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    Abilitare il gruppo a comunicare




    (NPG 1991-02-55)


    Uno dei principali compiti educativi per l'animazione è favorire positive interazioni tra i giovani, e tra il gruppo e l'animatore. Sviluppare buone interazioni è compito di tutto il gruppo, ma in particolare dell'animatore.
    Descriviamo questo compito da un punto di vista che non esaurisce il complesso mondo delle interazioni: lo sviluppo di comunicazioni interpersonali.
    Le interazioni sono ritmate dagli scambi di informazioni tra i partners. L'intera vita del gruppo può essere analizzata come sequenza di comunicazioni, e la stessa interazione può essere considerata un processo di comunicazione. Si definisce comunicazione un qualsiasi passaggio di informazione che si verifichi all'interno del gruppo, indipendentemente dal mezzo utilizzato per comunicare (non necessariamente esso dev'essere verbale) e dal fatto che i membri ne abbiano consapevolezza o no.
    La comunicazione nel gruppo può essere corretta e sana, oppure patologica e disturbata.
    Nel primo caso il gruppo si evolve seguendo le regole normali di evoluzione.
    Nel secondo dà luogo a fenomeni patologici. Molte volte sono i disturbi comunicativi a distruggere un gruppo.

    IL SINTOMO COME PROBLEMA DEL GRUPPO

    È importante la scelta, in cui l'animazione si riconosce, di centrare il suo intervento formativo sulla relazione e sul gruppo come sistema di relazioni problematiche.
    Nel modello sistemico il «sintomo», cioè tutte le reazioni del soggetto che manifestano un disagio a comunicare nascondendolo dietro una «scusa», non può essere visto come un problema del singolo. Esso è sempre espressione di un disagio che investe nella sua totalità il gruppo.
    In un gruppo ogni comportamento considerato deviante (a livello di idee, affetti, comportamenti) va visto come espressione di una disfunzione del gruppo, che solitamente consiste in una particolare rigidità dei modelli relazionali abituali.
    Il sintomo allora non è più una «caratteristica individuale», ma una «qualità del gruppo». Di conseguenza la sua comprensione e valutazione, come pure ogni intervento per il suo superamento, va anzitutto indirizzato al gruppo nel suo insieme. Si pensi al caso in cui il gruppo ha confinato uno come «il buffone» o che un altro sia rifiutato per le sue caratteristiche fisiche. Il disagio è frutto del gruppo e non scelta del singolo.
    Del resto il sintomo non viene scaricato sui singoli, ma piuttosto sulle relazioni, sulle comunicazioni e interazioni fra i singoli e nel gruppo come un tutto. È al livello delle relazioni, più che della volontà dei singoli, che vanno ricercate le cause profonde dei sintomi.
    E il sintomo diventa così manifestazione storicamente definita e definibile. Viene riassunto a pieno diritto, non solo e non tanto riportando alle caratteristiche psicologiche dei singoli e ai suoi problemi passati o recenti fuori del gruppo, quanto piuttosto nella descrizione degli eventi collettivi che formano la comunicazione nel gruppo.
    Secondo la prospettiva sistemica, anche il concetto di diagnosi delle cause del disagio viene radicalmente ribaltato.
    Innanzitutto, l'unità diagnostica non è più l'individuo, ma il complesso di relazioni in cui è immerso, cioè il sistema di cui fa parte.
    E fare diagnosi non significa più cristallizzare il sintomo con una etichetta statica da cui si deduce un giudizio di irrecuperabilità. Significa, al contrario, rendere comprensibile il disagio dell'individuo collocandolo nel gruppo e considerandolo espressione transitoria di una realtà dinamica, passibile di cambiamento.
    Fare diagnosi in termini di sistema non vuol dire deresponsabilizzare i singoli, ma riportare al soggetto-gruppo e alle sue responsabilità i problemi. Il gruppo, magari dolorosamente, viene a prendere coscienza di fenomeni di emarginazione, disconferma, autoritarismo e spinta al conformismo che spersonalizzano. Solo a questo punto, evitando di ridurre i problemi dei singoli a problemi interiori o a incapacità relazionali costitutive, il gruppo diventa nuovamente soggetto che si asssume la responsabilità di affrontare insieme le difficoltà.
    Fare diagnosi non è mai un lavoro a freddo, di tipo oggettivo, ma implica un progressivo coinvolgimento che scatena le energie sopite del gruppo in un processo diretto al ritrovamento del sogno e utopia del gruppo e al cambiamento.

