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    La politica fra «regole» e «valori»



    Giorgio Campanini

    (NPG 1991-3/4-25)


    Due diverse visioni della politica si dividono, e non da oggi, il campo.
    Entrambe fanno riferimento all'organizzazione della società e alla gestione del potere, ma dando rispettivamente un «senso forte» e un «senso debole» a questo complesso di rapporti. Fra queste due visioni occorre non propriamente scegliere ma piuttosto indivi duare una gerarchia, stabilire cioè che cosa sta al centro e che cosa sta, invece, alla periferia della politica.
    Chiarire i termini dell'alternativa e favorire una scelta responsabile anche in vista dell'impegno politico (impegno che, è bene sottolinearlo, in una società democratica è di tutti, anche se con modalità e in forme diverse) è appunto l'intento di queste rapide riflessioni.

    CHE COSA E LA POLITICA

    Ovvio ma non scontato punto di partenza di questa essenziale analisi è il concetto stesso di «politica».
    Si tratta apparentemente di un soggetto di facile comprensione, che in qualche modo tutti, istintivamente, colgono nelle sue linee essenziali; ma - come ampiamente rivela la storia delle idee politiche - su quelle che sono state chiamate le «categorie del politico» sono state scritte intere biblioteche ed è dunque necessario, per un corretto approccio al tema, definire l'oggetto della ricerca.
    Politica in senso teorico può essere definita come riflessione sulla natura e le caratteristiche dei rapporti intercorrenti fra gli uomini (includendosi pertanto fra tali rapporti quelli inerenti all'area del «pubblico» ed escludendosi invece quelli che appaiono riservati invece all'area del «privato»); in senso pratico potrebbe essere definita invece come «scienza» (od arte) dell'organizzazione della società in relazione specifica ai rapporti di potere.
    Se si accetta una definizione ampia di politica si può allora comprendere perché, nella non lontana stagione della contestazione «sessantottesca», avesse tanta fortuna Io slogan tutto è politico, nel senso che tutti i raporti umani sono in qualche modo condizionati, se non propriamente egemonizzati, dalla politica; restando tuttavia ben chiaro al di là della forza di suggestione dello slogan - che vi era pur sempre una serie di atti e di atteggiamenti (dal rapporto personale con Dio alla percezione della propria corporeità) non propriamente riconducibili alla politica. Del resto, dietro quello slogan stava una pericolosa e tendenzialmente totalitaria concezione della politica, alla sfera della quale nulla e nessuno avrebbero potuto sottrarsi.
    Una corretta, seppur panoramica definizione di politica include in essa tutti i rapporti in senso lato - sia quelli propriamente istituzionali sia quelli in qualche modo «liberi» - trattandoli e tuttavia considerandoli in modi e forme diverse: nel senso che vi è un'area in qualche modo privilegiata di questi rapporti, che è quella nell'età moderna riconducibile in termini generali alla categoria di «Stato», ed un'altra area in cui la presa della politica è meno forte ed anzi parziale e limitata: ed è questa la sfera delle relazioni che si sviluppano in quella che suole essere chiamata la società civile e che comprende una serie di rapporti religiosi, economici, artistici, affettivi che certo hanno una qualche dimensione e un qualche risvolto politico, ma che alla politica solo per alcuni aspetti possono essere ricondotti. Definire quale sia e debba essere l'area dei rapporti istituzionalizzati - e cioè l'area dello Stato - e quella dei rapporti non istituzionalizzati (e cioè l'area della «società» e delle «comunità») è questione difficile e controversa, sulla quale si sono registrate e si continuano tuttora a registrare vistose differenze di impostazione, se non addirittura radicali contrapposizioni.

