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    Luoghi di educazione politica: la scuola, oggi


     

     

    Pietro De Giorgi

     

    (NPG 1991-05-13)

     

    Se il fine della educazione è saper prendere in mano la propria vita, allora la scuola è quel luogo dove ogni individuo può pensare e progettare se stesso come persona libera e solidale, attraverso la mediazione della cultura e delle strutture scolastiche.

    Questo significa che la scuola fonda razionalmente l'educazione, dando vari elementi di competenza e, primo fra tutti, un corretto atteggiamento epistemologico.

    L'inserzione della «politica» in questa finalità educativa non è ancora strutturata in un compiuto sistema organico e verificabile, e quindi il suo contributo non può essere scandito in un itinerario univocamente usabile.

    Vorremmo quindi superare un impossibile bisogno di chiarezza sui concetti, per riuscire ad esprimere tutto ciò che può essere promozionale dei soggetti. Mi limiterò quindi ad esprimere alcune convinzioni maturate in una lunga serie di successive e diversificate esperienze, e quindi a narrare una storia, quella appunto della progressione di questi convincimenti. Un docente di scuole secondarie, quale sono, non ha come suo compito specifico la completezza formale di un argomento, ma, essendo persona della «oralità secondaria», mira semplicemente al comunicabile.

    Difficoltà preliminari

     

    Nei discorsi sulla educazione politica c'è un paradosso che è anche una contraddizione.

    Se si chiede alla scuola, ma anche ad altri organismi, di fare educazione politica, è perché la «politica» (Parlamento, Governo, Partiti), non produce educazione; e se la politica nei suoi «luoghi» specifici non riesce a produrre sufficiente educazione, come può riuscire a fornire educazione, quando è sradicata e ricollocata in luoghi che si sono strutturati autonomamente, attorno ad altri criteri?

    Il nostro quindi, per essere corretto, dovrebbe essere più un ripensamento di che cosa sia politica e perciò una educazione della politica, che educazione di persone attraverso la politica.

    La seconda perplessità riguarda invece la scuola.

    I pedagogisti dicono che nella scuola c'è, cioè si fa, educazione, ma non c'è una pedagogia dell'educazione: ossia non c'è consapevolezza critica e riflessione sistematica sufficienti a precisare che cosa sia lo specifico scolastico del- l' educazione .

    In altre parole, di fronte al problema educativo di un giovane, la cultura pedagogica non ha risorse interpretative e operative paragonabili a quelle della lettura sociologica o psicologica o pastorale dello stesso.

    Questo ci dice che l'attuale livello della scienza pedagogica può accettare che nella scuola si faccia anche attività empirica di educazione che fa riferimento al politico, ma non è sufficientemente attrezzata per definire una «pedagogia della educazione politica nella scuola», cioè qualche cosa di rigorosamente definito, universalmente accettato e univocamente usato. Quini possiamo al massimo elaborare «ipotesi empiriche» che attingano al «probabile», e questo non per carenze

    della politica o della scuola, ma proprio della stessa scienza dell'educazione. 

     

    NARRAZIONE DI UNA STORIA

     

    Prima fase

     

    Ho cominciato, come ogni buon docente principiante, «credendo» nella mia disciplina e cercando quindi trasmettere il massimo.

    In questa fase, la disciplina scolastica era pensata come un modello rimpicciolito della corrispondente scienza in grande che avevo studiato all'Università; insegnare quindi era trasmettere cultura consolidata, e educare era adeguare le persone degli alunni al modello concettuale della propria materia.

    È un poco come il buon cristiano che incomincia con il voler fare un poco di bene... con il dare una mano alle incompletezze di Dio.

    A questo livello, l'educazione politica è un fatto occasionale e asistematico, costituito da convergenze possibili tra elementi della propria disciplina e fatti contingenti della vita associata.

     

    Seconda fase

     

    Poi, col tempo e con le delusioni, si finisce con il capire che al centro va posto l'alunno con le sue esigenze educative, e quindi la disciplina viene sempre più intesa come uno dei metodi possibili di approccio al reale, come un complesso ordinato di risultati raggiunti, e quindi viene offerta come «ipotesi antropologica» al crescere di una persona.

    È quello che capita al buon cristiano, quando pone al centro non più un bene da fare ma una coscienza da rispettare.

    In questo secondo livello l'educazio ne politica viene ad assumere un carattere «interdisciplinare, curriculare, modulare»: ossia l'educazione alla convivenza democratica viene pensata, progettata e offerta come un tutto organico e progressivo e perciò come criterio interdisciplinare di docenza, realizzabile a moduli staccabili dai vari docenti, all'interno delle proprie discipline e secondo una distribuzione programmata e concordata.