    Interventi sulla relazione

    Viene così a modificarsi anche la qualità dell'intervento educativo. Fare animazione non è più un atto diretto al controllo e alla gestione della devianza individuale, dei problemi del singolo, ma un processo volto a favorire la riassunzione del problema come problema di gruppo, e stimolare un cambiamento che coinvolga tutto il gruppo, nella sua globalità.
    Invece di curare o guarire un individuo, l'animatore si propone di trovare soluzioni nella situazione interpersonale, di gruppo, ambientale, sociale, in cui il disagio o il comportamento deviante si manifestano.
    L'intervento e le tecniche utilizzate dall'animatore non sono centrate su un «individuo malato». Si privilegiano invece modalità d'intervento orientate sul complesso dei rapporti interpersonali.
    Il processo di animazione è così volto essenzialmente a sperimentare modelli alternativi di funzionamento delle interazioni.
    Di fronte ai problemi di comunicazione l'animatore, in conclusione, non concentra l'attenzione sul disagio del singolo per trovare una risposta, ma allarga l'attenzione al gruppo e dal gruppo all'ambiente e alla società in cui si vive. Egli si propone di risocializzare il problema e di affrontarlo insieme. Coinvolge le persone partecipi delle situazioni, le corresponsabilizza nella ricerca di soluzioni di una difficoltà che ridefinisce comune. Così facendo egli rifiuta la delega per la soluzione del disagio e restituisce al gruppo il carico del problema.
    Questo non vuoi dire che egli non crede nella libertà di scelta dei singoli, riducendola ad appendice del gruppo. Ma piuttosto che, se l'individuo fa parte del gruppo, ne è influenzato al punto che la libertà potrà essere conquistata solo insieme.
    Nello svolgere questo ruolo può essere aiutato dall'attenzione a quelli che vengono chiamati gli assiomi della comunicazione, cioè le regole fondamentali che presiedono alla comunicazione di tipo pragmatico tra le persone di un sistema. Sono regole che l'animatore tiene presente e che propone all'apprendimento del gruppo.

    IL SILENZIO E IL SINTOMO

    L'animatore è attento, in primo luogo, ad un fatto dato troppo per scontato: l'impossibilità di non comunicare.
    Quando si parla di comunicazione, non ci si riferisce esclusivamente al linguaggio verbale. Al contrario il silenzio o, al limite, l'assenza da una riunione, sono essi stessi messaggi indicativi e precisi. Ora è evidente che, pur essendo impossibile non comunicare, accada a tutti in determinate circostanze desiderare di evitarlo. Sono proprio le modalità per tentare di non comunicare che possono portare ad una situazione patologica di comunicazione nel gruppo.
    Immaginiamo che uno del gruppo voglia conversare con un altro, ma questi non abbia alcuna intenzione di rispondergli.
    Di fronte ad uno che tenta di comunicare, chi invece vuol sottrarsi ad una comunicazione esplicita ha a disposizione, se proprio non può abbandonare il campo, alcune vie di uscita.
    Una prima via è il rifiuto della comunicazione. A chi cerca di aprire la conversazione si fa capire, con maniere più o meno brusche, che non si ha voglia di comunicare con lui.
    Una seconda via è la rassegnazione alla comunicazione. Ci si rassegna a conversare, anche se è possibile che questo atto di debolezza finirà per allontanare ulteriormente dall'altra persona, fino al rischio di odiare lei ed odiare se stessi.
    Una terza via è la squalifica della comunicazione. È una tecnica a cui nel gruppo si ricorre spesso. Rientra in questa tecnica una vasta gamma di fenomeni come il contraddirsi, cambiare argomento, sfiorarlo, dire frasi incoerenti o incomplete, sorridere e prendere in giro. Si attua lo scopo di svuotare di contenuto ogni discorso, per cui, alla fine, quanto si dice non significa più nulla, e la comunicazione diventa patologica.
    Alla squalifica della comunicazione si ricorre facilmente quando si è costretti a comunicare su temi o in occasioni che i singoli non ritengono significative.
    In questo si cerca di sottrarsi al compito non gradito squalificando la comunicazione.
    Accade quando manca un sufficiente clima di libertà ed espressione del pensiero o quando il gruppo, pur avendo preso ufficialmente una decisione, non la condivide.
    Una quarta via è il rifugio nel sintomo. Avviene quando si simula un qualsiasi stato di incapacità o qualunque difetto (dall'emicrania, allo sbadiglio, al sonno, all'urgenza di altri impegni) per giustificare l'impossibilità di comunicare.
    In questi casi il messaggio è sempre lo stesso: «Non mi dispiacerebbe parlare con te, ma c'è qualcosa più forte di me (quindi non posso essere biasimato) che me lo impedisce».
    Questo appellarsi a forze o a motivazioni non controllabili ha però i suoi inconvenienti. Normalmente chi si rifugia nel sintomo sa che sta barando. Ma questa strategia diventa «perfetta» una volta che si convince se stessi di essere alla merce di forze che non si può controllare, attraverso l'elaborazione di un sintomo. Il sintomo è, in fondo, una manovra per sfuggire alla comunicazione in un contesto che la rende insostenibile.
    Non è detto che il rifugio nel sintomo sia solo colpa di chi lo vive. In situazioni di comunicazione paradossale (quando un membro del gruppo si sente dire parole di benevolenza in un clima di rifiuto, ad esempio), il rifugio nel sintomo è una buona arma di difesa.
    In questa e in altre situazioni, il sintomo si propone come comunicazione che comunica, paradossalmente, il tentativo di non comunicare.

