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    Incontro con la politica al femminile



    Intervista a Silva Costa

    (NPG 1991-3/4-84)


    Domanda. Come sei giunta alla politica? È stata una scelta giovanile o maturata in età adulta?
    Risposta. Il mio impegno politico è nato in modo esplicito e più consapevole all'università. Mi ero iscritta nel '68: erano anni in cui tutti eravamo in qualche modo obbligati a confrontarci con le nostre convinzioni culturali e politiche; e poiché il mio carattere era abbastanza «interventista» e non mi sembrava corretto reagire a delle esasperazioni (sicuramente nel movimento studentesco c'era un po' di tutto, ma prevaleva la cultura marxista e anche una cultura di grave intolleranza ideologica, un certo tentativo di sopraffare le voci diverse), questo ha creato in me un meccanismo di ribellione.
    Così con un gruppo di ragazzi, senza alcuna affiliazione partitica, cominciammo ad interessarci esplicitamente di politica, semplicemente perché ritenevamo importante che ci fosse anche la nostra voce in questo dibattito.
    Credo che la politica sia arrivata a me più che io alla politica. Però, se ripercorro la mia formazione, anche se uscivo da un liceo «apparentemente neutrale», direi che in casa mia c'è sempre stata molta attenzione al dibattito politico, almeno sotto il profilo della battaglia delle idee e dal punto di vista dei valori a confronto. Mio padre è un cattolico liberale, antifascista, che ha le sue convinzioni e che con il quale sono stata abituata a discutere, però la mia scelta è stata più verso l'area dei cattolici democratici, perché mi sembrava importante coniugare la battaglia delle idee, il valore della persona, la libertà, la democrazia, con i valori del solidarismo (facevo anche del volontariato).
    Quindi è stata una via molto personale, un po' solitaria, nel senso di non avere troppi riferimenti dal punto di vista né organizzativi, né di persone, ecc., e allo stesso tempo un percorso che è stato anche tipico della mia generazione, perché ci siamo trovati in un momento di grande crisi degli organismi tradizionali di militanza giovanile, anche nella Chiesa, ma anche di crisi o difficoltà generale di tutti i partiti, soprattutto la Democrazia Cristiana.
    All'inizio ero reticente all'impegno nel partito, che poi è nato col tempo: mi interessava l'impegno politico, non la militanza partitica.

    D. Ci sono stati degli incontri significativi che ti hanno particolarmente sollecitata o stimolata?
    R. Ci sono sempre degli incontri significativi: forse non per decidere il valore che tu dai alla politica, ma per decidere quanto questa comincerà poi a far parte in modo sostanziale della tua vita anche come impegno para- professionale .
    In quel periodo ho incontrato un gruppo di ragazzi cattolici che facevano militanza e piano piano si avvicinavano all'area della DC, senza però essere iscritti: e avevano come punto di riferimento il settimanale «La discussione», allora diretto da Ciccardini. Ho avuto questo incontro con Ciccardini che era sicuramente una persona piena di idee, molto disponibile verso i giovani e anche colta. Questa è stata una scoperta piacevole, rispetto a un modo caricaturale di pensare la DC, che mi sembrava più attenta alla gestione che al pensiero. Questo il primo incontro.
    Il secondo è stato il Movimento Femminile Nazionale, in particolare con figure come la Falcucci, l'Anselmi, la Martini, la Ceccatelli: persone che mi hanno dimostrato che l'impegno in politica può avere una valenza soprattutto valoriale e anche di grande coerenza, non di compromesso financo morale.
    Difatti il mio impegno più diretto in politica (dopo essere stata eletta incaricata nazionale per le ragazze del Movimento Femminile) è stato quando il Movimento mi ha chiesto («per dare testimonianza», mi hanno detto) di candidarmi al Comune di Roma: se non ci fosse stato, probabilmente non farei politica tempo pieno, come oggi sto facendo.