    Il tutto può anche essere assunto come criterio di verifica, creando qualche momento unitario fra le varie discipline.

    Ad esempio, posso leggere il momento filosofico dell'Idealismo, quello letterario del Romanticismo, quello storico del 1848, come il momento della prevalenza degli «ideali» e perciò del primato delle masse popolari, e quindi della nascita delle «nazioni»... oppure posso leggere il Positivismo in filosofia e il Verismo in letteratura e il 1870 in storia come quel momento in cui la borghesia si libera dalla necessità del riferimento agli ideali, per giustificare il «fatto» del suo primato... e quindi come il momento della nascita dello «Stato»...

    Terza fase: momento negativo

     

    È proprio a questo punto che entra in crisi tutta l'educazione che si dà nella scuola, perché viene a porsi in discussione la sufficienza educativa e quindi lo statuto epistemologico delle singole discipline scolastiche.

    Per capire questo, occorre prestare attenzione almeno a due caratteristiche essenziali della cultura che si trasmette a scuola.

    Il modello di scientificità incorporato nelle discipline scolastiche, e quindi la «competenza pedagogica» della scuola, circoscrive il proprio diritto di intervento al di qua dei nodi esistenziali, rinviando il problema dei valori e dei significati delle scelte personali di coscienza o di appartenenza, e lasciando la persona libera di attingerli, presso altre agenzie formative.

    In altre parole, i contenuti della scienza (2 + 2 = 4... legge di caduta dei gravi ecc...), possono essere appresi senza riferimento ai problemi di senso.

    Infatti nessun scienziato sosterrebbe oggi che il sistema eliocentrico è piú «vero» di quello geocentrico nel senso che è piú corrispondente alla realtà oggettiva, ma semplicemente perché è più disponibile al calcolo per noi.

    Questo modello di scienza esclude, perché «non scientifico» e perciò non serio, una qualunque educazione che attinga al politico.

    In questa prospettiva l'educazione politica verrebbe devoluta ai mondi vitali.

    Affrontare quindi il problema dell'educazione politica nella scuola, significa affrontare il complesso nodo della «cultura» che si trasmette nella scuola, la quale dunque va ripensata, se si vuole dare dignità scientifica all'educazione politica.

    Ma c'è una seconda caratteristica della cultura scolastica che, da un punto di vista educativo, risulterebbe «micidiale».

    Il modello razionale sotteso a tutte le discipline è il modello logico-teoretico-deduttivo-astratto: ossia una «cosa» è capita se trasformata in «concetto» e cioè un in «momento» di un processo razionale, ed esso è vero se è coerente rispetto alle premesse.

    Che accanto a me ci sia guerra o pace, fame o abbondanza... è ininfluente ai fini della verità del ragionamento: anzi ogni interferenza è giudicata appunto «errore».

    Non solo, ma la realtà esiste a livello di razionalità, per quel tanto che la riceve il soggetto, che si adegua quindi al soggetto.

    Come si può chiamare educativo di una persona un modello di razionalità che del non rispetto al reale, della violenza sul reale, fa il criterio della sua scientificità?

    Questo modo di intendere il sapere accetta l'educazione politica ma la ingloba, e quindi la confina, nella sua generale caratteristica «metodologica», e quindi fonda la legittimità dei piú svariati tipi di indottrinamento.

    Infatti una cultura che si fonda solo sui «metodi» e non sui contenuti, non pretende di attingere alla realtà come è in sé, ma vuole presentare alla realtà «ipotesi esistenziali qualitativamente altre», che il reale potrebbe anche rifiutare, ma che può anche essere forzato ad accettare (basti pensare al marxismo).

     

    Quarta fase: momento positivo

     

    Inizia perciò un nuovo modo di intendere la propria professionalità docente: occorre diventare capaci di introdurre nella scuola le esperienze comunitarie di vita, non come testimonianza etica di persona a persona, che rimarrebbe atto educativo di «serie b», ma come realtà anch'esse capaci di produrre cultura a pari dignità e in integrazione con la tradizionale cultura umanistico-scientifica.