    IL CONTENUTO E LA RELAZIONE

    In ogni comunicazione umana è possibile riconoscere due messaggi: un messaggio di contenuto, che cioè trasmette una «notizia», ed un messaggio di relazione, che, contemporaneamente, informa sul modo in cui deve essere ricevuta la notizia e, in questo senso, definisce la relazione tra chi emette e chi riceve informazioni.
    Esistono perciò nella comunicazione due livelli, di cui uno (quello di relazione) definisce l'altro (quello di contenuto), in quanto afferma qualcosa sull'altro, è cioè «comunicazione sulla comunicazione» e quindi si qualifica come «metacomunicazione».
    Il messaggio di relazione è un modo di comunicare attraverso cui uno dei comunicanti propone una definizione della relazione, e di conseguenza anche una definizione di sé. Qualunque sia, infatti, il modo di comunicare e il contenuto, il prototipo della sua metacomunicazione sarà: «Ecco come vedo me stesso in relazione a te in questa situazione».
    In un gruppo o in un'interazione «sani», il livello della relazione rimane sullo sfondo e si comunica sui contenuti. Viceversa, se il gruppo o l'interazione sono «malati», ci si impegna continuamente in una lotta per definire la natura della relazione ed il legame di gruppo, mentre l'aspetto di contenuto diventa sempre meno importante. Quando in un gruppo c'è un clima conflittuale, è facile osservare come esso esplode, di qualunque argomento si stia trattando. Non si litiga sui contenuti, ma sulla relazione. Il contenuto della disputa non ha alcuna importanza. Tocca all'animatore, di fronte a situazioni conflittuali, aiutare a distinguere i due livelli. La confusione di livello crea, infatti, una comunicazione inestricabile.
    Un caso particolare di questa confusione è la comunicazione paradossale, dove c'è incongruità tra messaggio dicontenuto e messaggio di relazione, tale che si escludono reciprocamente. Si pensi al caso in cui due membri del gruppo professano a voce stima reciproca, mentre la relazione è pervasa da rifiuto. La relazione rende assurdo il contenuto e prevale nella comunicazione. Se l'animatore si professa accogliente e democratico mentre agisce in modo autoritario e, peggio ancora, non ha stima per il gruppo, quello che il gruppo afferra è il rifiuto e la non stima, al di là dei messaggi verbali.
    La comunicazione sulla relazione, una volta innescata, può avere risposte o esiti diversi riconducibili alla conferma, rifiuto, disconferma.
    Immaginiamo che uno del gruppo, attraverso un insieme di messaggi verbali e non, si presenti all'animatore per quello che è, con le sue specifiche caratteristiche. In questo caso il suo messaggio è richiesta di relazione rivolta all'animatore. Si propone di stabilire una relazione.

