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    Educare alla fede con un occhio alla politica



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1991-3/4-131)


    Non studio direttamente il rapporto tra fede e politica. E nemmeno mi chiedo come il credente sia chiamato a vivere l'impegno politico. Il tema è importante e, per alcuni aspetti, pregiudiziale: è già affrontato in altri contributi.
    Cerco invece di comprendere fino a che punto sia necessario assumere la sensibilità politica nei compiti specifici della pastorale giovanile e, soprattutto, cosa comporti concretamente questa assunzione. Ripenso ai modelli correnti di pastorale giovanile a partire dalla sensibilità politica acquisita.
    Non ho la pretesa di chiarire a puntino i grossi problemi che evocherò; né tanto meno quella più pericolosa di dire cosa fare e cosa evitare.
    Voglio solo sollecitare a riflettere, magari lanciando qualche provocazione, in un ambito che stimo decisivo per un annuncio evangelico dell'amore di Dio che salva.

    PLURALITÀ DI MODELLI

    Su un dato siamo ormai tutti abbastanza d'accordo: l'attenzione alla dimensione politica nella pastorale è un problema importante e non è possibile immaginare un'oasi felice dove non risuoni con tutta la forza provocatoria di cui è carico.
    Questo consenso generalizzato si frantuma però in modi di fare molto differenti. Le stesse espressioni portano a scelte concrete assai diverse.
    Per intenderci, devo cercare di chiarire le posizioni.

    Punti di riferimento

    Propongo prima di tutto alcune considerazioni teoriche. Hanno l'unica funzione di ricordare che i modelli pratici sono diversi proprio perché a monte c'è un dato teorico di non facile soluzione. Anche in questo campo il pluralismo è segno del limite invalicabile di ogni parola umana rispetto all'evento che vuole esprimere.

    Distinzione
    Pastorale e politica non sono la stessa cosa. I due processi sono segnati da diversità sostanziali: riguardano l'obiettivo e le rispettive procedure logiche.
    La politica si interessa della gestione del potere per la creazione di condizioni oggettive che consentano a tutti la realizzazione del proprio destino.
    L'educazione politica è un suo momento. Essa si configura come un'attività intenzionalmente svolta a sviluppare la dimensione etica, sociale, civica e politica della personalità giovanile, in vista della creazione di conoscenze, di motivazioni e di capacità relative alla partecipazione alla vita politica: capacità di capire e porsi in relazioni costruttive, di integrare e interiorizzare i valori dell'"altro", di costruire una struttura di valori fondati sul concreto dell'esperienza storica (libertà, solidarietà, responsabilità verso il territorio e l'ambiente).
    Come ogni processo educativo, essa ha a che fare con i valori e la loro proposta. L'una e gli altri sono però finalizzati alla costruzione di una qualità più umana di esistenza, nel concreto della storia personale e collettiva.
    La pastorale invece ha come oggetto la proposta, esplicita e tematica, dell'evangelo del Signore, per sollecitare alla sua accoglienza, come unico e fondamentale evento di salvezza. Assolve questo compito utilizzando una struttura comunicativa tutta speciale: la testimonianza della fede vissuta e confessata.

    Punti di convergenza
    Tra politica, educazione politica e pastorale sono però innegabili anche le interferenze e i punti di convergenza. Comune è infatti soggetto, agente, ambiente: nessuno può presumere di sottrarsi totalmente a quella trama in cui si svolge la gestione del potere e la creazione di condizioni che permettano una buona qualità di vita.
    L'obiettivo della pastorale copre un ambito che risulta comune all'educazione e alla politica, per la fondamentale dimensione storica e globale che possiede la salvezza in Gesù Cristo.
    Anche nell'esercizio tipico delle sue funzioni (quando cioè si fa catechesi ed evangelizzazione, sono celebrati l'eucaristia e i sacramenti, ci si misura sulla Parola di Dio), la pastorale utilizza metodi e modelli che hanno sempre una chiara risonanza politica. I riti liturgici, le strutture ecclesiali, i temi e i contenuti in cui si svolge l'evangelizzazione, tutta la vita della Chiesa, in una parola, si muovono all'interno di modelli antropologici che esprimono una visione d'uomo, di società e di storia. Di conseguenza, sono di fatto condizionati e possono condizionare politicamente.
    Non sto dicendo che tutto si riduce a dinamismi umani. È importante riconoscere che siamo in presenza di eventi salvifici, che si portano dentro, in modo misterioso ed efficace, la potenza di Dio. Sto solo riconoscendo la profonda interdipendenza tra azione di Dio ed espressioni umane in cui essa prende carne.

