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    Politica e partecipazione: verso una nuova frontiera della politica



    Giorgio Campanini

    (NPG 1991-3/4-97)


    È rimasta celebre la definizione di Aristotele dell'uomo come ani male politico (o sociale) e dunque, potremmo dire in termini moderni, come essere strutturalmente razionale, che per sopravvivere, ed ancor più per diventare persona, ha bisogno degli altri.
    Non l'isola deserta o il romitaggio - salvo situazioni eccezionali e vocazioni particolari - è dunque lo stato di vita corrispondente alla natura profonda dell'uomo, ma la vita associata; vita associata che è qualche cosa di più che non semplice «aggregazione» di individui che intendono insieme conseguire un determinato fine, ad esempio la difesa sociale o il migliore sfruttamento delle risorse naturali.
    La «aggregazione», presente non a caso anche fra gli animali (dal cui mondo lo stesso termine del resto deriva), è altra cosa dal «vivere in società», perché esso richiede la libera scelta dell'uomo.
    In questo senso Cicerone poteva affermare nella Repubblica che la «res publica» non è «ogni aggregazione di uomini in qualunque modo riunita, ma è aggregazione di una moltitudine riunita nel consenso della legge e nella comunità di interessi».
    Il consenso dei cittadini, la mediazione della legge, la finalizzazione al bene comune: sono questi i tre fondamentali elementi costitutivi di una società organizzata, e dunque di una società politica.
    L'autorità (o il potere) non ne è l'essenza, ma piuttosto ne rappresenta un mezzo necessario come forma di organizzazione del consenso, come capacità di mantenere l'ordine sociale, come principio direttivo atto a far sì che gli uomini, nella diversità dei loro orientamenti e dei loro interessi, si orientino tuttavia non al bene dei singoli ma al bene comune, che è il grande criterio direttivo della politica.

    L'«uomo della politica»

    In questo senso l'uomo della politica non è l'uomo del potere (e tanto meno l'uomo degli interessi privati), ma l'uomo del bene comune, colui che pone fra gli scopi della propria vita quello di operare per assicurare al gruppo sociale nel quale è inserito una migliore vita di relazione.
    «Uomo della politica» in senso lato è dunque ogni cittadino; «uomo della politica» in senso stretto è colui che fa della politica la propria «vocazione» ed insieme, in qualche modo, la propria «professione», pressoché unica o comunque significativa (è appena il caso di ricordare, a questo riguardo, la pregnanza del termine tedesco Beruf che indica appunto insieme «professione» e «vocazione», con una connessione sulla quale ampiamente si è soffermato Max Weber).
    In questa sede «l'uomo della politica» sarà inteso in senso lato e non in senso stretto, sembrando questo l'orizzonte più ampio nel quale poter meglio inquadrare l'esperienza quotidiana di chi non è «professionalmente» impegnato in ambito politico.
    E dunque categoria centrale posta alla base dell'intero discorso qui condotto sarà la categoria di partecipazione, che è appunto quella che consente a tutti i cittadini di «contare» politicamente e di avere potere: non solo nel saltuario ed eccezionale momento del voto, ma anche e soprattutto nel quotidiano vivere della società, dove partecipare significa anche informarsi, controllare, se necessario contestare, e dunque creare un movimento di opinione pubblica la cui vitalità e vivacità è condizione necessaria per il permanere stesso della democrazia, che dalla partecipazione nasce e senza partecipazione muore.
    Basterà appena sottolineare che questa specifica accezione di politica è cosa di tutti e riguarda ogni età della vita: non si cessa mai di partecipare - anche soltanto attraverso una puntuale informazione sui fatti della politica - perché non si cessa mai di essere uomini.