    Conferme, disconferme

    L'animatore può, anzitutto, confermare la proposta di definizione della relazione fatta dal giovane. I messaggi di conferma consistono essenzialmente nel comunicare: «Sono d'accordo con la definizione che dai di te stesso». Si tratta, in questo caso, di un processo di accettazione dell'altro, così come si sente e si definisce nell'ambito della relazione di gruppo. Si esprime attraverso l'approvazione, l'incoraggiamento, la lode, o anche semplicemente facendo sapere al giovane che, comportandosi in un certo modo, «va bene» all'animatore e all'intero gruppo.
    La conferma ha un valore enorme, in quanto costituisce la matrice fondamentale per lo sviluppo cognitivo, affettivo, sociale, religioso del giovane (e del gruppo). Si matura identità in quanto ci si sente confermati ed accettati. Questo avviene in particolare quando è l'animatore adulto ad esprimere stima.
    La conferma contribuisce a mantenere la stabilità e l'equilibrio mentale dell'individuo, indipendentemente dall'età, in quanto rafforza la propria immagine personale.
    Tuttavia la conferma, da sola, non sempre è sufficiente per creare un contesto educativo valido. Essa va integrata da comunicazioni di rifiuto nei confronti di determinati aspetti con cui il gruppo o il singolo si definiscono. I messaggi di rifiuto consistono nel rispondere: «Tu, in quanto ti presenti e ti definisce in questo modo (ad esempio, in modo violento e aggressivo, oppure abulico e passivo), non vai bene in questo contesto; non ti accetto in questo modo».
    Il rifiuto si esprime nella disapprovazione e attraverso modalità relazionali che manifestino il proprio disappunto e rammarico per i comportamenti adottati dal gruppo o dal singolo. Risultano meno efficaci e significativi interventi dell'animatore che siano meramente punitivi o che puntino alla colpevolizzazione.
    Il rifiuto costituisce un importante elemento educativo e favorisce lo sviluppo personale, in quanto fornisce dei punti di riferimento essenziali, delle coordinate indispensabili per compiere le correzioni nei processi relazionali e, semplicemente, per comportarsi dentro i vincoli posti dal contesto di animazione.
    Tuttavia, per contribuire a un conte-sto educativo favorevole, il rifiuto deve essere sensibilmente meno frequente della conferma. Il prevalere del rifiuto, infatti, fa insorgere reazioni negative, di tipo oppositivo, nonché manifestazioni di caparbietà e cocciutaggine.
    L'animatore, alla proposta di definizione di sé avanzata dal giovane per stabilire una relazione, può reagire anche con la disconferma. Può, in altri termini, rispondere in modo evasivo, assente, contraddittorio, enigmatico, incomprensibile, comunicando così: «Nel modo con cui ti presenti e ti definisci non vai né bene né male. Semplicemente non mi interessi, non mi riguardi, non esisti». Mentre il rifiuto, riferendosi al messaggio della relazione, afferma: «Tu sbagli», la disconferma dice in realtà: «Tu non esisti in rapporto a me in questa situazione».
    La disconferma, che si esprime soprattutto attraverso comunicazioni di squalifica, configura pertanto una risposta che cerca di essere una non-risposta. In fondo, non ci si vuol far carico del giovane come è, oppure dello stesso gruppo.
    La disconferma possiede un elevato valore destrutturante della personalità dell'individuo. Non solo disorienta e confonde sul piano cognitivo ed affettivo, ma anche impedisce di porsi nei confronti dell'altro con la propria identità e specificità. I processi di disconferma, come si intuisce, hanno effetti devastanti, perché, a questo punto, non si sa più come comunicare pur dovendo continuare a comunicare, e quali scelte operare pur dovendo scegliere tra diverse alternative.

