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    La «Centesimus Annus»: temi e problemi



    Guido Gatti

    (NPG 1991-07-60)


    Dei moltissimi temi contenuti nell'Enciclica, e che meriterebbero qualche cenno di commento, ci limitiamo a prenderne in considerazione alcuni che costituiscono un apporto originale del pensiero sociale di Giovanni Paolo II, oppure fanno in qualche modo problema e abbisognano di qualche chiarificazione. Essi sono: «la soggettività della società», «il privilegiamento della cultura e delle scelte etiche dell'uomo a fronte delle strutture e della dimensione tecnica dei problemi», «la valutazione degli atteggiamenti egoistici e competitivi richiesti dal sistema capitalistico» e infine «il rapporto tra l'ateismo (o perlomeno la diffusa assenza di Dio dalla nostra cultura) e gli aspetti negativi della attuale condizione sociale».

    LA SOGGETTIVITÀ DELLA SOCIETÀ

    L'Enciclica ne parla espressamente in due punti, ma l'idea è diffusa in tutto il documento e ne costituisce uno dei temi dominanti.
    Il concetto di soggettività della società non è mai definito espressamente né all'interno dell'Enciclica, né in quel numero della Sollicitudo rei socialis (SRS) cui essa stessa rimanda, e che parla in realtà soltanto della «soggettività creativa del cittadino» e dello spirito d'iniziativa economica che vengono distrutte dalla collettivizzazione dell'economia e sostituite con le qualità umane opposte della passività, dipendenza, sottomissione all'apparato burocratico...» (SRS, 15).
    Ci sembra che la soggettività della società sia qualcosa di più della soggettività dei singoli, e della tutela che ad essi compete all'interno della società.
    La soggettività della società è una qualità della convivenza umana come tale, che le strutture concrete della società possono magari ostacolare e perfino negare, ma che appartiene alla natura profonda della società stessa in quanto umana.
    Essa consiste essenzialmente nel fatto che la società non può essere concepita alla stregua di un «meccanismo» o di un «ingranaggio»: il documento usa più volte questi termini per descrivere, con tono di evidente riprovazione e quasi di disprezzo, una concezione errata del sociale: la Rerum Novarum si oppone alla statalizzazione dei mezzi di produzione perché essa ridurrebbe ogni cittadino ad un «pezzo» nell'ingranaggio dello stato (15).
    Soggettività significa che la società reale si costruisce sempre «dal basso», a partire dalle persone, attraverso la mediazione degli organismi intermedi, salendo gradualmente fino allo stato: l'Enciclica richiama espressamente il cosiddetto «principio di sussidiarietà contenuto nella Quadragesimo Anno, ma troppo facilmente ignorato anche in campo cattolico; e lo fa proprio a proposito di assistenza sociale, un campo in cui lo stato tende a espropriare la società civile, la quale a sua volta delega volentieri allo stato compiti che sarebbero anche suoi (48).
    Si rimprovera spesso a una simile gestione impersonale e burocratizzata dell'assistenza sociale la sua inefficienza e lo spreco di risorse e di energie umane; l'Enciclica sembra temere di più la burocratizzazione in se stessa, la perdita di soggettività da parte della società: «Disfunzioni e difetti dello stato assistenziale derivano da un'inadeguata comprensione dei compiti propri dello stato... Una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze... Intervenendo direttamente e deresponsabilizzando la società, lo stato assistenziale provoca la perdita di energie umane e l'aumento esagerato degli apparati pubblici, dominati da logiche burocratiche, più che dalla preoccupazione di servire gli utenti» (48).

    Soggettività e «socialismo reale»

    L'errore principale del «socialismo reale» è avere ignorato e negato questo carattere soggettivo della società: «L'errore fondamentale del socialismo è di carattere antropologico: esso infatti considera il singolo uomo come un semplice elemento e una molecola dell'organismo sociale, di modo che il bene dell'individuo viene del tutto subordinato al funzionamento del meccanismo economico-sociale, mentre ritiene, d'altro canto, che quel medesimo bene possa essere realizzato prescindendo dalla sua unica ed esclusiva assunzione di responsabilità davanti al bene e al male... Scompare (così) il concetto di persona come soggetto autonomo che costruisce, mediante tali decisioni, l'ordine sociale» (13).
    Ma la società reale non può essere costruita davvero prescindendo da queste decisioni individuali che la fanno crescere e la plasmano dal basso: da questo punto di vista, il socialismo si è rivelato una scorciatoia illusoria (20), «una soluzione tanto semplice quanto radicale» (12) dei problemi sociali, che non teneva conto del carattere complesso, «medio» e composito della società reale.
    La crisi del socialismo è dovuta quindi anche a questo misconoscimento di fondo: perfino la sua inefficienza sul piano economico non va vista tanto come il risultato di errori di calcolo o di attuazione tecnica, quanto come conseguenza dell'errore di fondo di aver voluto costruire la società attraverso una pianificazione dall'alto: «L'inefficienza del sistema economico (del socialismo reale) non va considerata come un problema soltanto tecnico, ma piuttosto come conseguenza della violazione dei diritti umani all'iniziativa...» (24).
    Per questo la caduta del socialismo non è un fatto meccanico, ma il «riemergere delle forme spontanee della coscienza operaia» (26).
    Questo trattare la società come un insieme meccanico di strutture, smontabili e rimontabili come le centine di un ponte in costruzione, non tiene conto del suo radicarsi nell'uomo che «non può donare se stesso ad un ideale astratto o a false utopie» (41). Non si tiene conto che l'uomo, nell'attività economica non entra soltanto come ipostatizzazione dell'homo oeconomicus degli economisti classici, ma come uomo totale, portando tutto se stesso, la sua soggettività, la sua cultura. Tutta l'attività umana è un fatto culturale, nasce da una certa cultura e ne porta l'impronta.
    Del resto quanto viene rimproverato al socialismo vale anche per una certa giustificazione ideologica del capitalismo, giustificazione che lo ipostatizza come sistema e lo oggettivizza, facendone un feticcio.
    Personalmente riteniamo errato, ad esempio, parlare del mercato come di una cosa (una specie di infallibile «computer» che calcola e realizza in ogni momento l'allocazione ottimale delle risorse), dimenticando che mercato è un insieme di persone che interagiscono liberamente, portando nella loro interazione tutta la loro visione del mondo, le loro aspirazioni, la loro soggettività. Una simile concezione trascura le capacità di altruismo e di comportamento disinteressato dell'uomo, così come la concezione socialista trascura la sua radicata propensione al male e gli impone ideali troppo ambiziosi e irrealizzabili: «L'uomo porta in sé la ferita del peccato.... L'ordine sociale sarà tanto più solido, quanto più terrà conto di questo fatto... Quando gli uomini ritengono di possedere il segreto di una organizzazione sociale perfetta che renda impossibile il male, ritengono anche di poter usare i mezzi, anche la violenza o la menzogna, per realizzarla. La politica diventa allora una religione secolare» (25).
    Il pregio maggiore che l'Enciclica riconosce alle società occidentali (più che al capitalismo in se stesso) sembra essere proprio la loro interna capacità di riformarsi, di adattarsi, di dare risposte nuove alle sfide sempre nuove della storia, capacità dovute proprio al fatto che queste società si costruiscono dal basso: «Le riforme - dice l'Enciclica - furono in parte realizzate dagli stati, ma nella lotta per ottenerle, ebbe un ruolo decisivo l'azione del Movimento Operaio. Nato come reazione della coscienza morale contro situazioni di ingiustizia e di danno, esso esplicò una vasta attività sindacale, riformista, lontana dalle nebbie dell'ideologia e più vicina ai bisogni quotidiani dei lavoratori. Le stesse riforme furono anche il risultato di un libero processo di auto-organizzazione della società» (16).

