altri, anche se facevano mille cose e stavano in mezzo alla gente.
    Facendo inseme qualcosa essi incominciavano ad imparare a stare con gli altri, a scoprire le proprie povertà, le proprie e altrui ricchezze.
    La possibilità di andare oltre quello che si è e si fa alla partenza, era legata a ciò che avrebbe dovuto nascere all'interno del gruppo, grazie ad alcune condizioni preliminari da assicurare, come terreno favorevole allo svilupparsi della vita al suo interno.
    Questa la ricerca, l'esperienza e la riflessione dei primi tre mesi di vita di gruppo con i preadolescenti.
    È evidente che, il più delle volte, Gesù non veniva neppure nominato: era la nostra scelta. Non parlavamo ancora di Gesù con i ragazzi, né facevamo esperienze di preghiera o di catechismo. Solo ci facevamo trovare alla messa della domenica cui invitavamo anche loro; niente di più.
    Ciò che era per noi importante all'inizio, in quella precisa fase del cammino, era la costruzione del gruppo. Non ci sembrava ipotizzabile il parlare di cose «alte e profonde» (le cose serie, si pensa di solito!), né presentare modelli di grandi eroi e santi del passato, né elenchi di comandamenti o di esigenze di vita cristiana, perché non ci sarebbe stata la disponibilità del gruppo a condividere le proposte.

    Il fascino del clown

    Invece dei santi o dei divi di turno, nel teatro parliamo di «clown».
    Eravamo e restiamo della convinzione che anche i santi siano stati degli ottimi clowns; naturalmente a modo loro e nel loro tempo.
    A noi però piace il clown, e usare questo personaggio come mediatore: è più «teatrale». Pensiamo e parliamo degli animatori come dei clowns, di don Bosco o di Francesco come clowns, dei ragazzi e ragazze stessi come quelli che stanno diventando clowns, perché essi il clown ce l'hanno dentro.
    Ci piace anche pensare a Gesù di Nazareth come ad un grande clown.
    Subito dopo Natale abbiamo iniziato l'esperienza di preghiera, perché in quel periodo abbiamo realizzato l'incontro con «il clown che nasceva a Betlemme»: Gesù, anche Lui con il suo naso rosso.
    Perché il clown, si dira?
    Perché il clown, che non è il pagliaccio, ci permette di tirar fuori il mondo personale, quel mondo interiore che ognuno possiede e deve scoprire.
    Il clown chiede di smascherarsi per costruire «la propria maschera»; di dipingersi il volto con un sorriso, ma anche con una lacrima; di colorare i propri occhi per riuscire a vedere le cose belle, quelle piccole, che gli altri non considerano. Il clown chiede di entrare in confidenza col proprio corpo. Fargli fare cose nuove, misurarsi con i propri limiti, per conoscerlo, utilizzarlo al massimo delle sue possibilità espressive. Chiede di intraprendere un viaggio nel proprio passato, nel proprio volto segreto per scoprirlo, accoglierlo, manifestarlo, regalarlo agli altri.

    «Facciamo uno spettacolo»

    Con i ragazzi, affinché tutto questo nascesse dentro di loro e non risultasse un mero discorso imposto, decidemmo insieme di fare uno spettacolo.
    È logico che si reciti, da parte di un gruppo che ha scelto di fare teatro! Proponemmo loro di allestire uno spettacolo in cui le scenette, accuratamente scelte, presentavano personaggi lontani dal loro mondo, in modo da farli «recitare», fingere veramente. Mettendo in scena queste piccole recite, ci impegnavamo a far apprendere loro i fondamenti del linguaggio teatrale, a farli entrare in confidenza col corpo, a scoprirlo, a leggerne le possibilità inscritte dentro: la possibilità di parola, di comunicazione ricca e chiara. Tutto quello che si faceva non era solo in vista dello spettacolo da creare, ma anche per entrare nella loro vita, per poterli conoscere e aiutarli a conoscere se stessi, perché non rimanessero estranei a quel mondo che avevano dentro e abitavano poco.
    Dopo questo lavoro, dopo la scoperta della necessità di collaborare e imparare (attraverso l'apprendimento di alcune acrobazie essi si esercitavano nella pazienza di provare e riprovare mille volte per finalmente riuscire) giunse il momento della presentazione e dell'incontro con dei veri clowns.
    In grupppo arrivavano gli animatori clowns che si presentavano, si facevano conoscere e li sollecitavano a trovare e dare vita al clown che ognuno poteva avere addormentato in se stesso.
    Questo diveniva possibile se, dal confronto con i clown che imbastivano uno spettacolo sul momento, coinvolgendoli, si fossero accorti che nel loro spettacolo mancava l'anima; se si fossero resi conto che, in fondo, essi con la loro vita non erano dentro lo spettacolo che preparavano.
    Con questo incontro i ragazzi scoprirono la possibilità di portare sulla scena la vita vera e di poterla raccontare.

    La vita in scena...