    Modelli ricorrenti

    Chi fa pastorale compie, nello stesso gesto, un atto che è al di fuori di ogni processo politico, perché riguarda la definitività dell'esistenza umana, e contemporaneamente attraversa e investe la prassi politica e la sua educazione, perché si esprime nella storicità e nella contingenza.
    La fatica di coniugare nel concreto diversità e convergenza dà origine ad una larga pluralità di modelli operativi. La loro descrizione sul piano dei fatti diventerebbe lunga e, alla fine, abbastanza inutile, perché espressa in episodi e frammenti difficilmente generalizzabili.
    Per dare coscienza riflessa dell'esistente e per ricordare l'opzione in cui intendo muovermi, suggerisco una mia ipotesi di lettura, privilegiando alcune linee di tendenza.

    Il modello tradizionale: dalla dipendenza all'integrismo
    Il modello teologico che per tanto tempo ha dominato il dibattito circa il rapporto tra fede e politica, propone una prospettiva di netta dipendenza: l'atto pastorale "comanda" all'atto politico sia nelle procedure che nelle strumentazioni.
    In questa logica sono riconoscibili differenti posizioni concrete.
    - La posizione tradizionale rifiuta nettamente ogni commistione con la politica, denunciata perentoriamente nei suoi limiti. Si afferma che l'educazione alla fede e la vita ecclesiale va collocata sopra le parti. Una formula, frequentemente ripetuta, dichiara che la Chiesa è competente solo nella "politica del Padre nostro". Di fatto poi questa affermata neutralità risulta impossibile. E così capita che la gestione ordinaria della prassi pastorale risente fortemente di precisi influssi politici.
    - Un altro modo di vedere le cose è quello in cui problemi e soluzioni sono considerati a partire solo dal versante etico e con accenti prevalentemente religiosi. Alla radice di questa posizione sta l'atteggiamento di chi considera tutto sempre e solo nell'orizzonte del definitivo. Per questo, anche i temi tipici della prassi politica (autorità, gestione del potere, problemi di trasformazione sociale, interventi da programmare...) sono espressi in quel linguaggio sicuro e forte, tutto proiettato verso l'assoluto e il futuro, che è tipico di chi, come il cristiano, è abituato a vedere le cose dalla parte del definitivo, anche quando è costretto a fare i conti con il provvisorio e lo storico.
    - La posizione "integralista" prende sul serio la prassi politica, ma deriva la qualità e il modo storico dell'impegno politico dalla Rivelazione e dalle sue formulazioni teologiche, quasi che tutto ciò contenesse un messaggio politico immediato e un preciso modello di società.

    Il modello della separazione
    Questi modi di fare sono entrati decisamente in crisi, nell'onda del rinnovamento suscitato dal Concilio e sotto la pressione della secolarizzazione montante.
    La ricerca di modalità nuove per coniugare il rapporto tra pastorale e politica, ha spinto alcuni cristiani a riscoprire la "teologia dialettica". È sorto così un modello che distingue drasticamente il momento politico da quello pastorale. Alla base di questa concezione sta l'affermata irriducibilità del mondo della fede con il mondo profano e la costatazione teologica che nella Rivelazione c'è solo un discorso soteriologico.
    È tipico di questa logica il riferimento alla fede e alle sue manifestazioni come "inutili" rispetto alla prassi politica; e proprio per questo "necessarie" per la pienezza e l'integrità dell'esistenza.
    L'esperienza di fede viene così collocata in un orizzonte autonomo e indipendente rispetto alla trama delle vicende culturali e politiche. Dà una ispirazione e una speranza illimitata, che rende l'uomo disposto a tutto, per costruire cultura e strutture nuove, pur lasciandolo totalmente autonomo e disincantato, nell'esercizio pratico della prassi politica.
    Questo modello ha rappresentato, negli anni del dopoconcilio, il punto di riferimento di tanti cristiani, impegnati in politica: alla ricerca di un modo di essere e di operare, capace di riconciliare fede e prassi, senza ricreare indebite e ingiuste dipendenze. Ha segnato notevolmente il modo di fare pastorale: per il fascino di cui è carico, per l'autorevolezza dei suoi propositori e per l'incidenza della sua proposta, facilmente verificabile.
    Molti movimenti ecclesiali di forte carica spirituale si ispirano largamente a questo modello.

