Intervista a Raniero La Valle
(NPG 1991-3/4-89)
Quale è stato per me «lo sbocco nell'impegno della politica attiva»?
Il 1976, quando ho accettato la candidatura al Senato nelle liste del Partito Comunista, con l'idea di abbattere i muri?
O nel 1968, quando ho cominciato a lavorare in televisione, e ho assunto come miei temi privilegiati il Vietnam, la Palestina, l'America Latina?
O nel 1963, quando ho spostato tutto l'asse dell'«Avvenire d'Italia», che allora dirigevo, sul Concilio, nella convinzione che nessun altro evento era allora altrettanto storicamente importante per tutti?
O nel 1961, quando ho fatto la scelta di lasciare la direzione di un giornale «politico», quale era «Il Popolo», per assumere la direzione di un giornale «religioso», ma, al contrario del primo, radicato nella società civile, come era l'«Avvenire d'Italia»?
O nel 1953, quando ho deciso che la mia professione sarebbe stata quella di cercare di capire e sapere le cose, perché attraverso il mio lavoro anche gli altri potessero capire e sapere, cioè il giornalismo?
O nel 1950, quando, dopo tante «grandi parole» ascoltate e dette e scritte nella FUCI, ho capito che nessuna parola può essere detta invano, ma che «direte solo ciò di cui risponderete agendo» - benché non avessi ancora letto Bonhoeffer - e mi iscrissi nelle liste per le elezioni universitarie a Roma e partecipai alle prime battaglie democratiche dell'UNURI?
O nel 1949, quando dissentendo da Gedda e da Sciascia (Ugo), che avevano fondato i Comitati Civici, pubblica sul giornale della FUCI, «Ricerca», uno scandalosissimo articolo in cui si diceva che nel Vangelo c'era scritto l'amore dei nemici, e che perciò bisognava amare anche i comunisti?
Non vado più indietro, perché arriveremmo all'infanzia e all'adolescenza vissute duramente nelle prove della guerra. E molto presto ho saputo che politica e guerra stavano insieme, e che dunque la politica non era altro dalla vita, ma era il luogo dove si decideva della vita, e non solo per me, ma per tutti.
Quanto agli ambienti e alle «tappe» della mia formazione - se mai mi sono «formato» - si va dalla Congregazione eucaristica del cardinale Massimi - un cardinale molto tradizionalista ma senza porpora e pieno di fede - a Padre Lombardi, alla FUCI, alla Chiesa bolognese del card. Lercaro (con don Dossetti, il Centro di Documentazione di via San Vitale, Monteveglio), a papa Giovanni, al Concilio, al monachesimo camaldolese di padre Benedetto Calati, fino alla grande scuola dei poveri di mezzo mondo, incontrati e assunti nel luogo della loro sofferenza e della loro lotta, baraccati di Prado Rotondo e poveri della Sicilia, vietnamiti e palestinesi, brasiliani, libanesi, cambogiani, africani, centro-americani...
La politica non è tutto, la politica ha a che fare con tutto
Non ho mai creduto che tutto è politica, ma ho sempre creduto che nulla è separato, e che la politica ha a che fare con tutto, ha a che fare con la salvezza o la perdizione storica dell'uomo, ha in qualche modo a che fare con la sua felicità e col suo destino. Anche Gesù con i discepoli di Emmaus parlava dei grandi eventi politici occorsi in quei giorni a Gerusalemme, e li commentava leggendo le Scritture. A me è capitato qualche volta di discutere fatti e scelte politiche in Parlamento citando le Scritture, e nessuno lo ha ritenuto non pertinente. C'è anche qualcuno che parla secondo le Scritture senza (forse) saperlo, come Gorbaciov quando disse in Campidoglio che non c'è politica senza «misericordia», e i traduttori simultanei ne furono imbarazzati perché temevano di non aver capito bene.
Perciò non sono d'accordo quando i giovani rifuggono dalla politica, perché la politica non fugge da loro, ed essi ne restano semplicemente succubi.
Proprio ora che si celebra il limite della politica, e la gente è dissuasa dalla politica, i pochi, soli e inconfutati a decidere, si arrogano un potere senza limite e danzano sull'orlo della terza guerra mondiale.
Una distinzione problematica: «politica» e «Politica»?
Non esiste una politica con la P maiuscola, e una con la p minuscola.
È molto grave creare o avallare questo equivoco, che discrimina gli ambiti della vita umana, introducendo un falso classismo di valori.
La legge finanziaria che toglie le medicine agli indigenti, è politica con la p minuscola? E il procacciare un finanziamento per un istituto di alti studi filosofici o 1'8 per mille delle imposte per il bilancio della Chiesa è Politica con la P maiuscola? E con quale iniziale si scriverà una politica che manda navi ed aerei a un assedio, per fare una guerra pantoclastica bandita come una crociata?
Esiste in realtà una vita collettiva, cioè dell'uomo in quanto essere sociale, che abbraccia tutti gli ambiti dell'esistenza umana, e che va organizzata e ordinata al bene comune e al bene di ciascuno; e il suo nome è politica.
Laicità della politica
C'è un rapporto assai stretto per me tra fede vissuta e impegno politico. L'uomo non è diviso. L'uomo dall'animo diviso, dice la lettera di Giacomo, è incostante in tutte le sue vie, e di lui non ci si può fidare.