    PARTECIPAZIONE «CIVILE» E PARTECIPAZIONE «POLITICA»

    Il problema della partecipazione «civile» (e «civica»), vista come distinta dalla partecipazione propriamente politica, non è di agevole trattazione, in quanto occorre preliminarmente accettare, e fondare, una distinzione - quella fra «politico» e «sociale» - che non è da tutti accettata e che è da varie parti, anzi, contestata.
    La partecipazione politica può essere infatti definita come concorso alla gestione del potere sul piano istituzionale; ma questa stessa partecipazione si esprime poi in varie altre forme, quali il controllo dell'esercizio del potere e la scelta del gruppo dirigente e cioè, in generale, dei governanti.
    Senonché, ad un attento esame, emerge con estrema chiarezza, soprattutto nelle società avanzate, come «potere» non sia soltanto quello centrale, o dello Stato, ma anche quello locale, economico, culturale e così via; supporre che potere sia solo quello dello Stato e che dunque, ad esempio, quanti non abbiano il controllo dello Stato (ad esempio le minoranze) non abbiano potere, significherebbe non fare i conti con la realtà, oltre che le acquisizioni della scienza politica.
    D'altra parte il controllo del potere è esso pure potere: si pensi alla funzione dei mezzi di informazione, non a caso definiti quarto potere in aggiunta a quelli tradizionali (legislativo, esecutivo, giudiziario), mezzi i quali esercitano spesso, soprattutto nelle società moderne, un'influenza non meno significativa di quella attribuibile ai tradizionali centri di potere.
    Quanto infine alla classe dirigente, la sua individuazione sul piano propriamente politico - e specificamente attraverso il voto, ed il voto preferenziale - segue spesso una precedente emergenza della stessa classe politica in ambiti diversi ed è comunque strettamente influenzata dalla posizione che i candidati all'accesso alla classe politica occupano, su altri piani, nella società; talché si potrebbe affermare, al limite, che la stessa scelta del gruppo dirigente avviene assai spesso prima a livello «civico» (o civile) che sul piano propriamente politico; quando ciò non avviene si corre il rischio di un eccesso di specializzazione (e quindi di «separatezza») della classe politica.
    Queste rapide notazioni hanno soltanto Io scopo di mettere in evidenza come non sia agevole individuare un ambito di partecipazione politica nettamente e chiaramente distinguibile da quello della partecipazione civile.
    In passato sarebbe stato più agevole definire i due ambiti di partecipazione attraverso la categoria dell'istituzione, distinguendo una partecipazione istituzionale (es. il voto politico) da una non istituzionale (es. la presenza nel quartiere); ma dal momento che la stessa partecipazione alla vita del quartiere, della scuola, del territorio, è diventata sotto molti aspetti istituzionale, questa distinzione di fondo non regge più; né è più facilmente avvaloratile la tesi secondo cui i due piani si distinguono per essere l'uno generale e l'altro particolare (come definire infatti «particolare», ad esempio, l'azione civica per la difesa dell'ambiente?).
    Sul piano empirico, la distinzione fra i due ambiti potrebbe essere individuata - almeno in Italia, perché per altri paesi il discorso sarebbe necessariamente diverso - fra una partecipazione realizzata essenzialmente attraverso i partiti politici e una partecipazione attuata dai cittadini attraverso associazioni e raggruppamenti spontanei non aventi finalità «direttamente» politiche.
    Le considerazioni che di seguito svolgeremo consentiranno di enucleare meglio tale distinzione.

    La crisi della partecipazione

    Va subito notato, tuttavia, che la vasta e diffusa crisi di partecipazione tocca tanto l'ambito del «politico» quanto (seppure meno gravemente) quello del «civile», e per ragioni che non possono non essere considerate insieme.
    Là partecipazione politica dei cittadini sembra ormai da vari anni limitata alla scelta del gruppo dirigente, sia sul piano nazionale, sia su quello locale; mentre è in gran parte venuta meno la funzione di concorrere democraticamente alla gestione del potere, e lo stesso controllo del potere è stato di fatto demandato a ristretti gruppi di specialisti, e soprattutto ai mezzi di informazione.