    Il modello politico
    Come reazione al modello tradizionale e per superare i limiti del modello dialettico, soprattutto nel tempo del primo fervore politico, alcuni operatori di pastorale giovanile hanno impresso alla azione ecclesiale una forte accentuazione politica, fino ad affermare il primato del politico, compreso in termini di totale autonomia, sul pastorale.
    In questa ipotesi chi fa pastorale mette al centro dei suoi impegni e della sua passione la prassi politica nelle sue dimensioni più immediate e concrete, nella convinzione che il rapporto tra pastorale e politica è così stretto che i compiti della pastorale sono già egregiamente assolti quando si realizza una corretta trasformazione politica.
    È facile contestare a questo modello il rischio di essere gravemente riduttivo, dimenticando magari che anche nei modelli precedenti la stessa tentazione era già presente, anche se in una direzione opposta.
    Eccetto che in alcune posizioni più radicali, la distinzione tra pastorale e politica è presente sul piano formale. Viene messa un po' tra parentesi nel ritmo concreto dell'azione.
    Un esempio tipico è quello relativo al modo di interpretare e di nominare i fatti e i problemi.
    Tutti sanno che le cose si portano dentro un mistero più grande. Lo chiamiamo di solito con i nomi rivelati della nostra esperienza credente: presenza di Dio, peccato, salvezza, fede. Su esso la pastorale gioca le sue preoccupazioni e le sue operazioni.
    Questa dimensione profonda è immersa però in dati e fatti sperimentabili e manipolabili, in cui sono in gioco responsabilità precise e concrete. Qui è indispensabile chiamare le cose con i loro nomi, accettare i ritmi e i tempi dei normali processi evolutivi, programmare con serietà e competenza gli interventi adeguati.
    Per questa ragione pratica, i difensori del modello preferiscono superare il linguaggio "religioso" per assumerne uno più vitale e provocante. Realizzata così, la pastorale giovanile possiede una intensa carica di coinvolgimento. Diventa aggressiva e inquietante. Crea una gerarchia di preoccupazioni e di esigenze, diversa da quella tradizionale. Molti problemi religiosi passano in secondo piano, per fare spazio ad altri, vissuti come più urgenti. La risonanza politica attraversa anche i gesti ritenuti abitualmente più "sacri" (eucaristia, salvezza, Parola di Dio...).

    La prospettiva dell'Incarnazione
    In questi anni, soprattutto sotto la sollecitazione preziosa del "Il rinnovamento della catechesi" (Roma 1970), molti operatori di pastorale hanno cercato di ricomprendere il rapporto tra pastorale e politica dalla prospettiva dell'Incarnazione. E questo ha aperto orizzonti nuovi e stimolanti, proprio nella fatica di elaborare un modello alternativo ai precedenti.
    Alla radice sta un modo nuovo di esprimere l'evento fondamentale della salvezza di Dio che Gesù dona all'uomo e alla storia.
    Non ci spendo parole perché tutta la proposta che segue assume e sviluppo la prospettiva.

    UN MODELLO DI EDUCAZIONE ALLA FEDE

    Nell'attuale vissuto ecclesiale i modelli descritti non rappresentano solo uno spaccato progressivo di storia recente. Con toni e accentuazioni diverse sono presenti contemporaneamente nella prassi corrente. Tutto questo mostra quanto la neutralità sia impossibile e come sia urgente, di conseguenza, continuare seriamente la ricerca, per trovare criteri con cui districarsi nel pluralismo e da cui procedere verso ipotesi nuove.
    Nella logica dell'ultimo modello accennato nella rassegna, suggerisco alcuni punti di riferimento di una proposta di educazione alla fede dei giovani, politicamente collocata.

    Riformulare l'obiettivo dalla parte della salvezza cristiana

    Il primo elemento da considerare è quello relativo alla definizione dell'obiettivo. Da questa prospettiva prende origine infatti la diversità dei modelli ricordati.
    Pastorale è, come sappiamo, l'insieme delle azioni che la comunità ecclesiale pone nel tempo per realizzare la salvezza di Dio in Gesù Cristo.
    La pastorale si misura sulla salvezza: ne denuncia l'attesa radicale nell'esperienza umana e si impegna ad attuarla, ponendone i gesti e le parole.
    Spesso ci siamo chiesti a quale figura di salvezza la pastorale si ispira.
    La fatica e le tensioni di questi ultimi anni ci permettono di parlare oggi di salvezza con una forte maturità acquisita. Molte differenze attraversano però ancora l'esperienza ecclesiale. Sono il segno eloquente della povertà delle nostre espressioni rispetto alla grandezza dell'evento. Ma sono anche l'esito dei modelli antropologici in cui esprimiamo la nostra fede e la nostra speranza. Sono quindi, in qualche modo, la manifestazione della nostra collocazione politica.
    A partire da questa consapevolezza, faccio la mia proposta.