    È emersa a questo punto la necessità e la voglia di smantellare lo spettacolo e di riorganizzarlo in un'altra maniera, pur conservando il lavoro fatto in precedenza, perché aveva avuto la sua funzione e per questo non andava buttato.
    Nell'economia generale esso diceva cosa i ragazzi non erano, in quale vita non si trovavano, mentre lo spettacolo completo avrebbe detto la storia del gruppo che stava nascendo.
    Lo spettacolo finito sarebbe stato presentato agli altri per dire chi eravamo, per farci conoscere; mentre nel gruppo si sarebbe fatta una festa per celebrarne la nascita. I ragazzi erano stati capaci di dar vita a qualcosa di nuovo stando insieme.
    È all'interno di questo discorso che realizzammo l'incontro con Gesù di Nazareth, il «clown» per eccellenza.
    Non ci sembrava un'eresia presentarlo così. Chi conosce i clowns, leggendo il Vangelo vede raccontato in maniera lampante Gesù come clown. Noi l'abbiamo riletto ed è stata la nostra sorprendente scoperta. Mancava solo il termine esplicito.
    E poi ci abbiamo pregato per un anno all'incirca con settanta-ottanta preadolescenti: non è possibile che ci siamo inventati proprio tutto!
    La nostra è stata una «rilettura», proprio come Luca, Paolo, Pietro, che rileggevano a loro modo la vita di Gesù che avevano incontrato.
    Il clown è caratterizzato da alcuni tratti particolari: ad esempio «la camminata». Ogni clown ha la sua: una camminata che rivela il suo essere più profondo. Con i ragazzi abbiamo cominciato a riflettere e a pregare sulla camminata di Gesù: quella sulle acque. Con essa Gesù si rivelava e si mostrava Dio e uomo; con essa manifestava queste due realtà profonde del suo essere.
    Un altro tratto tipico del clown è lo sguardo; e Gesù, quando guardava qualcuno, lo guardava sul serio! Abbiamo pensato a Pietro.
    Oppure un altro tratto che ci ha stupito è stato il linguaggio di Gesù; il clown parla poco, in genere mima le cose, le mostra. Anche Gesù dice che dobbiamo parlare con: «Sì-sì, no-no», e per il resto mostrava le cose con i gesti.
    Il tipo di preghiera che è nata da questa rilettura della storia di Gesù era così legata fortemente alla vita e all'esperienza quotidiana dei ragazzi.
    Al riguardo è stata un'esperienza interessante quella intorno al linguaggio del clown e a quello dei ragazzi, soprattutto quello volgare.
    L'incontro è stato vissuto comunitariamente, dopo che i ragazzi avevano acquistato un po' più di confidenza con il proprio linguaggio. La riflessione su questo tema, affrontata con i preadolescenti, porta immancabilmente a fare i conti con le parolacce e le bestemmie.
    Noi abbiamo invitato i ragazzi del gruppo in chiesa, seduti a terra in cerchio, e li abbiamo espressamente invitati ad indicare le parolacce che conoscevano e utilizzavano quotidianamente.
    Tutti rimasero come bloccati, stupiti quasi per la nostra richiesta.
    Risultava impossibile pronunciare le parolacce che altrove dicevano con tanta spensieratezza e vigore; impossibile doverle pronunciare proprio ora davanti a Gesù!
    La domanda degli animatori è stata incalzante quanto la proposta: «Fuori Gesù non c'è? Allora andiamo fuori e diciamole fuori!».
    Con il vangelo di Giovanni abbiamo scoperto che Gesù non abitava solo in chiesa: non gli piace un posto soltanto! Egli rimaneva con noi anche dopo che il parroco chiudeva la porta della chiesa!
    Successivamente siamo riusciti a «liberare» le parolacce che avevano l'abitudine di dire. Le hanno scritte su un cartellone. Qualcuno, non avendone il coraggio, le bisbigliava all'orecchio dell'animatore, che successivamente le riportava scritte. A quel punto si poteva tornare in chiesa con il cartellone. Ci siamo interrogati sul senso di quelle espressioni. I ragazzi mostravano un certo disagio: «Sono solo uno sfogo! Le dico così per dire, senza pensarci veramente! Tutti le dicono!».
    Abbiamo visto insieme che quelle parole avevano però un senso proprio.
    Ci siamo confrontati con la storia di Gesù: Egli ci consigliava: «Semplicemente dite sì e no». Gesù, il clown, su questo argomento ci invita a rivedere qualcosa del nostro linguaggio di clown.
    È nato così, per la settimana seguente, l'invito a riflettere sul proprio modo di esprimersi parlando; a prestarvi attenzione, a mordersi la lingua almeno, dopo che scappava la parolaccia. Il giorno in cui ci siamo ritrovati a pregare e a verificare l'impegno, è stato interessante un fatto: i ragazzi non affermavano di non aver più detto parolacce, ma di essersi accorti delle occasioni in cui le avevano pronunciate. Per noi questo è diventato preghiera, un frammento della catechesi con i clowns.
    Con questo stile cerchiamo di far fare ai ragazzi esperienza del Signore della vita, come colui che si pone dentro il loro quotidiano, dal momento che a Lui non piace essere relegato su un monte, o a Gerusalemme, ma cammina sulle loro stesse strade, persino sulle acque!
    È stato bello per tutti averlo incontrato, ascoltato e riconosciuto nella compagnia.


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