    D. Come valuti oggi i messaggi educativi che ti hanno trasmesso, in riferimento alla educazione alla politica, nel periodo della tua giovinezza, dentro l'area ecclesiale?
    R. Io sono stata formata a valori che definisco della tradizione cattolico-liberale, quindi non integralista. Però ho sempre avuto poca disponibilità all'appartenenza di gruppo all'interno della realtà ecclesiale, perché ho sempre ritenuto 1'Ecclesìa un'assemblea, un punto di riferimento comune, per tutti, e non amavo molto la stretta appartenenza a un gruppo all'interno della chiesa: questo infatti molto spesso sfociava in forme di autosufficienza di un gruppo rispetto agli altri e qualche volta di concorrenza. Ogni gruppo aveva certo un suo carisma, che per me sottolineava un aspetto importante del messaggio, ma non era tutto.
    Un altro motivo è che ho sempre avuto come riferimento nella mia vita, anche come cattolica, alcune figure di sacerdoti, di persone che stimavo, che appartenevano a vari gruppi, piuttosto che entrare in modo organico all'interno di essi. Questa è una mia piccola anarchia!

    D. La tua esperienza di politica a quale comprensione di essa ti ha portata?
    R. Anzitutto alla convinzione che tu puoi anche non occuparti di politica, ma che la politica si occupa di te: e quindi conviene almeno essere consapevoli dei valori in gioco.
    In secondo luogo, che ci sono tanti modi di far politica senza necessariamente fare attività di partito o fare di questo la dimensione principale della propria vita.
    In terzo luogo, che la politica è un dovere, nel senso che non è possibile lasciare che gli avvenimenti capitino o le scelte siano fatte senza di te o contro di te, comunque a tua insaputa. Certo, una cosa è l'impegno politico, un'altra cosa è la partitocrazia. Io sono decisamente anti-partitocrazia.
    Ritengo che ci sia in Italia una overdose di presenza partitica ovunque, e che la crisi della politica in Italia abbia alla base questa espansione a macchia d'olio dei partiti. Ciò è il sintomo che si è smarrito il senso della politica.
    Credo che oggi il problema sia riportare a una distinzione fra società civile, con la sua ricchezza e il suo pluralismo «naturale», e la politica attraverso i partiti (momento del governo, dell'organizzazione), ma soprattutto liberare le istituzioni dall'invadenza dei partiti. Quindi per me oggi far politica significa continuamente rimandare alla distinzione che ci deve essere tra il dovere che hanno i partiti e i diritti della società civile, e dunque richiamare costantemente l'imparzialità delle istituzioni.

    D. È possibile ritrovare una possibilità di contatto tra queste due politiche, quella, se si può dire, con la «P» maiuscola e quella di tipo partitico e istituzionale?
    R. È possibile se se ne individuano bene i limiti. I partiti si stanno comportando come i «padroni» delle istituzioni, mentre dovrebbero essere al servizio del canale di trasmissione fra volontà popolare e istituzioni.
    Ci deve essere una differenza tra lo stato e il governo. Il governo è il momento dell'indirizzo, del coordinamento e della scelta politica, dove i partiti hanno necessità di essere rappresentati. Le istituzioni devono essere affidate a coloro che interpretano soltanto, una volta definite le scelte, i diritti-doveri nei confronti dei cittadini. Dovranno quindi essere a servizio dei cittadini in modo imparziale. Questa distinzione è fondamentale.

    D. Come viene vissuto nella tua vita il rapporto tra impegno politico e vita credente?
    R. È un equilibrio molto dinamico: non esiste una formula magica per conciliare i due aspetti.
    Il fatto di essere credente, intanto, è una sorta di marcia in più che dà all'impegno politico, perché se questo è fatto soltanto in vista di risultati pragmatici, molto spesso lo sconforto potrebbe essere tale da... invitare a tirarsi indietro; se invece si sente che questo è un dovere e una testimonianza, allora la fede sorregge.
    Dal punto di vista dei valori io molto spesso mi sono trovata nella difficoltà da un lato di testimoniare alcuni valori, sentendo però che questi erano minoranza culturale nel Paese e in Parlamento, e nel dovere di accettare democraticamente le decisioni della maggioranza, che non andavano nella direzione della difesa di questi valori. Questo è forse il momento più difficile nella mia vita.
    Tuttavia (e non so se questa è presunzione o «senso profetico») ho sempre la sensazione che ci sarà un giorno in cui ci si renderà conto che senza quei valori anche chi non crede rischia di essere travolto. È dunque questa sensazione, a metà tra speranza e profezia, che forse sorregge il fatto di accettare dei passaggi difficili. Solo un esempio, sul tema della famiglia. C'è oggi un grosso ripensamento, anche in casa laicista, che fa ben sperare. È molto importante però che questa riscoperta dei valori sia autentica, e non soltanto la riscoperta della famiglia «rifugio» rispetto all'invadenza del pubblico. Ma questa è una questione sempre difficile.