    Parlare di salvezza in un mondo minacciato
    Siamo gente minacciata da una grande pervasiva paura, che vive in un mondo minacciato.
    Abbiamo davanti un futuro molto incerto. E costatiamo tutti i giorni la caduta di responsabilità che attraversa la nostra esistenza, impegnati come siamo, nell'egoismo del possesso, a ricacciare ai margini della sopravvivenza tanti uomini per non dover dividere con altri le risorse che sembrano ormai insufficienti per tutti. Come sempre, in questa logica ne fanno le spese i più poveri: quelli che soffrono di più della ingiusta distribuzione delle risorse e dello stato di degrado in cui abbiamo cacciato questo nostro mondo.
    I cristiani sono per vocazione gli annunciatori della speranza, perché testimoni della passione di Dio per la vita di tutti;
    Possiamo proclamare ancora la bella notizia della salvezza o dobbiamo imparare a tacere, collocando magari la nostra speranza fuori dalla vita e dalla storia?

    Il punto di riferimento: la salvezza definitiva
    L'impegno centrale e originale della comunità ecclesiale è costituito dall'annuncio e dalla esperienza che solo immergendoci nel mistero santo di Dio e accogliendo un dono tutto proiettato verso il futuro, possiamo essere pienamente uomini.
    La salvezza di Dio è pienezza di vita. Essa ci raggiunge nell'incontro sconvolgente con il Crocifisso risorto e ci investe solo se accettiamo di consegnare a Dio la nostra fame di vita e di autenticità.
    È davvero importante non dimenticarlo, per non correre il rischio di intristire nella nostra presunzione e nel nostro peccato: non possiamo certamente assicurare vita e salvezza solo raffinando l'esercizio della nostra disponibilità politica, come non basta cambiare le strutture e i regimi per ridare speranza all'uomo minacciato.
    La comunità ecclesiale serve questo progetto di salvezza, accettando un confronto con i molti profeti di vita, che rilancia la speranza oltre il confine delle nostre attese e delle nostre esperienze.

    L'attenzione alla vita quotidiana e alla storia profana
    Questa salvezza però percorre, come in una misteriosa filigrana, la storia quotidiana. Si fa dentro di essa: in una trama che ricollega intensamente la nostra personale storia a quella di tutti gli uomini (soprattutto dei più poveri tra essi). Potrà esplodere in pienezza solo se è stata faticosamente seminata nelle lacrime e nella fatica della vita quotidiana.
    La comunità ecclesiale, impegnata per attuare la salvezza di Dio, grida forte, nella memoria e nella profezia, che la vita di tutti è la sua grande passione. Essa esiste perché tutti abbiano vita e l'abbiano in abbondanza soprattutto coloro a cui è stata più violentemente sottratta.
    Di questa vita e della storia in cui si svolge dà le coordinate di fondo, suggerendo il punto di partenza e l'esito finale, proprio mentre sollecita ogni credente ad investire sulla sua attuazione libertà e responsabilità in piena autonomia e in una compagnia che si allarga verso tutti coloro che stanno dalla parte della vita.
    Per questo, ogni gesto pastorale, anche quelli più squisitamente spalancati verso la definitività, è tutto intriso di quotidianità.

    Una sensibilità raffinata verso il futuro per giudicare coraggiosamente il presente
    Colui che fa esperienza della salvezza di Dio e si sente immerso nella pace del perdono e dell'amore, ha sempre un cuore affamato di giustizia. Dio ci dà la sua pace, perché diventiamo operatori di pace. Per questo, il credente soffre più dolorosamente l'ingiustizia e lotta più intensamente per il suo superamento, in una grande esperienza di speranza.
    La comunità ecclesiale condivide la storia e la vita di tutti, per gridare, a parole e con i fatti, dal suo interno la grande promessa di Dio, che la riguarda direttamente: "Fra poco farò qualcosa di nuovo. Anzi ho già incominciato. Non ve ne accorgete?" (Is 43, 18-19).
    Essa chiama alla conversione: la ricostruzione, piena e progressiva, di quanto abbiamo distrutto in un uso suicida della nostra libertà e responsabilità. Dà il suo contributo all'impegno comune, provocando all'invenzione di cose nuove: i cieli nuovi e la nuova terra sono un'esperienza del futuro. Possiamo costruire un presente in cui il povero e l'oppresso possa finalmente abitare una casa di speranza, proprio perché contestiamo il passato. E possiamo giocare tutte le risorse, perché crediamo al futuro di Dio: perché camminiamo e viviamo "sotto la promessa".