    ETICA DELL'ECONOMIA E SISTEMI SOCIALI

    Da qualche decennio a questa parte la teologia morale, nella sua trattazione dei problemi relativi alla realtà economica, non si limita più, come in passato, a prendere in considerazione le scelte e i comportamenti personali degli operatori economici, per valutare la loro corrispondenza o meno con le esigenze della giustizia e delle altre virtù sociali, ma rivendica a sé il compito di pronunciare un giudizio morale anche sulle strutture sociali in cui la realtà economica si organizza e che le danno corpo, costituendo nel loro insieme ciò che si suole chiamare con il nome di «sistema».
    Gli stessi atteggiamenti e comportamenti personali passano in un certo senso in subordine, venendo visti, più che nel loro essere originati da libere e responsabili scelte delle persone concrete, nella loro necessaria coerenza con la logica interna di un certo sistema, e perciò nel loro essere quasi deterministicamente prodotti da esso.
    Lo stesso magistero sociale della Chiesa, che si è ripetutamente occupato in quest'ultimo secolo della realtà economica e sociale da una prospettiva morale (l'unica che gli compete veramente in questo campo), ha dato più d'una volta l'impressione di volersi arrogare il compito di giudice tra i due sistemi opposti del capitalismo e del socialismo, valutando imparzialmente, ma in modo ugualmente (o quasi ugualmente) negativo, meriti e demeriti dei due contrapposti sistemi.
    Per la prima volta dopo quasi un secolo, il magistero sociale della Chiesa si trova oggi in una situazione del tutto nuova: uno dei due sistemi contrapposti è praticamente uscito di scena, e una valutazione morale significativa e realistica può ormai essere pronunciata solo nei confronti del capitalismo.
    Di fatto, forse proprio perché ogni alternativa «reale» al capitalismo sembrerebbe preclusa, e il magistero non è più pressato dalla necessità di sembrare imparziale e non pregiudizialmente chiuso alle ragioni del socialismo e alle istanze di giustizia che esso rivendicava a se stesso, quest'ultimo documento del magistero sociale della cattedra papale, nella sua valutazione del capitalismo in quanto sistema economico, pur non tacendo i problemi tuttora irrisolti e gli aspetti negativi che ancora lo caratterizzano, assume nel complesso toni più realistici e pacati di altri passati documenti dello stesso magistero.
    Da questo punto di vista la Centesimus Annus si ricongiunge idealmente alla Rerum Novarum, anch'essa scritta quando il socialismo non era ancora un sistema «reale», ma soltanto un errore pernicioso da smascherare, e un pericolo da scongiurare.
    Questo tono pacato e realistico è particolarmente visibile nella descrizione, singolarmente accurata e benevola, che l'Enciclica fa del meccanismo economico, descrizione che più di un economista classico potrebbe far sua.

    L'attività economica umana

    È una descrizione che parte da lontano: l'Enciclica rinconferma ancora una volta la validità del discorso leoniano sul carattere naturale del diritto di proprietà, coniugato peraltro col principio della universale destinazione dei beni.
    Comune e universale è, secondo l'Enciclica, la originaria destinazione dei beni per il fatto che essi sono doni di Dio creatore; privata ne è la proprietà in quanto essi sono frutto del lavoro umano. Dono di Dio e lavoro dell'uomo sono dunque alla base di tutta la realtà economica e ne misurano la fedeltà al progetto di Dio. Ed è proprio partendo da una analisi empirica del lavoro umano che il Papa perviene a una descrizione convincente (diremmo da manuale) di tutto il dinamismo naturale (o almeno quasi-naturale) dell'economia.
    L'Enciclica comincia col segnare l'incremento progressivo del quoziente ponderale della produttività del lavoro rispetto alle risorse naturali, ricorda poi il carattere insopprimibilmente sociale del lavoro, che è sempre, di sua natura, un lavorare «con gli altri» e «per gli altri». Il lavoro è perciò chiamato a «leggere in profondità i bisogni dell'altro uomo, per il quale il lavoro è fatto» (31).
    Naturalmente questa lettura in profondità dei bisogni altrui, pur rispondendo a un interesse dello stesso produttore, ha una dimensione etica che la rende diversa da qualsiasi forma di marketing interessato. C'è comunque un primo riferimento alla realtà del mercato, che verrà sviluppato più oltre al n. 32: «Chi produce un oggetto lo fa in genere, oltre che per l'uso personale, perché altri possa usarne dopo aver pagato il giusto prezzo, stabilito di comune accordo, mediante una libera trattativa. Ora, proprio la capacità di conoscere tempestivamente i bisogni degli altri uomini e le combinazioni dei fattori produttivi più idonei a soddisfarli è un'altra importante fonte di ricchezza della società moderna».
    Funzionale al carattere sociale del lavoro, e intimamente connesso con questa sua socialità, è l'organizzazione sociale del lavoro all'interno dell'impresa, con le relative assunzioni di rischi e di responsabilità da parte dell'imprenditore, chiunque esso sia: è il ruolo positivo dell'intraprendere e delle qualità, anche morali, che esso richiede; e naturalmente il riconoscimento a una specifica remunerazione per l'imprenditorialità efficiente: l'Enciclica riconosce apertamente «la giusta funzione del profitto, come indicatore del buon andamento dell'azienda» (35).
    E fino a questo punto ci si potrebbe a buona ragione chiedere se l'Enciclica stia semplicemente descrivendo, più che un sistema economico storico particolare, quale è il sistema capitalistico, il funzionamento normale e quasi-naturale dell'attività economica umana in quanto tale.