    Nuove forme di partecipazione

    Dietro questa crisi della partecipazione politica si profila tuttavia, almeno in parte, il riemergere di forme di partecipazione civica che in questo secondo dopoguerra hanno cominciato ad affermarsi e che si sono espresse soprattutto a partire dal 1968.
    La contestazione radicale della politica si è allora espressa da un lato con il rifiuto del sistema dei partiti (radicalizzandosi a volte nelle forme estreme della violenza), ma dall'altro lato attraverso la ricerca di nuove forme di aggregazione e di presenza; si potrebbe, al limite, sostenere la tesi di una partecipazione politica declinante e di una partecipazione civica emergente.
    La sempre più marcata diffidenza verso i «grandi» meccanismi istituzionali induce molte persone attente ai problemi della società ad orientare i loro interessi verso temi immediati, «vicini», ritenuti relativamente accessibili all'uomo comune, che possono essere affrontati senza mediazioni troppo complesse e difficili.
    Sotto questo aspetto si potrebbe affermare che in Italia si sta conoscendo una fase di transizione da una vecchia partecipazione - incentrata soprattuto sul «politico» - ad una nuova partecipazione, fondata essenzialmente sulla riscoperta e sulla valorizzazione del civile.
    Fenomeno, questo, che comporta tuttavia una serie di problemi: sia per i partiti politici, tradizionale canale di partecipazione, sia per i cittadini, abituati a identificare la politica con la politica dei partiti e non sempre capaci di trasformare il rifiuto di questa politica in un atteggiamento di cosciente assunzione di responsabilità su altri piani.
    Di qui il rischio di una sorta di vuoto fra una partecipazione che non vi è più ed una che non è ancora.
    È appunto questo il nodo centrale da sciogliere se si vogliono attivare nuovi meccanismi di partecipazione; nuovi non nel senso della semplice riproposizione in forma diversa delle antiche vie, ma piuttosto di individuazione di nuove strade, quelle che dovranno soprattutto percorrere le nuove generazioni, in gran parte disilluse da forme di attivismo politico rivelatesi alla fine prive di reale incidenza sui meccanismi istituzionali.
    I futuri decenni dovranno decidere se ci si avvierà verso una società tecnologica ad alta concentrazione dei processi decisionali, che diventeranno di fatto insindacabili; o se nuove forme di partecipazione potranno essere attivate sia ai grandi livelli decisionali, sia nell'ambito di processi più strettamente legati alla vita quotidiana, che sono appunto quelli in cui si esprime soprattutto la partecipazione civile.
    Tutto fa ritenere, in ogni modo, che si stia rapidamente passando da un'epoca in cui la politica pretendeva di essere onnicomprensiva e di gestire ogni cosa a livello istituzionale, ad un'altra epoca, caratterizzata dal relativo arretramento della politica - di una politica rivelatasi incapace, oltre tutto, di governare effettivamente i sempre più complessi meccanismi della società - con la conseguente emergenza di forme nuove di partecipazione.
    La crisi delle ideologie è diventata crisi della politica appunto perché questa era stata identificata con le ideologie; ritorno alla politica, in tutte le sue forme, significa in larga misura abbandonare le pregiudiziali ideologiche, e non già perché tutte le scelte siano potenzialmente eguali e dunque «indifferenti», ma perché occorre recuperare il senso profondo dei valori e giudicare le stesse scelte in nome non dell'astrattezza delle ideologie ma della concretezza dell'uomo. In una prospettiva post-ideologica, la persona umana, e non l'istituzione, diventa la misura della politica.

    FUGA DALLO STATO

    Le nuove forme assunte dalla partecipazione potrebbero essere interpretate anche in termini di «fuga dallo Stato» e, per quanto riguarda specificamente i cattolici, come riemergere e riaffermarsi di una tradizionale e per così dire endemica «carenza di senso dello Stato».