    La scelta dei poveri come destinatari privilegiati

    Come conseguenza del carattere pasquale dell'obiettivo, nasce il secondo punto di riferimento: la comunità ecclesiale, impegnata ad attuare la salvezza di Dio nel tempo, facendo passare tutti da morte a vita, è sollecitata immediatamente alla scelta dei "destinatari" da privilegiare.
    L'espressione va compresa bene: dal punto di vista formale (cosa significa "destinatari") e dal punto di vista sostanziale (chi sono in concreto questi ipotetici destinatari). Da questa doppia precisazione si consolida un modo concreto di comprendere il rapporto tra politica e pastorale.

    I giovani come "luogo ermeneutico"
    Facendo pastorale, la comunità ecclesiale considera i giovani come figli che ha generato alla vita e vuole riconsegnare a pienezza di vita.
    Questo è pacifico.
    Essi sono il punto d'arrivo delle sue preoccupazioni o il luogo in cui esse si concretizzano? Sono "destinazione" o "luogo ermeneutico"?
    La questione non è irrilevante.
    Nel primo caso, la comunità ecclesiale ha già un suo progetto, preciso e concluso; e lo offre, superando resistenze con la forza della proposta o adattando quando è opportuno e possibile usare questo stratagemma metodologico. Nel secondo caso, il progetto è da costruire, momento per momento, assumendo la carne quotidiana di coloro con cui si condivide passione e prospettiva. Certo esiste un punto di riferimento normativo, che giudica ogni realizzazione concreta. Esso è prima della proposta; ma diventa sperimentabile dopo, man mano che l'incarnazione in situazione procede.
    Esiste ancora sicuramente una responsabilità educativa e testimoniale: nella comunità ecclesiale che fa pastorale giovanile ci sono adulti in dialogo con giovani. Ma la responsabilità è sempre corresponsabilità operativa, anche se differenziata, per la verità dell'esperienza.
    La mia proposta nasce sulla meditazione dell'evento dell'Incarnazione: nella comprensione della natura teologica della pastorale e, di conseguenza, in ogni modello operativo di pastorale giovanile, la "situazione" (i "destinatari") va considerata luogo ermeneutico: per operare salvezza in situazione, la comunità ecclesiale ricomprende ed esprime il grande avvenimento pasquale nella "carne" concreta dei suoi destinatari.

    Dalla parte degli ultimi
    La seconda annotazione riguarda gli interlocutori da privilegiare. Chi sono i giovani a cui la comunità ecclesiale si rivolge?
    La Chiesa del Concilio ha ricordato a se stessa, senza mezzi termini, la sua responsabilità e passione universale. I giovani di cui si preoccupa, sono "tutti i giovani", con una prospettiva tendenzialmente universale (cf LG 1), che non si accontenta di coloro che accolgono spontaneamente la sua proposta.
    In situazione di pluralismo culturale e di larga frammentazione esistenziale, alle prese con i problemi concreti che ogni dialogo comporta, come dialogare seriamente con tutti?
    La risposta non è indifferente. Riporta verso modelli culturali di grosso peso politico, quelli che decidono le logiche di trasformazione e di incidenza sociale. Chi imprime il corso della storia? Chi conta, di fatto? Da che parte bisogna stare?
    Come si vede, la risposta esprime e genera la qualità della coscienza politica della comunità ecclesiale.
    Questa è la mia ipotesi: per poter realisticamente dialogare con tutti, la comunità ecclesiale cerca continuamente il confronto con gli ultimi e con i più poveri. Essi non rappresentano una categoria alternativa all'universalità: sceglierli, con opzione preferenziale, non significa affidare ad essi quella forza di trasformazione globale che confessiamo esito unico e misterioso della pasqua del Risorto; e neppure indica una esclusione dal sapore un po' razzista, come se bastasse scegliere bene, per poter tagliar fuori qualcuno, a coscienza tranquilla. Gli ultimi e i poveri sono invece l'unica condizione seria per potersi misurare con tutti, nella logica della croce di Gesù, che ha sconfitto la sapienza e il potere, accettando la follia e lo svuotamento radicale.
    Chi privilegia gli ultimi, riconoscendoli come la forza di novità e di futuro per aprirsi a tutti, sceglie una sensibilità politica molto precisa.