    In altre parole, se il dire a se stessi: «penso, quindi esisto», se cioè un atto intellettuale di un singolo è stato reso capace di fondare la cultura dell'Occidente, perché ciò che un uomo dice a una donna, o viceversa: «Ci amiamo e quindi ci facciamo esistere», cioè l'esperienza della coniugalità, deve rimanere solo fatto emotivo e non può essere reso capace di produrre cultura entro la scuola? Se la scienza fisica è passata dal «cerchio» alla «ellisse», e cioè dalla centralità di un punto solo a quella della tensione fra due punti, perché questo passaggio non può essere consentito a tutte le altre discipline? Se ai «fabbri» e ai «ferrai», è stato chiesto di difendere il Carroccio della civiltà comunale, perché non è legittimo il desiderio del «martello» e delle «forbici» di contribuire a creare la cultura del comune, assieme alla «spada» e alla «penna»? Perché quindi non una cultura «dal» lavoro nella scuola?

    Qualche cosa del genere è già accaduto nella scuola.

    Quando si sono introdotte tematiche nuove, tipo la pace... si è finito con l'accorgersi che non si trattava di un argomento in più, nuovo o curioso...

    Introdurre la convinzione che realtà, tipo la «pace», sono «da fare», e da parte del massimo numero di persone possibili e con solidarietà fra loro, significa introdurre un nuovo concetto di cultura, in cui la realtà non è un qualche cosa di già tutto esistente da capire mediante la razionalità di qualcuno, ma è un qualche cosa da fare, mediante l'azione concordata di molti.

    Si passa quindi dalla realtà come «oggetto» da catturare razionalmente, alla realtà come «progetto».

    Introdurre l'educazione politica nella scuola, rientra nel più ampio problema di introdurre le «culture esperienziali» e cioè la capacità della «azione di più» persone di produrre cultura accanto e in integrazione alla riflessione della mente dei singoli.

    Si tratterebbe in ultima analisi di non fare nella scuola l'errore base del marxismo, quello che, a mio parere, per un verso Io ha fatto affondare, ma per l'altro verso cerca di farlo continuamente risorgere: il puntare su una cultura preesistente fatta da élites intellettuali con la propria riflessione (l'Hegel di turno) e che applicata alle esperienze di vita delle grandi masse, per sé indotte, le rende capaci di cambiare la società: anche la negazione del comunismo può andare bene, purché sia fatta dal «partito comunista»!

    Occorre invece puntare sui giacimenti di sapienza, pressoché intatti, incorporati nei comportamenti della gente comune.

    Quindi, e mi pare questa l'idea più essenziale, se è vero che il luogo dell'educazione politica è il «quotidiano della vita», e se è vero che il quotidiano nella scuola sono le singole materie, allora introdurre l'educazione politica nella scuola significa ripensare lo statuto educativo» di ogni singola disciplina, e cioè metodi e contenuti di approccio al reale, partendo dal punto di vista della loro capacità di educare alla convivenza democratica.

     

    Quinta fase

    È proprio cercando di introdurre correttamente il problema dell'educazione politica nella scuola, che emerge con chiarezza quello che è, almeno a mio avviso, il nodo di tutti i programmi nella scuola, un nodo di natura epistemologica e di alto profilo culturale: l'educazione politica nella scuola diventa educazione della stessa cultura scolastica a una più completa razionalità.

    Introdurre le culture esperienziali in cui il criterio di verità è la possibilità di partecipazione dei grandi numeri e la solidarietà nella realizzazione (e quindi una cultura «analogica» accanto a quella «logica»), significa dover trovare criteri di interazione ai fini educativi di due culture a statuto epistemologico non omogeneo fra loro, e cioè fra una cultura umanistico-scientifica a statuto epistemologico deduttivo, teoretico, astratto, universale, necessario... e una cultura esperienziale a statuto epistemologico concreto, particolare, contingente...

    Lavoro che è tutto ancora da fare e da inventare nella quotidianità della docenza, e che finisce con il costituire il nuovo contenuto «pedagogico» di una professionalità docente che voglia essere più educativa della persona degli alunni

     

    CONCLUSIONE

    Una educazione politica nella scuola che voglia veramente essere di «natura scolastica», è fondamentalmente e primariamente educazione politica delle singole discipline, che vanno appunto ripensate non come modello rimpicciolito della corrispondente scienza in grande, ma ristrutturate in funzione dell'educativo, e quindi anche dal punto di vista della loro capacità a produrre più convivenza democratica e perciò cambio sociale.

    La società risulta troppo differenziata e complessa per poter fare direttamente educazione che è «unificazione».

    Il docente, rispetto all'attuale situazione sociale, finisce con l'assumere la funzione di mediare culturalmente la complessità dei vari contributi educativi.