    La società a capitalismo maturo

    È caduta, in altre parole, l'illusione di poter rifondare ab imis la società muovendo dallo Stato, utilizzando le strutture fondamentali dello Stato (Parlamento e Governo) e lo strumento privilegiato dell'azione dello Stato, la legislazione, intesa soprattutto come legislazione progettuale e riforma- trice. Approfondire le cause per effetto delle quali questa vasta progettualità riformatrice - così presente e viva, ad esempio, negli anni dell'Assemblea Costituente - si è poco alla volta ridimensionata e alla fine pressoché estinta, significherebbe esaminare le vicende complessive della società occidentale, e non solo di quella italiana, nell'ultimo quarantennio, così da far emergere quel vistoso spostamento di attenzione e di accenti dal piano dell'essere a quello dell'avere, che contraddistingue appunto le società a capitalismo maturo.
    Compito, questo, evidentemente impossibile nella presente sede; ma che dovrà pure essere condotto avanti, perché solo una meditata riflessione storica e culturale su questo quarantennio consente di leggere in profondità il nostro stesso presente.
    Basterà qui mettere in evidenza l'aspetto più vistoso di questa «fuga dallo Stato», e cioè la constatazione della lentezza, dell'inefficienza, della costosità, e qualche volta della disumanità di un apparato burocratico sempre più complesso, pensato all'inizio come strumento a servizio del soddisfacimento effettivo dei bisogni dell'uomo, e divenuto, a poco a poco, quasi soltanto una macchina che riproduce se stessa e rispetto alla quale gli «utenti», che si dovrebbero servire, sono degli estranei ed al limite dei nemici dai quali difendersi.
    La crisi del Welfare State, intesa come divario crescente fra costi effettivi della macchina burocratica e sua capacità di venire incontro ai concreti bisogni delle persone in tempi ragionevolmente brevi e senza umilianti pedaggi, è il segno emblematico di questa perdita di fiducia nello Stato come struttura a servizio dell'uomo.
    Non stupisce, in questo contesto, che quanti intendono la presenza nel sociale come servizio all'uomo abbiano scelto o si orientino a scegliere, per esprimere questo loro atteggiamento, vie diverse da quelle del passato. Riprendendo quanto sopra si rilevava, si potrebbe affermare che l'attuale società è caratterizzata dal passaggio della partecipazione dal piano dello Stato a quello della società civile. Non si tratta, a ben guardare, di un «ripiegamento nel privato», come talora si afferma (senza escludere tuttavia che questo atteggiamento sia esso pure presente in talune componenti della popolazione), ma piuttosto dell'individuazione di nuove forme di presenza nel «pubblico», che non è più il pubblico-politico, ma il pubblico-civile.

    Giovani e nuove frontiere della politica

    Che il fenomeno della «fuga dallo Stato» presenti, accanto ad aspetti inquietanti, anche lati positivi, è confermato da numerose inchieste sulla condizione giovanile, le quali hanno posto in evidenza che, mentre si è sensibilmente ridotta l'area dei veri e propri militanti nella politica (di partito), si è invece relativamente ampliata la sfera dei giovani interessati alla vita pubblica nei suoi vari aspetti.
    Che ci si interessi più che in passato della condizione degli anziani nel proprio quartiere o dell'inquinamento di un fiume o di un lago, sotto questo aspetto, non sta ad indicare il «riflusso nel privato», ma una nuova e diversa percezione del pubblico, che dovrebbe essere colta in tutto il suo valore anche da parte di chi continua ad operare a livello del «pubblico-statuale» e che è a volte tentato di bollare come «non politici» atteggiamenti che in realtà sono essi pure autenticamente politici, anche se si esprimono nell'area del «civile» piuttosto che del «pubblico-statuale» nel senso prima considerato.
    Sotto questo aspetto si potrebbe affermare che le nuove frontiere della politica sono ormai una serie di ambiti tradizionalmente considerati come propri del «civile»: l'impegno per la pace, la lotta al sottosviluppo, l'azione per la difesa dell'ambiente, la presenza in strutture di partecipazione e di democrazia diretta nel territorio.
    Viene forse meno, in qualche misura, la politica tradizionale; ma vi è da domandarsi se fosse quello l'unico modo di fare politica.
    Sembra finito il tempo della «grande politica», e sta forse per iniziare quello della «piccola politica»: piccola non nel senso dell'elusione dei grandi ideali riformatori, ma piuttosto nel senso dell'orientamento dell'impegno civile in direzione dell'immediatezza, della concretezza, della dominabilità del rapporto che intercorre fra l'impegno personale e gli obiettivi che si intendono perseguire. Al di là del «politico» riemerge, ancora una volta, il «civile».