    POTERE E AUTORITÀ

    Questi due diversi approcci alla politica potrebbero essere ricondotti al diverso rapporto che viene ad instaurarsi fra questa e le fondamentali categorie di potere e di autorità.
    In una prima prospettiva l'area della politica concerne esclusivamente i rapporti di potere, in una seconda prospettiva essa implica anche i rapporti di autorità. La relativa ampiezza, o per contro la relativa ristrettezza, della sfera del politico sono dunque riconducibili alla fine al nesso che si stabilisce fra esso e la coppia potere/autorità.
    Quale è la fondamentale distinzione fra queste due categorie che pure sono entrambe, in senso lato, politiche?
    Essa non riguarda tanto il risultato finale quanto piuttosto la qualità della relazione sociale. Infatti tanto potere quanto autorità potrebbero essere definiti come «capacità di indurre qualcuno a fare qualche cosa», prescindendo dai mezzi concreti attraverso i quali questo obiettivo viene raggiunto. Ma le vie attraverso le quali ora il potere ora l'autorità pervengono al medesimo risultato finale sono profondamente diverse in quanto determinante risulta la presenza (o viceversa l'assenza) della categoria di forza. Si potrebbe, in altre parole, affermare che ciò che caratterizza il potere è l'uso (o la minaccia reale) del ricorso alla forza; ciò che caratterizza l'autorità è invece l'assenza dell'uso e del ricorso alla forza.
    Intendendosi dunque i rapporti politici in senso lato come un complesso di relazioni nelle quali alcuni attori inducono altri attori ad agire in una maniera piuttosto che in un'altra, si vengono a individuare due diverse modalità di relazione: da una parte quelle che non possono prescindere dalla categoria di forza; dall'altra quelle che possono prescinderne del tutto.
    Per ricorrere ad un esempio banale, un automobilista può essere fedelmente ligio alle norme che regolano il traffico stradale perché timoroso delle sanzioni che sono connesse all'inosservanza di tali regole (e che si traducono, in ipotesi, in una multa); oppure perché convinto da altri - ad esempio da un predicatore o da un annunciatore televisivo - che l'osservanza di determinate regole è «doverosa» o anche «socialmente augurabile». Nel primo caso il comportamento tenuto è riconducibile alla categoria di «potere» (perché implica appunto il possibile ricorso alla coercizione, e dunque alla forza); nel secondo caso è riconducibile, invece, alla categoria di autorità. Il risultato, e cioè l'osservanza del codice stradale è, come si vede, il medesimo, ma le motivazioni profonde sono essenzialmente diverse.
    Se autorità e potere hanno in comune la capacità di indurre determinati comportamenti (e dunque, in qualche modo, il fine), tuttavia i mezzi sono profondamente diversi.
    Da un lato sta l'istituzione con il suo necessario apparato coercitivo rappresentato dalla legge e da chi la fa osservare, lungo la linea che in un regime democratico va dal Parlamento alla pubblica amministrazione alla magistratura alle forze di polizia, dall'altro lato sta una serie di rapporti che sono legati ad un sistema di valore e, in generale, all'attitudine di singole persone e gruppi sociali ad operare attraverso la persuasione o, al limite, la suggestione.
    In questo senso si è potuto parlare - ma, a nostro avviso impropriamente - di un «potere» di istituzioni religiose o semplicemente di un «divo» che, grazie alla suggestione della sua personalità, riesce a produrre vasti e diffusi comportamenti imitativi e ripe- titivi (è questo appunto, in senso lato, il «potere» della «moda»).
    Confrontarsi con la politica significa dunque necessariamente confrontarsi con la «istituzione» e con la «forza», appunto perché politica dice capacità di organizzazione e, entro certi limiti, di unificazione della società, ricorrendo se necessario alla forza e ad un apparato coercitivo di cui nessuna comunità organizzata può fare a meno, essendovi in ciascuna di esse gruppi, anche se talora estremamente minoritari, che non si riconoscono nella regola comune (stabilita di norma dalla maggioranza) e pongono in essere comportamenti in senso lato «devianti» che in qualche misura possono essere tollerati ma che, allora quando superano una certa soglia, devono necessariamente essere repressi proprio per garantire un minimo di armonia alla convivenza sociale.