Altra è la questione di considerare ogni cosa nel suo ordine proprio, e di trattare ogni cosa secondo i suoi strumenti e le sue leggi, la scienza come scienza, la fede come fede e la politica come politica; e questa è, per me, la laicità: natura e grazia, fede e storia, umanità e divinità, né confuse né divise.
L'imbarbarimento della politica e la malattia della società
Quali le cause dell'imbarbarimento? Ecco una domanda che meriterebbe una risposta non improvvisata. Certamente c'è un imbarbarimento della politica, ridotta ormai, perfino nelle enunciazioni teoriche, alla questione del potere.
Ma l'imbarbarimento non è solo della politica. La criminalità conquista territori e poteri, si fa società, impone nuove forme di dominio, trasforma, come in ogni servitù, le vittime in complici. La mafia, come consociazione tra società legale e illegale, diventa un fenomeno universale, si ritrova ugualmente a Palermo e a Milano, in Unione Sovietica e negli Stati Uniti, variando solo la capacità di resistenza dei diversi tessuti sociali.
La ragione di questa contaminazione tra società legale e illegale sta nel fatto che, nella varietà dei mezzi, gli stessi fini sono diventati comuni a tutta la società: non la vita, la conoscenza, la creatività, la solidarietà, l'amore, ma l'arricchimento, l'utile immediato, l'appropriazione, l'imposizione della propria volontà, il controllo di pezzi più o meno grandi di potere. C'è un'alienazione al denaro, alle cose, agli oggetti, alle merci, che nel modello di società che abbiamo costruito - e che abbiamo supposto definitivamente vittorioso alla caduta del muro di Berlino - sta giungendo a uno stadio critico e porta con sé una conflittualità diffusa, una insicurezza crescente, e in ultima istanza alla guerra.
La malattia è dunque molto profonda e viene da lontano. Se da noi ha attecchito con tanta virulenza, è perché nulla l'Italia ha fatto per essere diversa, nonostante il partito cristiano al potere, e perché le sue strutture civili erano più deboli. Il peggioramento degli ultimi anni deriva poi forse dal fatto che sono venute meno quelle grandi agenzie pedagogiche e formative che erano state, nei decenni a cavallo tra il fascismo e la Repubblica, la scuola, la Chiesa e il partito comunista, le tre grandi realtà collettive che avevano plasmato intere generazioni di italiani. Ora, qualcuna di queste è caduta di schianto, qualcuna non sa più cosa insegnare, qualcuna ha perso la cognizione del mondo reale, e contempla narcisisticamente se stessa. Quanto al sistema informativo, è tutto assoggettato ormai alla censura del denaro, e trasmette un solo ed unico messaggio; e i giovani non trovano altri maestri che questo.
La pace: nuovo criterio della politica
Non vedo in giro cantieri di una nuova cultura politica.
Proprio mentre si parla tanto di novità, e addirittura si creano nuovi partiti, si discute di riforme istituzionali, e si discetta di una nuova Repubblica, è la vecchia cultura politica che è messa in campo, di come si acquisti, si spartisca o ci si alterni al potere.
Ma di come si rientri dalla grande alienazione, di come si abbatta la signoria delle cose e del denaro, di come si ricostruiscano soggettività liberate e alterità capaci di rapporti veramente umani - privati e politici - nel riconoscimento amoroso l'uno del volto dell'altro, nessuno parla.
Il solo cantiere di un nuovo pensiero politico che abbiamo conosciuto in questi anni è stato quello aperto da Gorbaciov; esso è andato a sommuovere e a ripiantare le radici del politico, là dove il politico si identifica col criterio del nemico e nasce come gemello della guerra, ed ha approntato nuovi materiali per la costruzione politica che sono la trasparenza (cioè la verità), l'interdipendenza, il non ricorso alla forza, il diritto dei popoli e il bene umano universale; e dunque la pace. Gli effetti sono stati così rapidi e sconvolgenti che intere categorie di armi sono cadute di mano ai contendenti in Europa, e popoli interi si sono liberati; per la prima volta un Impero finiva non per il sopravvento di un altro potere, ma per il prevalere di un'altra idea della politica.
Era un'occasione anche per noi, in Occidente; ma troppo scomoda e rischiosa per il potere, come la crisi sovietica doveva ben presto dimostrare. Così ci si è guardati bene dall'aprire altrove analoghi cantieri per una conversione di pari portata del pensiero politico. Anzi si è corso ai ripari dichiarandosi vetustamente vittoriosi sul nemico, e inventando in tutta fretta un altro nemico, arabo, questa volta, con cui poter tornare finalmente a combattere una vera guerra, la cui possibilità sembrava perduta, e la cui scomparsa era sofferta, dalla vecchia cultura politica, come un'insopportabile privazione.
Ora una rifondazione, o riforma della politica, non può che ripartire da lì; dal cambiare le radici, estirpando le radici dell'inimicizia e del conflitto, e piantando le radici della «misericordia», della condivisione e della pace: la pace come nuovo criterio del politico. Sapendo, ora, una cosa in più: che la pace (come una volta si diceva del socialismo) non si può fare in un solo Paese. Tuttavia ogni Paese ha la responsabilità di cominciare per primo, e ciascuno deve comportarsi come se la pace dipendesse solamente da lui…