    IL «CIVILE ISTITUZIONALIZZATO»

    All'interno di questo generale impegno nel «civile» possono essere individuati due ambiti fondamentali: quello del civile istituzionalizzato e quello del civile non istituzionalizzato.
    La discriminante fra l'uno e l'altro non è oggettiva o «qualitativa», ma meramente storica e contingente, legata cioè alla capacità o comunque all'attitudine della classe politica di riaddurre nell'alveo della politica alcuni ambiti, lasciandone fuori altri. Esprimendo lo stesso concetto con altre parole, si potrebbe affermare che vi sono alcuni ambiti di impegno civile che sono stati individuati come più importanti e più urgenti dalla politica, e dunque organizzati, disciplinati, regolamentati; ed altri ambiti, invece, che sono stati lasciati pressoché totalmente alla spontaneità e alla creatività dei cittadini.
    In quello che abbiamo chiamato il «civile istituzionalizzato» rientrano soprattutto il territorio e la scuola, intesi come campo particolarmente importante - e per questa stessa ragione divenuto oggetto di precisi interventi legislativi - di espressione della partecipazione civile.
    In verità i problemi del territorio sono da tempo diventati ambito di presenza specificamente politica: nel momento in cui alle antiche amministrazione nominate dall'alto o elette democraticamente dal basso attraverso le tradizionali assemblee dei capi-famiglia, si sono sostituiti organi elettivi designati attraverso il voto, la partecipazione dei cittadini è stata istituzionalizzata e anche le amministrazioni locali sono divenute in qualche modo parte del sistema politico (risultando spesso svuotate di una effettiva autonomia). Ne è derivata anche in ambito municipale un'accentuata propensione alla delega - analoga a quella verificatasi in campo nazionale - e conseguenemente una limitata partecipazione dei cittadini.
    Come correttivo sono state avviate esperienze di «democrazia diretta» quanto più possibile diffusa, su base più ristretta di quella del vasto territorio o della grande e media città. Ha preso così avvio l'esperienza dei consigli di quartiere, dapprima non istituzionalizzata, ma successivamente disciplinata in modo sempre più preciso e talvolta sempre più rigido da norme nazionali, regionali, comunali: con il rischio, tuttavia, di trasferire nei consigli di quartiere, divenuti ormai elettivi, la stessa logica di gestione (e talora di spartizione) del potere operante da tempo negli organismi municipali; mentre le spinte innovatrici - quelle per effetto delle quali si sarebbero dovute sperimentare nei quartieri forme diverse di amministrazione e di rapporto fra amministratori ed amministrati - si sono andate via via attenuando, se non spegnendo del tutto.

    Spazi di democrazia diretta nel quartiere e nella scuola

    Nonostante le non felici esperienze sin qui realizzate, i consigli di quartiere, soprattutto se liberati da troppo inutili bardature, potrebbero diventare, o ridiventare, luoghi di effettiva partecipazione dei cittadini alla vita del territorio.
    Ma sarebbe necessario, per questo, abbandonare gli schematismi ideologici e i problemi di schieramento ed affrontare i problemi reali: non in nome di un deteriore qualunquismo indifferente ai valori, ma muovendo dalla consapevolezza che il modo migliore di realizzare i valori nei quali si crede è quello di renderli realtà viva ed operante per le persone, attraverso interventi rapidi e «mirati», in grado di cogliere subito e di soddisfare in un tempo ragionevolmente breve i nuovi bisogni emergenti.
    Considerazioni analoghe possono farsi per la partecipazione dei genitori e degli studenti alla gestione della scuola. Presente in forma disorganica e spontanea, tale partecipazione è stata, a partire dal 1976, essa pure istituzionalizzata, ma, nello stesso tempo, burocratizzata e appesantita da una seria di bardature che ostacolano di fatto la partecipazione delle componenti non professionali e non sindacali della scuola.
    Trasformare la scuola da struttura burocratica in «comunità educante», strettamente correlata con la società, capace non solo di trasmettere una cultura ma anche di consentire ai giovani esperienze vitali di dialogo, di dibattito, di democrazia: tutto questo era sullo sfondo dei «decreti delegati» ma è rimasto quasi ovunque lettera morta.
    Non stupisce, dunque, che la partecipazione dei genitori continui ad essere relativamente bassa e quasi soltanto occasionale. Anche nella scuola, come nel territorio, continua a prevalere il sistema della delega praticato in ambito nazionale; con la fondamentale differenza che, mentre ai livelli superiori il sistema della rappresentanza, e dunque della delega, è l'unico di fatto praticabile, ai livelli inferiori, come appunto sono quelli della scuola o del quartiere, forme di democrazia diretta sarebbero concretamente praticabili e invece quasi mai lo sono; certo per il disinteresse e la disinformazione dei genitori e degli studenti, ma in parte anche per la complessità e la farraginosità degli attuali meccanismi di partecipazione, che finiscono per ostacolarla piuttosto che incoraggiarla.