    DAL POTERE ALL'AUTORITÀ

    Paradossalmente, tuttavia, il potere - soprattutto in una società democratica - è strutturalmente finalizzato al suo progressivo ridimensionamento ed anzi addirittura alla sua completa soppressione (solo in una prospettiva «utopica», nel senso forte del termine, realmente possibile).
    L'ideale di una società democratica, nella quale il potere sia finalizzato alla migliore organizzazione della società, è quello della «latenza» della repressione: essa permane, ma sullo sfondo, appunto nell'ipotesi che il potere abbia una tale autorevolezza e una tale capacità di persuasione che l'uso della forza diventi sostanzialmente marginale e l'apparato coercitivo dello Stato sempre più ridotto, dal momento che l'ordine e l'armonia sociale sono spontaneamente garantiti da cittadini talmente convinti della giustezza e ragionevolezza delle norme da porre spontanea mente in atto gli atteggiamenti richiesti dai detentori del potere.
    In prospettiva statica, dunque, la forza - non importa se usata o soltanto minacciata - è elemento essenziale, costitutivo, irrinunciabile della politica; ma in prospettiva dinamica la componente-forza dovrebbe essere progressivamente destinata a cedere il passo alla componente autorità: l'ideale di una società politica è quello di un potere che ha grande autorità e che, proprio per questo, non ha bisogno di ricorrere, se non eccezionalmente, all'uso della forza.

    Società democratica e società autoritaria

    Si profila sullo sfondo l'essenziale discriminante fra società democratica e società autoritaria: nella prima l'uso della forza dovrebbe essere eccezionale (perché la maggior parte dei cittadini è convinta della bontà e della giustezza delle leggi); nella seconda l'uso della forza è ricorrente, perché in caso contrario tutte le strutture di potere andrebbero incontro ad una crisi inarrestabile, trattandosi appunto di un sistema politico che ha, forse, un immenso potere ma ha una scarsa, o pressoché nulla, autorità.
    Ci troviamo dunque di fronte ad un sistema di rapporti sociali fondati su presupposti profondamente diversi: ora sulla ragionevolezza, la persuasione, la convinzione; ora sulla coercizione e sulla repressione.
    Quando il potere è diventato solo questo, si è trasformato in pura forza (o «potenza») e ha perduto del tutto ogni autorevolezza e dunque ogni autorità.
    Scatta dunque necessariamente, di qui, la «resistenza», sia essa attiva o passiva, in quanto viene meno l'identificazione del cittadino con il potere - anche se non con tutte le sue espressioni, almeno con alcune sue forme, perché singole leggi o determinate regole possono essere discusse e contestate - e dunque viene meno la fondamentale categoria di legittimità, fondata appunto sul consenso dei cittadini.
    Sul piano pratico, la distinzione fra potere ed autorità diventa importante anche per l'esercizio dell'autorità stessa, a propria volta ricorrentemente tentata di trasformarsi in «potere», e cioè di ricorre all'uso della forza, se non nel senso fisico, certo in senso spirituale e morale, attraverso l'esercizio di forme di coercizione non meno cogenti di quelle riconducibili all'uso della forza.
    In questa prospettiva l'autorità decade ad autoritarismo e perde la sua essenziale connotazione distintiva rispetto alla categoria di potere.