    Il «capitale»

    Ma il Papa previene ogni dubbio, introducendo nel circuito produzione-distribuzione così descritto il ruolo decisivo del capitale (32) e indicando, insieme con gli elementi quasi-naturali, e perciò eticamente positivi o almeno neutrali, gli aspetti negativi del meccanismo appena descritto (33). Quello che il Papa descrive è senza ombra di dubbio il capitalismo, con i suoi aspetti positivi ma anche con quelli negativi.
    Un primo aspetto negativo presentato nell'Enciclica è inerente al carattere competitivo, e perciò duramente selettivo, di questo dinamismo economico fondato sul mercato. Il mercato, che ha ormai assunto dimensioni planetarie, dà luogo, proprio per la competitività che lo muove, a una situazione paradossale, in cui al suo dominio nessun paese può realmente sottrarsi, proprio mentre molte persone e nazioni non riescono a inserirvisi in maniera attiva e degna dell'uomo.
    Di qui una diffusa condizione, se non proprio di sfruttamento, almeno di grave emarginazione: «Ad essi di fatto non si riconosce dignità e talora si cerca di eliminarli dalla storia, mediante forme coatte di controllo demografico» (33).
    Il Papa non esita a parlare, a proposito del mercato, di «spietatezza» di una situazione che non ha nulla da invidiare a quella dei momenti più bui della prima fase industriale. Così, mentre da una parte l'Enciclica riconosce che il libero mercato «sembra essere Io strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni» (34), al punto che, in base all'esperienza più recente, «i paesi che si sono esclusi hanno conosciuto stagnazione e regresso, mentre hanno conosciuto lo sviluppo i paesi che sono riusciti ad entrare nella generale inter- connessione delle attività economiche a livello mondiale» (33), dall'altra parte essa avverte che «esistono numerosi paesi che non hanno accesso al mercato» (34).
    Così, mentre ha appena parlato di un «giusto prezzo, stabilito di comune accordo, mediante una libera trattativa» (32), è costretta a richiamare, con la Rerum Novarum, l'urgenza di una giustizia degli scambi che vada al di là della tradizionale «aequalitas rei ad rem», per fondarsi sulle impreteribili esigenze della dignità di ogni uomo: «Prima ancora della logica dello scambio degli equivalenti e delle forme di giustizia che le sono proprie, esiste qualcosa che è dovuto all'uomo perché è uomo, in forza della sua eminente dignità» (34).
    E anche a proposito del profitto, l'Enciclica avverte che esso «non è l'u nico indice delle condizioni dell'azienda. È possibile che i conti economici siano in ordine e insieme che gli ultimi, che costituiscono il patrimonio più prezioso dell'azienda, siano umiliati e offesi nella loro dignità» (35).
    Se si aggiungono a questi rilievi di fondo; gli altri, dedicati alla manipolazione dei consumi e al conseguente fenomeno del «consumismo» (36), e , quelli concernenti il problema ecologico, sia per quanto riguarda l'ambiente naturale (37), che per quanto riguarda l'ambiente umano (38), ci si può chiedere se si possa davvero considerare come acquisito e irreversibile il fatto che «la sconfitta del cosiddetto socialismo reale lasci il capitalismo come unico modello di organizzazione economica» (35), cosa che effettivamente l'Enciclica dichiara in un certo punto «inaccettabile» (35).
    Ma se si tiene conto che le negatività morali addossate al socialismo reale sono ben più gravi e che, d'altra parte, l'Enciclica a nome della Chiesa in quanto tale, riconosce di non avere veri e propri modelli da proporre, come alternativa reale a quelli esistenti, ci si può chiedere che cosa significhi questo rifiuto di rassegnarsi al capitalismo, pur dopo averne descritto con tanta pacata precisione gli aspetti positivi, e averne lasciato intuire una certa «quasi-naturalità».
    In realtà, la posizione dell'Enciclica nei confronti del capitalismo non differisce sostanzialmente da quella dei documenti precedenti dello stesso magistero, ed è di natura essenzialmente dialettica. Il suo temuto giudizio sul capitalismo è, come abbiamo già visto, un giudizio positivo ma con riserva, che sottolinea l'ambiguità del termine «capitalismo», il quale può significare sia qualcosa cui l'Enciclica dice chiaramente di sì, che qualcosa cui la stessa Enciclica dice chiaramente no.
    Da tutto il contesto dell'Enciclica ci sembra fuori di dubbio che il suo «no» sia rivolto non tanto al capitalismo come sistema economico in senso tecnico, quanto al capitalismo come espressione e incarnazione di una cultura: «Queste critiche sono rivolte non tanto contro un sistema economico, quanto contro un sistema etico-culturale» (39).
    È una decisa e inequivoca svalutazione della dimensione puramente teccnica di un sistema economico, agli effetti di una sua valutazione morale, un ridimensionamento importante delle cosiddette «strutture» in quanto tali ai fini della soluzione del problema sociale.