    IL «CIVILE NON ISTITUZIONALIZZATO»

    Non stupisce, dunque, che quella parte (non amplissima ma nemmeno trascurabile) di cittadini che intendono impegnarsi nel civile finisca per scegliere altri ambiti di partecipazione, per ora non istituzionalizzati, e che vi è da augurarsi, vista anche la non felice esperienza condotta nei due ambiti prima ricordati, i quartieri e le scuole, rimangano a lungo non istituzionalizzati. Fra questi nuovi ed importanti ambiti, ne possono essere ricordati soprattutto tre: l'impegno per la pace e per lo sviluppo; l'azione per la tutela e la salvaguardia dell'ambiente; il volontariato nelle sue varie espressioni.

    Tre luoghi privilegiati di partecipazione

    L'impegno per la pace e per lo sviluppo fa certamente riferimento a temi di politica estera e di difesa nazionale cui anche i partiti sono sensibili e che sono ampiamente dibattuti nelle competenti sedi istituzionali. Una diretta partecipazione dei cittadini alla discussione di questi temi assume il significato non tanto di scavalcamento delle responsabilità spettanti a determinati organi dello Stato, ma piuttosto di contributo a restituire ai temi della pace e della lotta al sottosviluppo il carattere di scelta di base largamente sentita e di impegno personale nella soluzione dei problemi.
    Proprio là dove sembrerebbe che non vi sia posto, data l'estrema complessità dei temi in discussione, per una partecipazione diretta dei cittadini, si verifica invece un preciso e diretto coinvolgimento.
    Problema essenziale diventa, in questo ambito, quello di passare da un atteggiamento emotivo e irriflesso, legato soprattutto ai sentimenti, ad una visione razionale e matura dei problemi in discussione, condizione essenziale, questa, perché i temi della pace e dello sviluppo dei popoli diventino parte integrante della coscienza civile e possano successivamente essere oggetto di scelte illuminate anche sul piano istituzionale.
    Quanto ai temi dell'ambiente e dell'ecologia, essi pure hanno una evidente dimensione politica e sono stati, e sono, oggetto di scelte politiche e di orientamenti legislativi. L'attenzione con la quale da parte di una serie di gruppi e di movimenti si guarda a questi problemi, assume tuttavia il significato di una più diretta attenzione a fenomeni che nel tempo lungo, si intuisce, diventeranno sempre più incidenti sulla situazione e sul destino delle comunità e dei singoli.
    La constatazione del diffuso interesse dei cittadini alla salvaguardia di determinati valori non «utilitari» (la natura incontaminata, l'aria limpida, le acque fluenti, il paesaggio...), ed insieme la consapevolezza che troppo spesso a livello istituzionale questi temi vengono ritenuti a torto secondari, sta attivando un po' ovunque in Occidente, ed anche in Italia, un vasto movimento ecologistico che è esso pure espressione dell'esigenza di una diretta partecipazione dei cittadini alla vita pubblica.
    Vi è infine l'area del volontariato che, soprattutto di fronte alla crisi progressiva del Welfare State, scopre ed insieme cerca di appagare una serie di bisogni lasciati insoddisfatti: quelli di cui le strutture pubbliche si accorgono, quand'anche li percepiscano, con estremo ritardo e che quasi mai sono in grado di affrontare con immediatezza, assoggettate come sono ad una serie di bardature legislative che rappresentano anche una remora all'inventività e alla creatività.
    Ci si rende d'altra parte sempre più chiaramente conto che, anche se le strutture pubbliche diventassero un modello di efficienza e di rapidità di intervento (situazione che in verità non si è mai verificata in nessun paese a regime di Welfare State), vi sarebbero sempre bisogni che non potrebbero essere soddisfatti o per il troppo elevato costo sociale che ne deriverebbe o per la specifica natura di questi stessi bisogni, che impongono talora un rapporto diretto, faccia a faccia, fondato sulla gratuità, sulla disponibilità, sull'amicizia, valori senza i quali le stesse prestazioni rischiano di restare prive di significato e non sono dunque tali da soddisfare questi nuovi bisogni emergenti.
    L'area del volontariato è in parte istituzionalizzata, in quanto per alcuni ambiti esiste una serie di disposizioni legislative che lo regolano; ma nel complesso è ancora in larga misura lasciato all'inventività dei gruppi e dei singoli. Si tratta del resto di una realtà in forte e continua espansione, che di per se stessa attesta due importanti verità che non è fuori luogo sottolineare: la prima, che non è esatto affermare che la nostra società sia diventata insensibile, egoista, disattenta; la seconda, che occorre non attendere più, passivamente, che ogni cosa venga dall'alto, ma che devono essere gli stessi cittadini a compiere questa scelta di campo nel civile, per concorrere a risolvere problemi che sul piano legislativo e istituzionale non potrebbero essere mai tempestivamente affrontati.