    LA POLITICA IN SENSO «DEBOLE»

    Per significative correnti del pensiero politico, dai Sofisti ai recenti teorici della democrazia come semplice «sistema di regole», la politica trova la sua «essenza» nella sua capacità di organizzare la società e di rendere civile ed ordinata la convivenza fra gli uomini.
    Certo, l'importanza delle regole non va sottovalutata, perché senza di esse non è possibile raggiungere un minimo di unità del corpo sociale.
    Fare in modo che queste regole siano elaborate con il concorso di tutti i cittadini - almeno al momento del voto - e siano poi da essi periodicamente vagliate e se necessario corrette, è indubbiamente una condizione essenziale per un corretto esercizio del potere.
    Proprio dall'esistenza di questo condiviso sistema di regole deriva la possibilità di adottare correttamente un'altra fondamentale categoria politica, quella di legittimità (e il suo opposto, quella di illegittimità).
    È legittimo, in altri termini, ciò che appare conforme alle regole comuni stabilite con il consenso di tutti, o almeno della maggioranza; è illegittimo ciò che appare come contrario a questo sistema di regole.
    È interessante osservare, a questo riguardo, che i sistemi politici dinamici, e quelli democratici sono fra essi, non escludono che determinati comportamenti possano essere ritenuti in un certo periodo e in un certo momento storico «legittimi» e in altri periodi e momenti «illegittimi» (si pensi, per fare anche questa volta un esempio banale, all'autorizzazione o al divieto della caccia a determinati animali); e tuttavia devono sempre esistere regole in base alle quali è possibile stabilire ciò che di volta in volta è «legittimo» o «illegittimo».
    Di questa visione del potere (e più specificamente del potere dello Stato democratico, perché quello totalitario è caratterizzato appunto dall'assenza virtuale di un «sistema di regole» stabilito da tutti i cittadini e periodicamente verificato) è necessario e doveroso sottolineare due aspetti, uno di carattere storico e uno propriamente di contenuti.
    Dal punto di vista storico, l'identificazione del potere con un «sistema di regole» ha posto fine ad una lunga stagione, quella dell'assolutismo monarchico, caratterizzata appunto dalla carenza di regole certe e dunque dalla insufficiente protezione dei diritti dei cittadini; ed ha rappresentato inoltre, in Occidente, la via più semplice - e di fatto l'unica praticamente percorribile - per porre fine ai drammatici contrasti, soprattutto religiosi e politici (e spesso gli uni e gli altri insieme) che hanno lacerato l'Europa negli ultimi quattro secoli.
    Il problema della «verità» veniva in qualche modo accantonato (meglio, trasferito in un'area diversa da quella della politica) ed oggetto del contendere diventava puramente e semplicemente l'«organizzazione della società», per la quale era necessario appunto stabilire un insieme di regole. In questo modo i contrasti acutissimi che hanno reso per secoli l'Europa prati- camente ingovernabile si sono a poco a poco attenuati e si è potuto instaurare un rapporto di collaborazione fra uomini di fede religiosa diversa, di diverso orientamento ideologico con interessi economici differenziati.
    Sotto il profilo contenutistico, l'identificazione della politica con un «sistema di regole» ha consentito alle società occidentali di costruire un complesso ed elaborato organismo, quale è lo «Stato di diritto», all'interno del quale ciascun individuo e i vari gruppi sociali hanno una precisa collocazione, sono assoggettati ad una serie di doveri ed insieme sono titolari di una serie di diritti.
    Alla casualità e all'arbitrio del potere - magari dello stesso «dispotismo illuminato» - si è andato sostituendo un organismo politico-giuridico sempre più articolato, grazie al quale sono stati assai meglio di ieri garantiti i diritti individuali.
    Del resto l'esperienza storica ha rivelato che quando ad un predeterminato e precostituito «sistema di regole» si è voluto sostituire una forma di governo più «libera», più «creativa», legata al «carisma» di «grandi personalità» o alla presunta «funzione guida» di un partito presentato come «avanguardia» (talora dichiaratamente minoritaria) della società, gli esiti sono stati duramente penalizzati per i diritti individuali ed insieme per l'armonia sociale e per un ordinato progresso dei popoli.