    Individuare problemi e prospettive dalla parte degli ultimi
    La scelta degli ultimi per dialogare operativamente con tutti, va operata in quella coscienza ermeneutica di cui dicevo poco sopra.
    Questo significa cogliere i problemi, veri e urgenti, dalla parte dei poveri; e immaginare una figura di cristiano veramente sulla loro taglia. Comporta cioè dire la fede nella carne quotidiana della loro esperienza: senza interpretarli ideologicamente e senza affrettarsi ad abbandonarli, appena sono scattate le prime battute del dialogo.
    Questo è innegabilmente un problema serio. Troppo spesso le comunità ecclesiali decifrano i problemi sulle loro preoccupazioni interne: e così i problemi gravi diventano piccoli, perché quelli insignificanti sono diventati assillanti. Oppure si persegue un modello di vita cristiana e di spiritualità, discriminante e ingiusto, perché ritagliato sulle misure delle élites, con la scusa di dover proporre ideali alti.

    Chiamare per nome gli ultimi
    La scelta degli ultimi richiede il coraggio di identificarli con precisione, chiamando per nome cose e situazioni.
    Anche a questo livello, l'attenzione politica gioca un peso determinante.
    L'opzione per i poveri è una espressione evangelica. Resta proiettata nella profezia e si colloca sopra la cultura. È di fede e non di politica.
    Richiede però una cultura politica per essere detta e vissuta.
    Espressa dentro le parole povere e incerte della nostra quotidianità, si stempera nella relatività, ma diventa dicibile e praticabile. Dire le cose grandi con parole povere e provvisorie è l'unico modo serio e praticabile di esprimersi.
    La comunità ecclesiale sceglie modelli antropologici corretti e incidenti, per dire, nel concreto del qui e ora, la sua opzione pastorale per gli ultimi.
    Quali? Qui è davvero in gioco il rapporto stretto tra fede e politica.

    DIRE DIO NELLA PASSIONE PER LA CAUSA DI GESÙ

    Un terzo ambito di rapporto tra pastorale e politica è costituito dal modo con cui nella comunità ecclesiale "diciamo Dio".
    Il compito è innegabile e qualificante. La comunità ecclesiale offre vita e ragioni di vita, una speranza che investe e attraversa la dura esperienza della morte quotidiana, annunciando con gioia e con fierezza il Dio di Gesù.
    Per farlo ha bisogno di modelli culturali: l'ho appena ricordato. Solo così può dire in parole umane l'indicibile Parola che è Dio.
    Quali?
    È troppo facile parlare di Dio dentro categorie antropologiche discriminanti e oppressive.
    Dio assume così il volto del signorotto rinascimentale, tutto proteso a difendere i suoi diritti. Diventa lontano e impassibile, sprofondato nella sua gloria, insensibile al rumore della lotta e della morte. Svela la sua verità a pochi fortunati, affidando loro un potere discriminante sulle parole degli uomini. Si lascia commuovere solo dai sacrifici e dalle rinunce, fino ad accettare prezzi durissimi per accondiscendere benignamente. Si sbizzarrisce a giudicare e a punire, con lo stile bizzoso che tante volte i fatti lasciano intravedere.
    E posso continuare ad appendere quadretti nella galleria dei volti di Dio, che usiamo nelle nostre catechesi, nelle omelie, nelle celebrazioni liturgiche.
    La fede cristiana capovolge radicalmente la prospettiva. Gesù è il vero volto di Dio. Solo in lui lo conosciamo nel suo mistero più radicale.
    I farisei hanno rifiutato tenacemente questo capovolgimento di prospettive, perché non se la sentivano di mettere sotto discussione il volto di Dio di cui erano testimoni arroganti. Gesù ha lottato fino alla morte di croce per restituire a Dio il suo volto.
    Nella sua testimonianza, Dio è il Dio della vita, disposto a morire perché tutti abbiano vita, quella vera e abbondante che sognano. Si schiera dalla parte della vita, senza essere pregato. E fa passare da morte a vita, in una passione vittoriosa mai spenta.
    Certo, resta un Dio misterioso e ineffabile, le cui parole ci giungono solo dentro le nostre parole umane. Non cerca la convergenza sulle parole e non discrimina i figli suoi sulle parole che essi pronunciano a suo nome.
    Il Dio della libertà vuole figli liberi nello spirito delle beatitudini, capaci di piegare tutta la loro passione al servizio della causa grande del suo Regno.