    «CIVILE» E «POLITICO»

    In complesso sembra si possa affermare che l'area del «civile» si presenta oggi più articolata e vivace di quella del «politico».
    Quei meccanismi di partecipazione, che sul piano della vita pubblica intesa in senso istituzionale appaiono essersi in qualche misura inceppati, mostrano una ripresa vigorosa proprio in un ambito che in passato era stato trascurato e che va emergendo come «nuova frontiera» della politica. Vi è indubbiamente il rischio che si lascino troppo in ombra i temi istituzionali e che, come ieri ci si illudeva di potere tutto risolvere attraverso l'intervento legislativo, così oggi si cada nell'errore opposto, di ritenere che la legislazione sia ininfluente e che i problemi della società possano trovare una reale soluzione soprattutto attraverso il diretto impegno dei cittadini nel sociale.
    Si tratta dunque di armonizzare e di conciliare una duplice necessaria fedeltà: alla «grande politica», che resta un quadro di riferimento necessario; e alla «piccola politica», più accessibile alla generalità dei cittadini e segno espressivo della loro volontà di agire sul piano della vita sociale.

    L'impegno della comunità cristiana

    Si apre, in questa direzione, un importante campo di riflessione e di impegno della comunità cristiana.
    Esaminando a volo d'uccello le linee secondo le quali la Chiesa ha operato in Italia negli ultimi quarant'anni, sembra di dover rilevare che vi è stata una prima lunga fase, di circa un trentennio, nella quale sua preoccupazione dominante è stata quella di sensibilizzare i fedeli ai problemi della politica e, in generale, della legislazione; ed una seconda fase, in atto da circa un decennio, in cui la formazione dei cristiani alla vita pubblica è stata presentata in una più ampia cornice all'inter no della quale i temi della partecipazione civile sono significativamente riemersi; non senza il rischio, però, non tanto nei documenti ufficiali quanto nella prassi concreta delle varie comunità cristiane, di cogliere l'impegno nel sociale come in qualche modo alternativo a quello in ambito politico.
    Dalle riflessioni sin qui condotte deve essere emerso chiaramente, almeno ci auguriamo, che la partecipazione civile non copre tutto l'arco della presenza dei cittadini, e dunque anche dei credenti, nella società del loro tempo. La pace, l'ecologia, il volontariato sono certo le nuove frontiere della politica, ma non l'unico ambito in cui l'attenzione alla politica deve manifestarsi.
    Di qui un preciso dovere di orientamento e di formazione delle coscienze in direzione di un'attenzione alla società che sia capace, senza riduzionismi e senza esclusivismi, di cogliere la complessità dei problemi e di suscitare, dunque, la diversità delle vocazioni. Certo, la politica non è tutto; ma nemmeno il civile o il sociale possono da soli essere esaustivi della doverosa attenzione del cristiano ai problemi del proprio tempo.
    Saper esplorare sino in fondo questa complessa realtà è impegno e responsabilità di uomini e donne in grado di farsi carico di quell'esigente servizio al prossimo, che rimane la politica nel senso più lato, e più nobile, dell'espressione. La via da percorrere in questa ultima direzione non può che essere quella del recupero del significato e del valore della rappresentanza.