    LA POLITICA IN SENSO «FORTE»

    La politica come «sistema di regole», dunque, non può che essere semplicisticamente rifiutata o relegata fra le eredità del passato: di un complesso di norme ogni società ha sempre bisogno, quale che sia la sua struttura. Ma ciò non significa che la riduzione del potere a «sistema di regole» sia di per sé sufficiente. Si pone qui il centrale, e delicatissimo, problema dei valori. In altri termini, è possibile definire la politica senza fare riferimento ad un quadro di valori, in nome di una sua presunta assoluta «neutralità»?
    La risposta non può che essere negativa, soprattutto per chi si ponga in un'ottica di fede (sia essa «religiosa» o «secolare»); ma deve essere lucidamente motivata, pena il rischio di incorrere nell'«ideologismo», ossia nella pretesa di imprigionare la società in una sorta di «gabbia» costruita aprioristicamente da parte di chi si ritenga detentore della verità.
    Quella che abbiamo definito la politica in «senso debole» offre certamente una risposta ai problemi di organizzazione generale della società; ma appare carente in ordine ai fini della società ed anzi rifiuta in linea di principio di pronunziarsi sul problema dei fini, ritenendo da un lato che su questo terreno un accordo sia di fatto impossibile, e dall'altro che inserire nella politica il problema dei «fini» determinerebbe differenziazioni e contrasti talmente forti da impedire, alla fine, di addivenire alla definizione di un comune «sistema di regole», dando luogo di conseguenza al caos sociale.

    Il problema dei fini

    Eppure la politica non può non porsi, da ultimo, anche il problema del fine che essa si prefigge: sta bene organizzare secondo regole certe, democraticamente elaborate e verificate, il corso complessivo della società; ma in vista di che cosa?
    Qui si misurano tra loro due visioni rispettivamente statica e dinamica (o, se si vuole, conservatrice o aperta) della società.
    Nel primo caso si ha di mira essenzialmente la migliore organizzazione dell'esistente: nel secondo si rapporta l'organizzazione vigente agli obiettivi generali che una società si prefigge e se ne misura la validità (o l'insufficienza) appunto in relazione ai fini.
    In questa prospettiva il «sistema di regole» non va abbandonato ma piuttosto valorizzato in vista del conseguimento dei fini generali che una società si propone.
    Tipica appare al riguardo la distinzione fra la posizione di coloro che danno assoluta priorità alla categoria di ordine e quanti invece ritengono determinante, per la politica, la categoria di giustizia. Certo, la giustizia non può mai prescindere dall'ordine - che ne rappresenta la premessa e in qualche modo la condizione necessaria - ma l'ordine di per sé non garantisce la capacità di una società di conseguire determinati fini.
    È proprio a questo riguardo che dall'interno stesso della politica scaturiscono alcune ricerche di senso che sono poi, di fatto, anche un appello ai valori.
    Sono i valori che la visione aristotelico-tomistica, così fortemente presente nella tradizione del pensiero politico cristiano, ha ricondotto alle categorie di buona società e di bene comune, intendendo in questo modo affermare che né un'organizzazione efficiente della società è sufficiente a garantirne l'orientamento ai valori, né la garanzia dei diritti individuali basta a far sì che il potere sia effettivamente a servizio di tutti (anche di coloro che in nome di un pur necessario «sistema di regole» non sono ancora cittadini, come i bambini non nati, i minorenni, gli stranieri, e così via).
    La storia della politica, del resto, è piena di questa ricerca di valori, spesso identificati, in passato, con la potenza dello Stato, il trionfo di una razza, l'egemonia di un gruppo sociale sugli altri, con la costruzione di una serie di mortiferi «idoli» di cui è costellato il cammino dell'Occidente soprattutto da mezzo secolo a questa parte. Forse proprio la diffidenza per l'uso malaccorto dell'appello ai valori che è stato fatto, in modo surrettizio e strumentale, dai regimi totalitari rende oggi tanti studiosi della politica diffidenti nei confronti di una qualsiasi proposta di valore.
    Ma questa ricerca appare pur sempre necessaria per dare un reale e positivo contenuto alle «regole del gioco». Soltanto per questa via è possibile passare da una politica in «senso debole» ad una politica «in senso forte».