    L'impegno del cristiano per la costruzione del Regno di Dio

    La figura con cui ho suggerito di comprendere l'obiettivo della pastorale sollecita anche verso un modo rinnovato di pensare e di realizzare i gesti e le celebrazioni della salvezza, quegli eventi che nel linguaggio tradizionale venivano definiti appunto i "mezzi della salvezza": preghiera, sacramenti, celebrazioni...
    La loro risonanza politica non consiste certo in quella politicizzazione esasperata che ha caratterizzato una certa prassi ecclesiale recente. Ma neppure possiamo relegarle in uno spazio asettico e astorico, tutte protese verso la "gloria di Dio".
    Esse sono per la vita dell'uomo, proprio perché sono per la gloria del Dio di Gesù.
    Rilanciano la nostra ricerca di vita e di speranza verso l'oltre della definitività e ancorano la nostra esperienza al mistero di Dio, unico fondamento sicuro di ogni speranza.
    Celebrano il presente dell'uomo per immergerlo nella novità della promessa di Dio. Per questo, contestano ogni pretesa di autosufficienza, assicurano la vittoria della vita sulla morte e inquietano continuamente verso quella novità di vita, che è la grande passione del Dio di Gesù, da riconoscere "già" presente, anche se sotto l'ombra della provvisorietà e della precarietà.

    La costruzione del Regno di Dio tra prassi e celebrazioni
    Il cristiano che pone al centro della sua esperienza credente la costruzione del Regno di Dio, si chiede come e dove concretamente dire tutta la sua passione per la causa di Gesù.
    La coscienza ecclesiale più matura ricorda un dato importante: i diversi gesti che punteggiano l'esistenza di un cristiano non esprimono mai in modo diretto e immediato la scelta di Dio e del suo Regno. Sono collocati sempre nell'ordine simbolico: qualcosa che ha una sua originale consistenza (un pezzo di pane offerto all'affamato o il raccoglimento religioso di una preghiera), che si porta dentro una decisione più grande, con cui ci collochiamo di fronte al mistero di Dio.
    Questi segni non sono tutti eguali.
    Alcuni, quelli in cui il cristiano si sottrae al ritmo normale della sua vita operosa e si concentra nell'ascolto del suo Dio, servono a ricordare a tutti la radicalità e totale gratuità del dono. Sono i tempi in cui ci si immerge nella grande festa della preghiera e delle celebrazioni liturgiche, che fanno pregustare nella speranza il Regno promesso.
    La prassi operosa dell'uomo esprime invece direttamente la nostra responsabilità nella costruzione del Regno di Dio. Sono il tempo della lotta e della fatica, quando costruiamo vita e speranza con il sudore della nostra fronte.

    I LUOGHI DOVE FARE PASTORALE

    Metto in risalto un ultimo elemento che stimo importante per qualificare sul concreto il rapporto tra politica e pastorale: i luoghi da privilegiare per fare pastorale.
    Il richiamo è noto e già molto meditato. Basta una rapida precisazione di termini per costatare quanto il problema in questione richiami l'altro, molto più dibattuto e inquietante, del rapporto chiesa-mondo.

    La questione

    Mi chiedo: dove la comunità ecclesiale fa pastorale con i giovani di oggi?
    Il modello tradizionale suggerisce una risposta molto precisa: l'ambito è quello del formalmente ecclesiale.
    Certo, la Chiesa si interessa di altri ambiti: lo fa però solo per ragioni di supplenza o per cercare luoghi sicuri e alternativi, liberi dai "pericoli", magari con la pretesa sottile di mostrare come si dovrebbe agire...
    Concretamente, non solo la pastorale viene svolta in spazi "sacri", delimitati e protetti; è anche viva la preoccupazione di non contaminarli eccessivamente del rumore delle cose di tutti i giorni. In essi, il linguaggio utilizzato non è mai quello, un po' violento, dell'esistenza quotidiana; i gesti e gli oggetti sono davvero separati dai ritmi normali; anche i problemi dell'esistenza sono compresi e affrontati con una preoccupazione descrittiva e interpretativa che li colloca in un'aurea tersa e mai provocante.
    Chi non sta a queste regole del gioco scatena sconcerto e preoccupazione. Ricordo, per esempio, lo stupore che suscitava il card. Pellegrino quando, durante le celebrazioni eucaristiche, sostituiva il termine "lavoratori" con quello, più compromettente, di metalmeccanici, di operai e di padroni.
    Sull'onda della diffusa coscienza politica, molte comunità ecclesiali hanno capovolto la prospettiva. Luogo della pastorale è diventata il territorio, concreto e quotidiano, condiviso gioiosamente con tutti. Anche i riti liturgici e la meditazione sulla Parola di Dio hanno abbandonato quel ritmo sacrale che li separava, anche fisicamente, dal quotidiano. Restituiti alla storia di tutti i giorni con cura puntigliosa, hanno vibrato delle tensioni e dei problemi che l'attraversano.
    I due modelli (quello sacrale, che separava, e quello politicizzato, che contestualizzava) hanno denunciato presto i limiti congeniti: nel reciproco confronto e, soprattutto, in una riscoperta più meditata dell'evento che vogliono evocare.
    Oggi siamo alla ricerca di alternative. Nella loro elaborazione pesa proprio la qualità del rapporto che la pastorale vuole instaurare con la sensibilità politica.
    Non mancano tentativi nostalgici di restaurazione, come espressione di un modo di ricomprendere il rapporto chiesa-mondo, che il Concilio sembrava aver definitivamente chiuso.