    Il primato dell'uomo sulle strutture

    Ma l'Enciclica non si limita a ridimensionare il ruolo delle strutture economiche per la soluzione dei problemi sociali; essa sembra voler ridimensionare il peso della stessa dimensione economica di questi problemi, e quindi l'importanza dell'economia come tale nella vita sociale: «L'economia è solo un aspetto ed una dimensione della complessa attività umana» (39).
    Questo vale in particolare per lo sviluppo: «Lo sviluppo non deve essere inteso in un modo esclusivamente economico, ma in un senso integralmente umano» (29).
    La stessa libertà, così tenacemente difesa dall'Enciclica, è qualcosa di più della libertà d'iniziativa e di mercato: «La libertà economica è soltanto un elemento della libertà umana» (39).
    Il Papa sembra anzi identificare proprio nella assolutizzazione della dimensione economica della vita umana uno degli aspetti più negativi del capitalismo attuale, che non andrebbe peraltro attribuito alla qualità tecnica e strutturale del sistema, ma a un dato squisitamente culturale, quale è l'importanza relativa assegnata ai diversi valori della vita: «Se essa (l'economia) è assolutizzata, se la produzione e il consumo delle merci finiscono con l'occupare il centro della vita sociale e diventano l'unico valore della società, non subordinato ad alcun altro, la causa va ricercata non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l'intero sistema socioculturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e ormai si limita solo alla produzione dei beni e dei servizi» (39).
    In fondo, anche la crisi del socialismo reale è stata causata, secondo l'Enciclica, prima ancora che dalla sua inefficienza sul piano economico, dalla visione meccanicistica dell'uomo e della società che soggiaceva alle sue strutture, e più ancora dal «vuoto spirituale provocato dall'ateismo» (24).
    L'Enciclica sviluppa ampiamente questa tesi del primato della cultura rispetto alle strutture economiche, che è poi il primato dell'uomo rispetto ai dinamismi impersonali del sistema, rovesciando così l'ordine inverso affermato dal materialismo storico e largamente accettato dalla nostra cultura, secondo cui l'uomo sarebbe solo un prodotto della società, alla cui base starebbero l'economia e i rapporti di produzione, mentre la cultura andrebbe vista solo come una sovrastruttura del tutto condizionata da questa base materiale.
    Secondo l'Enciclica invece, «tutta l'attività umana ha luogo all'interno di una cultura e interagisce con essa.
    Per una adeguata formazione di tale cultura si richiede il coinvolgimento di tutto l'uomo, il quale vi esplica la sua creatività, la sua intelligenza, la sua conoscenza del mondo e degli uomini Egli, inoltre, vi investe la sua capacità di autodominio, di sacrificio personale, di solidarietà e di disponibilità per promuovere il bene comune. Per questo il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell'uomo, e il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino» (51). È proprio nei confronti della cultura che la Chiesa si riconosce più competente a pronunciare le sue valutazioni morali, ma anche ad offrire il suo specifico contributo di educatrice e di «esperta in umanità»: «È a questo livello che si colloca il contributo specifico e decisivo della Chiesa in favore della vera cultura» (51).

    ETICA E PRINCIPIO DELL'HOMO OECONOMICUS

    Questo ricupero, in un certo senso inatteso, della centralità della cultura e del protagonismo dell'uomo con le sue personali scelte etiche nella vita sociale, ci introduce in un particolare aspetto della problematica morale della realtà economica, lungamente e appassionatamente dibattuto nei primi anni del secolo soprattutto in campo cattolico, ma oggi generalmente assente dalle trattazioni di etica economica: la vera natura del vincolo che sembra unire, in modo più o meno rigido, determinati atteggiamenti e comportamenti umani di grande rilevanza morale con determinati sistemi economici o sociali.
    Clamorosamente crollata la promessa comunista di creare, attraverso il rovesciamento delle strutture capitalistiche della produzione, un «uomo nuovo», definitivamente liberato dalla necessità di essere lupo per ogni altro uomo, e perciò infallibilmente aperto alla cooperazione fraterna e alla solidarietà umana più ampia, ci si chiede se il modello standardizzato di comportamento sociale, anzi di uomo come tale (l'homo oeconomicus dell'economia politica tradizionale), aggressivamente competitivo e teso unicamente alla massimizzazione dell'utile personale, che per tanto tempo si è ritenuto talmente congeniale al capitalismo da essere di fatto qualcosa che esso educava e produceva in modo infallibile, proprio in forza delle sue esigenze di efficienza, debba restare d'ora in poi l'unico modello di uomo su cui fare assegnamento per la soluzione dei problemi economici e sociali.

    L'«homo oeconomicus»