    UN NECESSARIO SISTEMA DI VALORI

    Condurre un articolato discorso sul sistema di valori soggiacente ad una politica intesa nel suo «senso forte» implicherebbe una analitica riflessione su una serie di temi tutti meritevoli di ampi sviluppi. Basterà dunque accennare ad alcuni nodi essenziali che la politica dovrebbe essere in grado di sciogliere se non vuole autoridursi a semplice scienza dell'organizzazione della società.
    La prima area di valori riguarda il rapporto tra società civile e Stato e la delimitazione delle aree rispettivamente del «pubblico» e del «privato».
    La politica nel senso «debole» tende a collocare il suo centro nell'organizzazione dello Stato; occorre invece sapere guardare anche alle molteplici sfere di rapporti che si realizzano nell'ambito della società civile, per rispettarle e per regolarle, senza presumere mai di assumerle tutte sul piano dell'istituzione. Gioca qui un ruolo fondamentale la distinzione tra la sfera del «pubblico» e quella del «privato», ad evitare che il compito di organizzazione finisca per riguardare tutta la società e non invece soltanto quegli aspetti di essa che sono riconducibili allo Stato-istituzione.
    Vi è una serie di ambiti e di «mondi vitali» che non possono né devono essere «organizzati» (primi fra tutti quelli che fanno riferimento alle sfere dell'affettivo, del religioso, dell'artistico). Anzi, incentivare e incoraggiare il libero esplicarsi di questi «mondi vitali» costituisce uno dei fini della politica e un aspetto essenziale della «buona società».
    La seconda area di valori riguarda una visione dinamica dell'eguaglianza. La organizzazione della società non può non essere in qualche modo che una sorta di «fotografia» dell'esistente e tende conseguentemente a fissare e a perpetuare i rapporti in essa esistenti. Ma non sempre tali rapporti sono improntati alla giustizia e tengono conto della diseguaglianza, a volte foriera di drammatiche conseguenze, dei punti di partenza.
    Si tratta dunque di estendere, potenzialmente a tutti, l'area di godimento e di protezione dei diritti e di intervenire attivamente per rimuovere in quanto possibile le diseguaglianze nei punti di partenza.
    Va infine ripreso e recuperato il valore della solidarietà. Una società fondata essenzialmente sul bilanciamento reciproco dei diritti e dei doveri tende, quasi necessariamente, a lasciare in ombra la dimensione del libero, del gratuito, del non istituzionalizzato; mentre occorre immettere nel corpo sociale potenti energie di solidarietà - o, se si vuole, di «fraternità», religiosa o laica essa sia - che sono necessarie per far sì che il «sistema di regole» non cristallizzi un'astratta eguaglianza che lascia sul suo percorso una serie di drammi insoluti, di fasce di emarginazione non superata, di sacche di povertà non rimosse.
    Lo strumento fiscale - che è sicuramente una componente essenziale del «sistema di regole» - è certo la via maestra per agire in tale direzione; ma non è il solo, e soprattutto deve essere accompagnato da una chiara consapevolezza della necessità di mettere in movimento, accanto ad esso, le energie di fraternità presenti nella società e che devono essere canalizzate in direzione della solidarietà.
    Si tratta di valori essenzialmente laici, ma che hanno tutti una profonda, anche se nascosta, matrice evangelica (e non a caso la democrazia moderna è un fenomeno tipico delle aree in cui più forte e radicata è stata l'influenza del cristianesimo).
    Si prospetta qui una funzione significativa e per certi aspetti nuova della religione: non più come presunto supporto dell'ordine esigente, ma per la sua attitudine profetica ad aprire gli orizzonti della politica in direzioni sempre più vaste e sempre più lontane, attraverso una capacità di animazione dall'interno dell'impegno politico che diventa una componente essenziale di una società che non voglia semplicemente essere «bene comune» nella sua accezione più vasta: quella di ogni singola comunità civile, ma anche quella dell'umanità intera concepita come una sorta di corpus unico all'interno del quale deve realizzarsi quella circolazione di beni che è appunto la dimensione storica della solidarietà.