    D. L'essere cristiana ti ha aiutata in qualche modo nella politica? O ci sono state anche delle esperienze negative?
    R. Moltissimo. Credo che in un certo senso la politica mi rimanda continuamente alla verifica della mia fede. Se non avessi un certo tipo di convinzione, talvolta sarei molto più indisponibile a un impegno che è molto faticoso e richiede sacrificio.
    Il fatto di essere credente molto spesso mi fa interrogare (deve farlo, se no è ipocrisia) su un punto che di questi tempi, in questo intreccio crescente tra affari e politica, è un grave problema: fino a che punto la testimonianza di persone che cercano di mantenersi «pulite», di fronte a colleghi che usano metodi molto diversi, a volte ritenuti anche funzionali al sistema, è un elemento di speranza, positività, a volte anche di riferimento per la gente? o da che momento invece questo non può diventare una forma indiretta di complicità? Spesso mi pongo questo problema: è sufficiente essere «diversi» oppure ci deve essere il momento di una distinzione drastica, di dichiarazione di «incompatibilità»? Però questo avviene in tali e tanti ambiti di vita personale e sociale in cui bisogna decidere e schierarsi, che fa parte della vita stessa. Questo è per me l'interrogativo a volte più drammatico.
    Come risposta che mi do personalmente, in tutte le occasioni in cui posso, testimonio questa «diversità»; però sento che in tanti momenti è un problema crescente, non facilmente risolto.

    D. I mille fatti di imbarbarimento della vita e progettualità politica, come sono interpretati dalla tua coscienza di credente?
    R. Dal punto di vista della mia convinzione politica mi sforzo sempre di distinguere. Qualcuno diceva che la nostra è una società dominata dal rumore. Cerco allora di abbassare questo rumore di fondo, che è molto spesso l'intrigo, lo scandalismo senza fondamento, i processi sommari: cerco di uscire da questo e di ottenere quegli elementi di conoscenza per distinguere ciò che è strumentale da ciò che è reale e cercare di arrivare alla verità, che non è quella dei processi sommari. È uno sforzo continuo di selezione delle informazioni, molto faticoso. Politicamente io mi ribello a questa che talvolta vedo come «campagna orchestrata», senza perdere di vista però che bisogna anche avere il coraggio, quando ci sono delle prove evidenti, di chiamare le responsabilità con nome e cognome.
    Dal punto di vista di credente credo che, non perché si è fatalisti, ma provvidenzialisti, la verità finirà per prevalere, e quindi l'importante è credere in tutti gli sforzi, per quanto approssimativi, per farla venire fuori.

    D. Sei d'accordo sulla stanchezza della gente per la politica? E questo dato ti porta ugualmente a sperare, a fare politica in modo diverso?
    R. Certo, la gente vede la politica nelle sue forme più deteriori. Anzi, sono sicura che per certi versi si è toccato il fondo, e che quindi non si può che risalire. Credo anche che queste aperte e diversificate denunce, dalla rete di Orlando alle Leghe del Nord, non devono essere vissute o demonizzandole o chiudendosi in un fortilizio o in un «deserto dei Tartari», ma capendo che o si modifica in fretta questo stato di cose, cioè questo intreccio tra partiti, istituzioni e affari, o la gente giustamente farà a meno non della politica, ma di questi partiti.