    Il principio dell'homo oeconomicus ha avuto, nella storia della scienza economica, versioni e funzioni diverse.
    Una prima versione, di carattere prevalentemente interpretativo, ha la funzione di portare a una comprensione pratica dell'agire ordinario degli uomini nell'ambito dell'attività economica, agire che si ritiene governato in gran parte dalla preoccupazione di ottenere il miglior risultato possibile in termini di utilità e di vantaggio personale. Da questo punto di vista esso fornisce un certo orientamento all'autorità politica, le cui disposizioni, quali che siano i fini che si propongono, saranno efficaci solo se terranno conto del fatto che le motivazioni dell'agire economico dell'operatore «medio» sono appunto ispirate a motivazioni di questo tipo.
    In una seconda versione il principio ha una funzione più squisitamente euristica: esso è utilizzato come una specie di assioma di comodo per l'elaborazione dell'economia politica con metodi rigorosamente deduttivi, che ne fanno quasi una specie di «matematica della psiche».
    In questa seconda versione, il principio dell'homo oeconomicus è oggi totalmente abbandonato dalla stessa scienza economica.
    In una terza versione, il principio è visto invece come una specie di programma e di presupposto etico per il buon funzionamento di un'economia concorrenziale, ritenuta per principio l'unica forma di economia che massimizzi l'utilità marginale collettiva, intesa come somma di tutte le utilità individuali.
    In forza di questa cieca fiducia nella concorrenza più perfetta possibile, il perseguire in economia esclusivamente il proprio egoistico vantaggio, diventerebbe una forma indiretta e involontaria, ma non per questo meno efficiente, di servizio al bene comune, e quindi l'equivalente paradossale di una virtù.
    Una simile versione del principio dell'homo oeconomicus ha visto in questi ultimi anni un indubbio revival, in corrispondenza con la più recente ripresa di forme di «capitalismo selvaggio» che lunghi anni di politica keynesiana parevano aver seppellito per sempre.
    L'Enciclica adotta nei confronti di questo complesso feticcio culturale una posizione dialetticamente diversificata.
    Da un lato essa riconosce il carattere normalmente interessato dell'operatore economico «medio»: ci vede un dato di fatto che i poteri pubblici non possono ignorare o contraddire in modo troppo patente nella regolamentazione dell'attività economica.
    Oltretutto, ignorare questo dato di fatto equivarrebbe a non tener conto della «ferita del peccato originale», che inclina l'uomo al male e lo rende bisognoso di redenzione: «Difatti dove l'interesse individuale è violentemente soppresso, esso è sostituito da un pesante sistema di controllo burocratico, che inaridisce le fonti dell'iniziativa e della creatività» (25).
    Per quanto riguarda la versione teoretica e la funzione euristica del principio dell'homo oeconomicus, l'Enciclica giustamente ignora questo pezzo di archeologia della scienza, già da molto tempo in disuso.
    Dove invece l'Enciclica è chiara e vibrante nella sua condanna, è a proposito della versione etica del principio dell'homo oeconomicus. Abbiamo assistito in quest'ultimo decennio a una preoccupante ripresa della mitologia del paleocapitalismo, con l'aperta difesa della spietatezza della competizione selezionatrice, che sarebbe l'anima dell'economia di libera impresa e di mercato, di cui garantirebbe l'efficienza e gli effetti positivi, a livello di utilità collettiva.
    L'Enciclica separa nettamente, come si è già visto, la dimensione tecnica e strutturale dell'economia di mercato dal suo retroterra etico-culturale che, secondo l'Enciclica, gli appartiene peraltro soltanto alla stregua di un contesto accessorio e di una teorizzazione unilaterale.
    L'idea che il sistema abbia bisogno, per ben funzionare, di poter contare su atteggiamenti e comportamenti di egoismo radicale, ci sembra essere il nucleo centrale di questo retroterra culturale.

    La solidarietà come fondamento dell'etica sociale

    L'Enciclica richiama a questo proposito, con rinnovato vigore, l'insegnamento tradizionale del magistero sociale sulla solidarietà, come virtù fondamentale di tutta la vita sociale e come elemento specifico della concezione cristiana dell'uomo e della società. Essa denuncia «il rischio che si diffonda un'ideologia radicale di tipo capitalistico» (42). Secondo l'Enciclica, molte persone sarebbero costrette a vivere «all'interno di ambienti in cui è assolutamente primaria la lotta per il necessario e vigono ancora le regole del capitalismo delle origini, nella spietatezza di una situazione che non ha nulla da invidiare a quella dei momenti più bui della prima fase di industrializzazione» (33).
    Per quanto riguarda l'impresa, che è l'unità produttiva di base del sistema, e di comportamento dell'imprenditore, in cui sarebbe facile vedere una ipostatizzazione dell'homo oeconomicus, l'Enciclica afferma chiaramente che «scopo dell'impresa non è semplicemente la produzione del profitto, bensì l'esistenza stessa dell'impresa, come comunità di uomini che, in modo diverso, perseguono il soddisfacimento dei loro fondamentali bisogni e costituiscono un particolare gruppo al servizio dell'intera società» (35).
    Se l'imprenditore deve perseguire altri scopi oltre al profitto, l'impresa come tale serve non solo i bisogni dei suoi appartenenti, ma l'intera società.
    Per quanto riguarda l'investimento dei capitali, l'Enciclica ricorda che «anche la scelta di investire in un luogo piuttosto che in un altro, in un settore produttivo piuttosto che in un altro, è sempre una scelta morale e culturale» (36).
    Del resto «la decisione di investire» deve essere in se stessa, molto più che il risultato di un calcolo di massimizzazione del profitto, la decisione «di offrire ad un popolo l'occasione di valorizzare il proprio lavoro» e include perciò «un atteggiamento di simpatia e una fiducia nella Provvidenza, che rivelano la qualità umana di colui che decide» (36).
    Riprendendo il tema marxiano dell'alienazione, l'Enciclica lo riconduce a una dimensione etico-personale: l'alienazione si verifica quando il lavoro è organizzato in modo tale da massimizzare soltanto i suoi frutti e proventi e non ci si preoccupa che il lavoratore, mediante il proprio lavoro, si realizzi di più o di meno come uomo, a seconda che cresca la sua partecipazione in un'autentica comunità solidale, oppure cresca il suo isolamento in un complesso di relazioni di esasperata competitività e di reciproca estraneazione, nel quale egli è considerato come mezzo e non come fine» (41).
    Il «no» all'assolutismo del criterio del profitto e dell'interesse personale o di gruppo non potrebbe essere più chiaro ed esemplificato.
    Passando dalla condanna a un discorso più propositivo, l'Enciclica privilegia gli atteggiamenti pro-sociali della solidarietà e dell'altruismo e quelli più personali di una giusta gerarchia interna dei bisogni. Dopo aver affermato che l'uomo, pur segnato dalla solidarietà del peccato, «può donare se stesso ad un'altra persona o ad altre persone e, infine a Dio, che è l'autore del suo essere ed è l'unico che può pienamente accogliere il suo dono» (41), ricorda che «l'obbedienza alla verità su Dio e sull'uomo è la condizione prima della libertà, consentendogli di ordinare i propri bisogni e i propri desideri e le modalità del loro soddisfacimento secondo una giusta gerarchia, di modo che il possesso delle cose sia per lui mezzo di crescita» (41).