    DEMOCRAZIA DIRETTA E DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA

    La disputa storica fra democrazia rappresentativa e democrazia diretta sembra ormai sopita, salvo i tumultuosi sussulti di alcuni periodi storici contrassegnati da ricorrenti nostalgie di identificazione fra cittadini e potere (come avvenne attorno al 1968).
    Sono in qualche modo i «grandi numeri», come oltre due secoli addietro aveva constatato, sia pure con amarezza, Jean-Jacques Rousseau, che sembrano condannare la democrazia diretta, incompatibile con i grandi stati nazionali moderni o con le ampie comunità dei nostri giorni.
    Quando Adriano Olivetti indicava in circa centomila abitanti il numero ideale di componenti di una «comunità» - e la condizione necessaria perché in essa potesse instaurarsi un rapporto diretto fra cittadini e potere - metteva il dito sulla piaga di una rappresentanza politica avulsa dal diffuso sentire delle masse popolari, e indicava insieme la pre-condizione necessaria per realizzare un effettivo ritorno alla democrazia diretta, e cioè la frantumazione dello Stato nazionale. Ma la sorte di quella proposta - come di quelle analoghe elaborate in Francia da Mounier negli anni '30 - sta ad attestare quanto «utopistici» fossero quei progetti di radicale rifondazione dello Stato.
    Non resta dunque che accettare la rappresentanza, se si vuole come «male minore», e vantarne i meriti storici, soprattutto se questo sistema è comparato con quello di paesi (come quelli dell'Est europeo e, al di là di talune bardature formali, di gran parte del mondo) che della rappresentanza hanno preteso di fare a meno, ma che in realtà non sono riusciti a fondare una reale democrazia?

    Democrazia diffusa e rappresentanza politica

    La risposta a questo interrogativo non è così semplice come a prima vista potrebbe apparire. Certamente non si può rinunziare, né oggi, né domani - e probabilmente mai - al sistema della rappresentanza politica, unica possibile mediazione fra governanti e governati in società di vaste dimensioni ed insieme sempre più complesse. Ma vi è una rappresentanza politica che si nutre e si alimenta di continuo di esperienze di democrazia diretta, ed una rappresentanza politica che, invece, esclude e considera superflue le varie forme possibili di democrazia diretta; con il rischio, in questa seconda ipotesi, di privare la democrazia rappresentativa del suo necessario ed essenziale sostegno, appunto la democrazia diretta.
    Quanto sta avvenendo in Italia, da un decennio circa a questa parte, sta del resto ponendo in evidenza come il venir meno quasi ovunque di forme pur timide e parziali di democrazia diretta (si pensi alla già ricordata crisi degli organi di partecipazione di base, dai quartieri ai consultori, alla scuola) stia rischiando di svuotare di senso la stessa democrazia rappresentativa. In effetti l'una non si regge senza l'altra: le istituzioni democratiche fondate sul principio della rappresentanza mantengono senso e valore in quanto sorrette da una «democrazia diffusa», che si alimenta di mille piccoli rivoli e che abitua il cittadino a contare, pur nella consapevolezza che le leggi-quadro che dovranno reggere la collettività non potranno che essere votate da minoranze legittimate attraverso il principio della rappresentanza.

    Al cuore della crisi

    Dietro la crisi delle istituzioni, ossia del sistema della rappresentanza, sta la crisi della democrazia diretta, e cioè della partecipazione dei cittadini alla vita del paese: sono in qualche modo in crisi le «grandi» strutture perché hanno cominciato ad entrare in crisi le «piccole».
    Di qui una ineludibile indicazione operativa: è destinata a fallire ogni riforma «dall'alto», che non riesca a coinvolgere i cittadini «dal basso», restituendo loro il gusto e il rischio della partecipazione diretta. Non è nel deserto dell'indifferenza, della privatezza, del consumismo, che può nascere l'albero maturo della democrazia. Costruire qui ed ora, ciascuno nel suo «piccolo», una qualche forma di democrazia, è la condizione necessaria perché cresca nel paese nel suo complesso la coscienza democratica.


    Nota bibliografica

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