    D. Che tipo di formazione vorresti dare a un giovane?
    R. La mia generazione ha studiato troppa sociologia e poca storia. La prima cosa, credo, è una buona formazione storica; e trovo gravissimo che nella scuola non si studi né la costituzione italiana, né filosofia del diritto, né diritto; e quindi si rischia di arrivare a una conoscenza approfondita di una singola professione, ma non a quella consapevolezza storica e civica che fa della persona un cittadino completo, quindi non in balla delle ricostruzioni o delle suggestioni di chiunque.

    D. È stato difficile, come «cattolica democristiana», fare politica?
    R. Oggi certamente meno di prima. Fino agli anni Settanta molto spesso nei dibattiti venivamo azzittiti proprio perché «cattolici».
    Ricordo un dibattito tremendo sulla 194 con dei radicali, proprio sul loro terreno. Dissi che mi rifiutavo di parlare come cattolica, ma che parlavo come persona che comunque si riconosceva nella Costituzione, mentre - dicevo loro - essi stavano sopprimendo uno dei diritti inalienabili della persona umana, perché il mio approccio, secondo loro riduttivo, senza senso dello stato, con un prevalere della fede rivelata su un fatto di «verità oggettiva sull'uomo», veniva effettivamente fatto oggetto di una forma di ghettizzazione spaventosa.
    Oggi, di fronte alla caduta delle ideologie che si pensava sistemassero e spiegassero tutto il mondo, il valore cristiano sembra ormai l'unico riferimento di libertà: cioè un valore che da una parte «àncora», non lascia in balia del nulla, ma sempre di libertà, perché non è una configurazione sociologica, culturale o politica precisa, ma ispira con i suoi valori di riferimento.
    Sono convinta che oggi l'errore più grande che potremmo fare sia da una parte quello dell'integralismo, che rischia di sottolineare, con un certo senso di sopraffazione e superbia, la diversità e la superiorità, e dall'altra l'agnosticismo, cioè il ridurre il dato valoriale cristiano quasi a un fatto intimistico.
    Oggi nella politica c'è bisogno di riproporre quesiti condivisibili da tutti, è il momento di ricostruire un minimo comune etico condivisibile, e sono convinta che è il momento giusto: l'ho visto su alcuni problemi, quello dei minori, la comunicazione e i tipi di valore da rispettare, la reciprocità tra diritti e doveri...

    D. Come concili la tua vita politica con la famiglia?
    R. Solo una battuta: io fino a qualche tempo fa, zitella, sono stata sempre letteralmente incalzata dalla domanda tipica: «Ma come fa a conciliare la sua vita da politica con la famiglia?». E io rispondevo: «Scusate, io sono zitella; cioè vivo come mia sorella che è impegnata in altre cose; ho sempre una mamma che mi aiuta moltissimo... Ma chiedetelo invece al mio collega maschio che ha quattro figli...».
    Diciamo adesso che lo concilio male come tutti, nel senso che non sono assolutamente soddisfatta. Mi sono sempre più convinta che il problema non è tanto di conciliare gli orari, ma di essere in armonia sui valori. Se c'è da parte del partner la condivisione non solo delle idee ma del valore che si dà a quello che si fa, tutto si concilia; se non c'è, sono problemi.
    Anche per la mia vita personale vale questo principio, ora che sono sposata. E in più vi è quasi da parte dell'altro come un richiamo da «voce della coscienza», che mi ricorda continuamente che ho dei doveri verso di me e verso la mia famiglia, e che non posso farmi «cannibalizzare» dagli altri.
    Perché il politico oggi è vissuto come il medico che ha la reperibilità sempre e comunque, e con quella specie di «ricatto» del voto che il cittadino mi ha dato e che quindi ha dei diritti sopra di me. Questo lo capisco nel senso democratico, nel senso del diritto di impegnarmi su alcune cose, ma non nel senso della padronanza sulla mia vita. Perché in fondo c'è dell'assurdo in tutto ciò: c'è una domanda iperpersonale, di parzialità, mentre invece è poverissima per quello che riguarda le questioni.
    Penso che invece è importante informare e formare il cittadino soprattutto sulle questioni che riguardano tutti.

    (Lavoro redazionale di Fatima Lucarini)


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