    Una proposta

    Elaboro una proposta, cercando un'alternativa rispetto alle posizioni denunciate. In questa operazione, propongo un modo di comprendere il rapporto tra pastorale e politica, proprio mentre ne suggerisco l'esito.
    Punto di riferimento è la figura di salvezza cristiana su cui mi sono già soffermato. Essa è dono di Dio, che viene da un futuro di radicale gratuità e alterità, mentre investe la vita e la storia di tutti i giorni.
    Da questa ricomprensione prende corpo la mia ipotesi.
    Luogo, unico e irrinunciabile, dell'azione pastorale è la vita quotidiana: nel suo tessuto Dio si offre all'uomo come ragione di vita e di speranza e l'uomo l'accoglie, affidando al suo mistero tutta la sua esistenza. Questo è il grande sacramento della salvezza, per la solidarietà insperata dell'umanità gloriosa di Gesù con la nostra povertà. Qui la comunità ecclesiale opera, qui gioca la sua fede e la sua speranza. Di questa esistenza, trascinata verso il futuro pieno di una salvezza che già sperimenta germinalmente, parla, propone, celebra. Di questa esperienza contesta ogni tentativo di chiusura nel contingente, proprio mentre proclama la novità che ci è offerta dall'amore potente del Dio di Gesù.
    Questo riferimento alla quotidianità si realizza secondo modalità differenti. Ripercorrono, nell'intreccio di segni, gesti e parole, quella doppia modalità attraverso cui costruiamo nel tempo il Regno di Dio.
    Ci sono dei momenti in cui celebriamo il dono grande di Dio. Il loro "luogo" è lo spazio del formalmente religioso. È importante sottrarlo un po' dal nostro ritmo forsennato e autosufficiente. Per questo, le celebrazioni liturgiche hanno tono, ritmo, esigenze che sono "sottratte" allo stile della quotidianità. Per questo, la Parola che viene proclamata ci riporta sempre un po' lontano, nel tempo e nei modelli culturali: è Parola che viene da un mistero che ci supera e ci giudica.
    In questi casi, però, referente resta la nostra esistenza. Le cose meravigliose che ci arrivano dal passato e il mistero del futuro "inquietano" il nostro presente. Non ascoltiamo, preghiamo e meditiamo per "sapere" ma per essere; non cerchiamo un di più di senso, ma costruiamo vita per noi e per gli altri.
    In altri momenti, il nostro presente operoso è assunto pienamente e totalmente come il luogo dell'azione pastorale. Condiviso per la verità dell'esperienza salvifica, viene restituito a ciascuno nella libertà e nella speranza.
    Facendo queste cose, la comunità non fa opera di supplenza, come una concezione dualistica di salvezza voleva supporre, per giustificare indebite invasioni di campo. Essa opera nel suo terreno, la vita quotidiana di ogni uomo, per restituirla piena e abbondante a ciascuno, come anticipazione del futuro della promessa.
    Per questo, luogo dell'azione pastorale è lo spazio "religioso" (le celebrazioni liturgiche e sacramentali) e quello "profano" (scuola, educazione, attività sportive, il dolore e la sofferenza: "le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi", come dice GS 1).
    In ciascun ambito riporta l'unica passione per il regno di Dio: quella voglia sconfinata di restituire a tutti vita, che ha portato Gesù sulla croce, nell'abbraccio, convinto e condiviso, con il Dio della vita.


    T e r z a
    p a g i n A


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