    UN PRIVILEGIAMENTO CONTROCORRENTE

    Privilegiare come criterio delle valutazioni etiche in campo economico gli atteggiamenti e le scelte delle persone concrete invece delle strutture, è stata una scelta coerente di questo Papa, che l'Enciclica riconferma ancora una volta riprendendo nel titolo dell'ultimo capitolo, quasi a spiegare il significato che l'enciclica attribuisce a questa scelta, un'espressione tipica di Giovanni Paolo II: «L'uomo è la via della Chiesa».
    Scopo dell'insegnamento sociale della Chiesa è «la cura e la responsabilità per l'uomo, a lei affidato da Cristo stesso» (53): e l'Enciclica precisa che «non si tratta dell'uomo astratto, ma dell'uomo reale concreto. Si tratta di ciascun uomo, perché ciascuno è stato compreso nel mistero della redenzione» (53).
    Del resto, è proprio al tesoro della sua fede che la Chiesa attinge, insieme con questa preoccupazione, il contributo specifico che essa può dare alla soluzione dei problemi sociali: anche se le scienze umane e la filosofia «sono di aiuto per interpretare la centralità dell'uomo dentro la società, in quanto essere sociale. Soltanto la fede però gli rivela pienamente la sua identità vera e proprio da essa prende avvio la dottrina sociale della Chiesa» (54).
    Ma il privilegiamento della cultura e dell'uomo rispetto alle strutture è anche una scelta abbastanza controcorrente, almeno contro la corrente dominante anche in campo teologico in questi ultimi anni.
    Il fatto è che, se in passato la scoperta del ruolo svolto dalle strutture nella concreta realizzazione della giustizia e della solidarietà ha permesso di superare un tipo di discorso morale che restava sospeso tra parenesi impotente e giustificazione ideologica dell'esistente, oggi l'insistere unilateralmente sulla pur necessaria trasformazione delle strutture rischia di diventare un alibi all'azione, non meno paralizzante e sterile del discorso moralistico del passato: le scelte etiche degli uomini concreti sono alla base della stessa trasformazione strutturale della società: «Per questo il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell'uomo» (51).

    ATEISMO E ASPETTI NEGATIVI DELLA SOCIETÀ

    Su questo tema l'Enciclica sembra sfidare apertamente gli «idola fori» della nostra cultura: gli errori antropologici che stanno alla base della crisi del socialismo poggiano a loro volta su un errore più profondo, di natura teologale: il rifiuto di Dio: «Se ci si domanda poi donde nasca quell'errata concezione della natura della persona e della soggettività della società, bisogna rispondere che la prima causa è l'ateismo. È nella risposta all'appello di Dio... che l'uomo diventa consapevole della sua trascendente dignità. Ogni uomo deve dare quella risposta all'appello di Dio, nella quale consiste il culmine della sua umanità e nessun meccanismo sociale e soggetto collettivo può sostituirlo» (14). L'ateismo è anche all'origine della lotta di classe e della mitizzazione del conflitto: «Dalla medesima radice ateistica scaturisce anche la scelta dei mezzi di azione propria del socialismo» (14). Ma la stessa cosa viene detta anche del capitalismo, per quelli che sono i suoi aspetti negativi: «La causa (di questi aspetti negativi) va ricercata non solo e non tanto nel sistema economico stesso, quanto nel fatto che l'intero sistema socioculturale, ignorando la dimensione etica e religiosa, si è indebolito e oramai si limita alla produzione di beni e servizi» (39).
    L'Enciclica opera a questo proposito una rilettura in chiave personalista e cristiana del concetto marxiano di alienazione, che tanta parte ha avuto nello sviluppo e nella divulgazione dell'ideo logia comunista: l'alienazione viene vista «come perdita del senso autentico dell'esistenza» (41); «è necessario ricondurre il concetto di alienazione alla visione cristiana» (ib).
    La società e la cultura che fanno da supporto al sistema economico del capitalismo, con il loro relativismo e con una concezione della morale che giustifica l'utilitarismo e l'egoismo individuale, sono quindi all'origine dei suoi mali: l'Enciclica parla perciò di un «errore di più vasta portata... (che consiste in una concezione della libertà umana che sottrae all'obbedienza della verità... Contenuto della libertà diventa allora l'amore di sé fino al disprezzo di Dio e del prossimo» (17).
    Come si vede, al di là dell'ateismo, sono messi sotto accusa aspetti importanti della cultura moderna, che siamo soliti venerare; così anche dell'illuminismo e della assolutizzazione della ragione che lo contraddistingue: «L'ateismo di cui si parla, del resto, è strettamente connesso col razionalismo illuministico, che concepisce la realtà umana e sociale in modo meccanicistico» (13).
    Così, anche alla base del consumismo non c'è soltanto una disfunzione tecnica della logica economica del sistema, ma anche un analogo errore di natura etica e culturale, che riguarda quello che potremmo chiamare un concetto ideale di «vita buona»: «Nel modo in cui insorgono e sono definiti i nuovi bisogni, è sempre operante una scelta più o meno adeguata dell'uomo e del suo vero bene: attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita.
    È qui che sorge il fenomeno del consumismo» (36).
    La stessa cosa vale per quanto riguarda «l'insensata distruzione dell'ambiente naturale»: anche alla sua base «c'è un errore antropologico»: l'uomo della tecnica ha dimenticato l'origine divina delle cose e le sue responsabilità per la loro gestione, nei confronti di Dio (37).
    Questo in negativo; ma il discorso è ripetuto anche in positivo: il vangelo contiene il segreto della vera soluzione dei problemi sociali; non nel senso che esso contenga un modello normativo di società, ma nel senso che offre una motivazione e una ispirazione trascendente all'azione sociale.
    «Come allora, c'è bisogno di ripetere che non c'è vera soluzione della questione sociale fuori del vangelo» (5).
    Naturalmente queste espressioni possono urtarci e saranno fraintese da molti.
    Ma ci sembra che ciò che urta in esse dipenda da una precomprensione facile ma errata: si pensa all'ateismo (o al contrario alla religione) in termini anagrafici o di «schieramento».
    Ci sembra che l'Enciclica lasci aperta la porta a una interpretazione fondata sul concetto (già ampiamente noto e in qualche modo recepito) di «fede anonima o implicita», e quindi su quello parallelo e analogo di «ateismo anonimo o implicito».
    C'è una forma di misconoscimento di Dio, incarnata nella vita, che può essere professato anche nella vita dei credenti, così come ci può essere una adesione a Dio inclusa in un orientamento globale della vita: quello che conta è l'atteggiamento operativo nei confronti dell'uomo.
    È in un tale atteggiamento che si situa la vera professione della fede come dell'ateismo.
    E questo deve essere, se non si vuole introdurre in essa una contraddizione troppo patente, il senso della speranza espressa dall'Enciclica al n. 60: «C'è fondata speranza - dice l'Enciclica - che anche quel gruppo numeroso che non confessa una religione possa contribuire a dare il necessario fondamento etico alla questione sociale» (60).
    Altrove, l'Enciclica dice che «l'obbedienza alla verità su Dio e sull'uomo è la condizione prima della libertà» (41), lasciando intuire come la verità su Dio e quella sull'uomo si implichino a vicenda, non solo nel senso che la prima fonda la seconda, ma anche in quello che l'attuazione pratica della seconda include vitalmente la prima.