    POLITICA E DEMOCRAZIA

    Un'osservazione panoramica delle recenti tendenze dei regimi democratici pone in evidenza come quasi ovunque si stia affermando ed anzi accentuando il «senso debole» della politica nel senso in precedenza indicato.
    Il ben noto fenomeno della «crisi delle ideologie» ha avuto il salutare effetto di sdrammatizzare in Occidente i conflitti sociali e di mettere in movimento, nell'Est europeo, un vasto processo di pre-democratizzazione di cui è difficile ora valutare l'esito finale.
    La «carta vincente» di questo «senso debole» della democrazia sta nell'indubbio progresso economico che è stato assicurato ai paesi occidentali negli ultimi quarant'anni, e soprattutto nell'ultimo ventennio (non a caso il periodo in cui si è più chiaramente manifestata e progressivamente acuita la «crisi delle ideologie»).
    Può addirittura sembrare che l'ordine sociale e la prosperità materiale possano essere tanto meglio organizzati quanto più si abbandonino gli «astratti» discorsi sui valori e quanto più ci si concentri sulla migliore organizzazione della società.
    Nello stesso tempo si ha il timore che, riproponendo con forza il discorso sui «fini» della politica, possa in gran parte venir meno il consenso sociale, tornino ad acuirsi i conflitti fra i diversi gruppi, siano rimesse in discussione quelle «regole del gioco» sulle quali è stata costruita, e largamente esportata, la forza materiale dell'Occidente.
    Si tratta di obiezioni non marginali né sottovalutabili, con le quali occorre anzi fare i conti sino in fondo, senza cedere alla tentazione delle facili scorciatoie intraprese da quanti, attraverso il richiamo ai grandi valori, nascondono spesso fini di conservazione sociale. E tuttavia, alla fin fine, le grandi domande sulla politica devono pure essere riproposte e devono saper ritrovare una loro piena dignità all'interno di un dibattito che rischia altrimenti in Italia di avere per oggetto una serie di problemi e di temi pur importanti ma non decisivi e non determinanti per il futuro stesso della nostra società.
    Oltre tutto, una democrazia ridotta a semplice complesso di «regole del gioco» non appare la più adatta a sollecitare quelle energie di partecipazione e di rinnovamento, di cui la nostra società ha bisogno per non identificare il proprio futuro in un progresso economico sia pur crescente e diffuso.
    Vi è, al limite, il rischio che le giovani generazioni abbandonino a se stessa questa democrazia, proprio perché la politica (la «grande» politica) non abita più qui.

    Nota bibliografica

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    AA.VV., a cura di N. Bobbio, N. Matteucci, G. Pasquino, Dizionario di politica, UTET, Torino, 19822.
    AA.VV., Indifferenza o impegno? La società contemporanea e i suoi esiti, Vita e Pensiero, Milano, 1983.
    AA.VV., La democrazia oltre la crisi di governabilità, Angeli, Milano, 1985.
    A. Ardigò, Crisi di governabilità e mondi vitali, Cappelli, Bologna, 1980.
    N. Bobbio, Il futuro della democrazia, Einaudi, Torino, 1986.
    J.Y. Calvez, La politica e Dio, Paoline, Milano, 1987.
    G. Campanini, Personalismo e democrazia, Dehoniane, Bologna, 1987.
    R.A. Dahl, Poliarchia - Partecipazione e opposizione nei sistemi politici, a cura di A. Scivoletto, Angeli, Milano, 1981.
    R. Guardini, La fine dell'epoca moderna-Il potere, Morcelliana, Brescia, 1984.
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