    Questo è possibile in quanto il docente assume una «nuova professionalità» in cui il criterio educativo fondamentale e unificante è un corretto atteggiamento epistemologico, capace di fare valutare la natura esatta del pensiero (e cioè i criteri di rapporto con il reale e la sistemazione dei risultati raggiunti).

    Ricuperando un modo di esprimersi noto, è vero che la scuola deve essere famiglia che educa, chiesa che evangelizza e cortile che socializza, ma nel senso che fonda razionalmente la possibilità di azioni che sono e rimangono di competenza della famiglia, della chiesa e del cortile...

    Fare educazione politica nella scuola significa quindi far assumere alla scuola un duplice orientamento: si tratta di «trasgredire» la scienza nel senso più vero del termine, e cioè di farla andare oltre i segni codificati, e si tratta di «provocare» la politica, nel senso di richiamarla alla produzione di significati a favore della persona.

    Proprio per questo la vera conclusione sarebbe un «inizio».

    Se siamo passati dalla cultura dell'oggetto e cioè da una realtà già tutta esistente da «ben pensare», alla cultura del «progetto» (e cioè la realtà più vera, quella più incidente, è quella non esistente ancora... quella tutta da fare), forse, oggi, è giunto il tempo di passare dalla cultura del progetto a quella del «dialogo» tra «autoprogetti», che verrebbe ad essere il nuovo nome dell'educazione politica nella scuola.

     

    Verso l'operativo

     

    Nella scuola, da un punto di vista culturale, sono possibili tre livelli successivi di educazione politica:

    - individuare nelle varie discipline e sui vari testi i punti di riferimento più capaci di educare alla convivenza democratica;

    - formulare un compiuto progetto di educazione politica e smistarlo secondo un programma concordato nelle varie discipline;

    - ripensare lo stesso concetto di disciplina scolastica e ridefinire la professionalità docente, partendo dalla capacità dei vari soggetti di introdurre culture esperienziali nella scuola.

    A nostro parere, solo a questo livello si può fare vera educazione politica e di tipo «scolastico», perché solo a questo livello le buone intenzioni si innestano ad una cultura corretta e proporzionata.

    Nella scuola esiste anche il punto di vista delle strutture, che non abbiamo neppure sfiorato.

    La scuola può fare educazione politica anche attraverso le sue strutture, nel senso che esse sono la naturale mediazione tra «mondi vitali» (cioè esigenze della vita) e «strutture sociali» (cioè funzionalità delle strutture). Ma in quale modo la struttura della scuola gestisce questa mediazione?

    Se un sistema sociale è stabile pur nel continuo mutamento, quando si regge su modi molteplici di partecipazione, allora si tratta di educare le persone della scuola a una pluralità e molteplicità di ruoli.

    Quindi il problema dell'educazione politica nella scuola, dal punto di vista delle strutture, è inventare o ricercare, quale molteplicità di ruoli è possibile per i docenti, per i genitori, per gli alunni e per il territorio.

    C'è pure un terzo punto di vista che molti contributi precedenti hanno abbondantemente toccato, sia pure non in riferimento alla scuola.

    Una educazione politica nella scuola rimarrà sempre «sospesa», se non si chiarisce il «come» del rapporto ragione-fede nella cultura scolastica, soprattutto in riferimento alla attuale situazione di pensiero «debole», che se non è ancora cultura della scuola, è però già «mentalità» degli alunni

    È proprio in questa prospettiva, in cui valori, fini e verità oggettive vengono rese insignificanti per la vita, che l'unica possibilità per la scuola di essere educante è la prospettiva dell'educazione politica, intesa come capacità di creare comunicazione e comunione tra persone, anche in assenza di valori da trasmettere.

    Anzi la scuola, tramite l'educazione politica, può far convivere ai fini educativi sia la affermazione, come la negazione dei valori e dei significati.

    Ma su questo occorre riflettere ancora e molto, perché si tratta di scegliere tra il credere in prospettiva politica o il fare politica in prospettiva di fede. Ciò che è veramente importante è assumere atteggiamenti di partenza corretti.

    Non si tratta di «scolarizzare» tutta l'educazione, ma di «pedagogicizzare» tutte le agenzie formative, e siccome le «pedagogie sentite», cioè fiutate a fior di pelle, sono sempre e solo due e cioè quelle dell'accompagnamento, e quelle del possesso, il primo atto di educazione politica è decidere se «accompagnare» una coscienza o «possedere» una persona, e poi in funzione di questa scelta decidere per i contenuti.


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