    IL PRIMATO DELL'EDUCAZIONE

    Si apre qui un discorso che ci tocca più da vicino e che riguarda il ruolo dell'educazione nella soluzione del problema sociale. Se i problemi della società si risolvono anzitutto a partire dal basso, se essi sono, molto più che problemi di carattere tecnico-economico, problemi etico-culturali, la prima e più importante azione sociale è l'educazione.
    L'Enciclica ne parla espressamente più d'una volta, dandole un rilievo che solo il documento sinodale «La giustizia del mondo» (10) del 1971 aveva superato: «Il sistema economico - dice ad esempio l'Enciclica a proposito del consumismo - non possiede al suo interno criteri che consentano di distinguere correttamente le forme nuove e più elevate di soddisfacimento dei bisogni umani... È perciò necessaria ed urgente una grande opera educativa e culturale» (36).
    Essa esorta perciò ad «adoperarsi per costruire stili di vita nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono, in comunione con gli altri uomini siano gli elementi che determinano la scelta dei consumi, dei risparmi e degli investimenti» (36).
    Altrove, essa indica proprio nell'educazione la condizione di possibilità di una vera democrazia, cioè in fondo, di una società rispettosa della costitutiva soggettività del sociale: «Una autentica democrazia è possibile solo... se si verificano le condizioni necessarie per la promozione sia delle singole persone, mediante l'educazione e la formazione di veri ideali, sia della soggettività della società, mediante la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità» (46).
    Come si vede, l'apporto dell'educazione alla soluzione degli attuali problemi della vita sociale è quella di garantire la presenza e la verità degli ideali che ispirano l'azione sociale e quella di costruire «stili di vita» che comandino, anche in campo economico, scelte coerenti con questi ideali.
    È una valorizzazione del compito di ogni educatore e un appello a vedere in esso un contributo insostituibile alla soluzione dei problemi della società.

    L'ENCICLICA «CENTESIMUS ANNUS»

    L'occasione (il centenario della «Rerum Novarum» e l'intento celebrativo di questa Enciclica ne condizionano i contenuti e il tipo di approccio: l'Enciclica ha un taglio decisamente storico, nel senso che essa:
    - guarda al passato per ricostruire il complicato intreccio tra storia sociale del mondo e storia dell'insegnamento sociale della Chiesa nell'ultimo secolo;
    - guarda al presente per decifrare le «cose nuove» che lo caratterizzano, e per individuare e accogliere le sfide che esse presentano;
    - è protesa verso il futuro «terzo millennio», per coglierne le anticipazioni e per prepararlo nella speranza.

    1. Tratti caratteristici della Rerum Novarum (nn. 1-11)
    In questa prima parte, l'Enciclica rievoca la Rerum Novarum (RN); lo stile è indubbiamente un po' encomiastico, come vuole il genere letterario di un simile documento; ma l'intento è quello di offrire elementi utili per una rilettura e reinterpretazione di un testo ormai molto lontano da noi, attraverso la ricostruzione del suo contesto: «Intendo ora proporre una rilettura dell'Enciclica leoniana, invitando a guardare indietro al suo testo, per scoprire nuovamente la ricchezza dei principi fondamentali in essa formulati, per la soluzione della questione operaia» (3).
    Non mancano accenni in cui il valore dell'Enciclica si rivela in alcuni richiami alla sua permanente attualità, attraverso il riferimento a problemi ancora aperti, se pure in forme nuove.

    2. Verso le cose nuove di oggi (nn. 12-21)
    Nel secondo capitolo, l'Enciclica rifa la storia dell'ultimo secolo della vita sociale, che è anche storia dello sviluppo e dell'influsso della dottrina sociale della Chiesa, e in particolare del «dimostrarsi attuale», cioè preveggente e preveniente, della RN. E qui naturalmente trova posto una prima valutazione del socialismo, sia del socialismo in se stesso, o «socialismo ideale», sia della sua attuazione concreta nei paesi del «socialismo reale».
    Il suo errore fondamentale è di natura antropologica, e consiste in una considerazione esclusivamente oggettivante e reificante sia della società, ridotta a un «meccanismo» impersonale, frutto di ingegneria sociale, sia dell'uomo, ridotto a ingranaggio di questo meccanismo (13).
    È in base a questo errore di fondo che l'Enciclica spiega l'opposizione della RN al socialismo, quando ancora questo non aveva dispiegato tutta la sua efficacia negativa, accresciuta dalla mitizzazione della lotta di classe (14).
    In questa stessa parte vengono descritte le riforme o autocorrezioni attuate invece all'interno del capitalismo, mettendo in risalto il fatto che esse, più che da operazioni di ingegneria sociale, sono nate da un «libero processo di autoorganizzazione della società» (15).
    Ma vengono messi in luce anche gli errori di fondo di un certo tipo di capitalismo, che sono anch'essi di natura antropologica, e che spiegano le grandi guerre che ne hanno segnato i momenti di crisi.
    Tali errori si riassumono in quell'individualismo selvaggio, per cui «contenuto della libertà diventa l'amore di sé fino al disprezzo di Dio e del prossimo» (17).
    Comincia a profilarsi la tesi, caratteristica dell'Enciclica, di una connessione necessaria tra l'apostasia della cultura da Dio e negatività sociale (e quindi all'inverso, tra religione e loro superamento).

    3. Verso le cose nuove di oggi (nn. 22-29)
    Il terzo capitolo parla della crisi del socialismo reale, concentrata e simbolizzata nel «1989» anno, decisivo del suo crollo nell'Europa orientale.
    Tra i fattori che hanno messo in crisi il sistema, l'Enciclica segnala la violazione sistematica dei diritti umani, soprattutto dei «diritti del lavoro», e solo al secondo posto i gravi insuccessi economici. Ma «la vera causa della novità è però il vuoto spirituale dell'ateismo» (24), e questo è «un monito per quanti, in nome del realismo politico, vogliono bandire dall'arena politica il diritto e la morale» (25).
    Viene fatto anche notare come la ferita del peccato originale sia destinata a frustrare tutti i tentativi di costruire un sistema sociale perfetto che renda impossibile il male» (25): «Le società temporali appartengono alla realtà del tempo, con quanto esso comporta di imperfetto e di provisorio» (25). Naturalmente l'Enciclica mette fortemente in risalto il ruolo svolto in questa crisi dal movimento operaio polacco e i metodi pacifici della sua lotta.
    La crisi ha aperto nuove possibilità per la soluzione dei problemi sociali, ma fa emergere a sua volta nuovi problemi e nuove responsabilità.

    4. La proprietà privata e l'universale destinazione dei beni (nn. 30-43)
    È la parte centrale dell'Enciclica, quella di carattere più propriamente dottrinale: vengono ripresi i temi fondamentali della RN, a partire da quello, solo a prima vista superato, della proprietà privata e dell'universale destinazione dei beni.
    Al seguito della RN, l'Enciclica identifica nel dono di Dio Creatore e nel lavoro umano la vera origine della proprietà privata, e affronta così il tema del lavoro come fattore produttivo, associandovi peraltro l'iniziativa e le «capacità imprenditoriali» e soprattutto «la tecnica e il sapere», diventate ormai il fattore di gran lunga più decisivo della produzione e dello sviluppo.
    E c'è a questo punto una prima valutazione nei confronti di quella che l'Enciclica chiama «economia d'impresa e di libera iniziativa», di cui vengono indicati aspetti positivi e limitati; subito dopo un analogo giudizio viene dato nei confronti del mercato, struttura insostituibile di raccordo tra la produzione e i bisogni, ma struttura bisognosa di un orientamento etico; anche nei confronti del profitto, l'Enciclica ne riconosce la funzione positiva, ma anche la necessità di una sua subordinazione all'uomo e quindi «ad altri fattori umani e morali» (33-34).
    Proprietà privata, economia d'impresa, libero mercato e profitto insieme fanno il capitalismo: dunque il temuto giudizio sul capitalismo si può riassumere in un «sì, ma...», un giudizio positivo ma con riserva. È lo stesso giudizio già contenuto, magari solo implicitamente, in altri documenti precedenti del magistero ed espresso più avanti con un altro paradigma linguistico che sottolinea l'ambiguità dello stesso termine «capitalismo»: alla domanda se esso sia il sistema da proporre ai Paesi del terzo mondo che cercano la via del vero progresso economico e civile, risponde: «Se con il capitalismo si indica un sistema che riconosce il ruolo fondamentale e positivo dell'impresa, del mercato... la risposta è certamente positiva... Ma se con «capitalismo» si intende un sistema in cui la libertà del settore dell'economia non è inquadrata in un solido contesto giuridico che la metta al servizio della libertà umana integrale... allora la risposta è decisamente negativa» (42).
    Non è naturalmente un giudizio teoretico, ma un appello a eliminare gli aspetti negativi del sistema. Tra questi aspetti vi è il consumismo, di cui l'Enciclica mette in rilievo, più che le cause legate ai dinamismi del sistema economico, quelle dovute alla cultura soggiacente: «Attraverso le scelte di produzione e di consumo si manifesta una determinata cultura, come concezione globale della vita» (36).
    Un altro aspetto negativo è la degradazione dell'ambiente naturale (ma l'Enciclica sottolinea che accanto a quello naturale, non meno esposto al pericolo di un degrado inarrestabile è l'ambiente umano, e parla della necessità di una «ecologia umana» (36-39).

    5. Stato e cultura (nn. 44-52)
    Il quinto capitolo è dedicato ai problemi più direttamente politici, della organizzazione dello stato. Il giudizio positivo sulle istanze di partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica (e perciò su una qualche forma di democrazia sostanziale) è molto più incondizionato di quello sul capitalismo.
    Ma l'Enciclica tiene ad affermare che la composizione pacifica delle diverse posizioni ideologiche all'interno di una società democratica non comporta nessuna relativizzazione della verità, anzi presuppone la fede in un criterio oggettivo di bene e di male.

    6. L'uomo è la vita della Chiesa (nn. 53-62)
    Quest'ultima parte, riprendendo, nel titolo, un tema caro a Giovanni Paolo II, tratta della dottrina sociale della Chiesa in quanto tale, da un punto di vista epistemologico: come già nella Sollecitudo Rei Socialis, essa è vista all'interno della missione evangelizzatrice della Chiesa; è evangeli77a7ione che prende sul serio l'uomo concreto cui si rivolge: «L'amore per l'uomo si fa concreto nella promozione della giustizia» (58).
    Il richiamo al vangelo e alla visione dell'uomo che da esso emerge è d'altra parte il contributo specifico che la Chiesa può dare alla soluzione dei problemi sociali, e la Chiesa ritiene che tale contributo, pur ponendosi al di là della dimensione puramente tecnica dei problemi, sia decisivo e indispensabile.


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