    IL VERBALE E IL NON VERBALE

    La comunicazione umana è l'unica (almeno a quanto si sa) tra quelle utilizzate dagli organismi viventi, che ha due possibilità del tutto diverse di far riferimento agli oggetti nel senso più vasto del termine: o dar loro un nome, «bambino» per esempio, o rappresentarli attraverso un'immagine, come quando il bambino viene disegnato o mimato. Questi due modi di comunicare, di cui uno si esprime attraverso la parola, l'altro attraverso l'immagine esplicativa, possono essere ricondotti ai linguaggi verbali e non verbali.
    Se si tiene presente la distinzione tra contenuto e relazione, è facile che all'interno di una comunicazione il contenuto venga presentato con un linguaggio verbale e che la relazione venga offerta in modo non verbale.
    Affinché la comunicazione umana combini questi due linguaggi, l'uomo ha costantemente la necessità di tradurre dall'uno all'altro, trovandosi spesso davanti a difficoltà e dilemmi. Una patologia della comunicazione nasce spesso da errori nella traduzione del modello verbale a quello non verbale.
    I problemi nascono nel momento in cui nell'animazione si passa con frequenza da un modulo all'altro. Così, ad esempio, ad una comunicazione verbale si può rispondere in modo non verbale, con reazioni gestuali e mimiche, azioni ambigue nel significato. Allo stesso modo l'animatore può trovarsi di fronte ad un messaggio non verbale intenso ma confuso e deve dare una risposta.
    Una comunicazione corretta evita di prolungare una sequenza comunicativa non verbale, e si impegna continuamente in una traduzione verbale dei significati. Solo in questo modo si può uscire dall'ambivalenza del linguaggio non verbale.
    La traduzione del linguaggio non verbale in verbale presenta spesso problemi complessi, perché la comunicazione non verbale ha appunto caratteri di grande ambiguità e si presta ad unagamma di possibili interpretazioni dipendenti da circostanze molteplici, in particolare dalla natura della relazione dei comunicanti.
    Ne possono nascere notevoli fraintendimenti. Così, per esempio, la timidezza può essere scambiata per indifferenza, l'allegria per superficialità, il senso critico per disimpegno.
    Le difficoltà nascono soprattutto dal fatto che la traduzione del linguaggio non verbale comporta di uscire dalla relazione per comunicare su di essa. In altre parole, in qualche modo si sospende la relazione e si cerca di comprenderla con i linguaggi verbali, dichiarando il proprio punto di vista, le proprie attese, le proprie reazioni inconfessate. Ora proprio il salire al livello del «parlare sulla relazione» è complicato quando questa è disturbata, ad esempio, da fenomeni di rifiuto e/o disconferma reciproca.
    Compito dell'animatore nel gruppo è aiutare a consentire sempre una verbalizzazione, in modo che la comunicazione non verbale sia decodificata e interpretata attraverso un accordo reciproco. Solo apprendendo a comunicare sulla relazione si esce dall'ambiguità.
    La traduzione del linguaggio verbale in non verbale appare, a sua volta, un'impresa complicata dal fatto che mentre il linguaggio verbale è analitico e ha una precisa sintassi, quello non verbale è sintetico e globale.
    Questo può avere più forza e fascino, maggior carica emotiva e di conferma, ma finisce per confondere la ricchezza dei contenuti che solo la parola garantisce.

    LA INTERPUNZIONE E LA DUPLICE LETTURA

    In un sistema come il gruppo, in cui i membri sono legati da rapporti di continua interazione, la comunicazione si presenta come una sequenza ininterrotta di scambi, tale che l'informazione inviata da A a B, è necessariamente seguita da un'informazione di ritorno (feedback) che da B ritorna ad A e così via.
    La comunicazione assume pertanto una caratteristica struttura circolare, che comporta conseguenze importanti sul modo di comunicare. Di queste il fenomeno di «interpunzione» e i problemi che genera è uno dei più evidenti.
    A causa della circolarità non sono proponibili tra i comunicanti rapporti lineari di tipo causa-effetto, per cui un singolo messaggio non può essere mai considerato come una battuta iniziale di uno scambio comunicativo. In un cerchio non è mai rintracciabile un inizio ed una fine.
    Si parla di interpunzione quando, in una sequenza circolare di interscambi, si assume arbitrariamente un anello della catena quale punto di partenza per l'osservazione.
    Da un lato fare interpunzioni è inevitabile per chiunque voglia descrivere o studiare il funzionamento di un sistema; ma dall'altro ogni interpunzione è arbitraria e può, tutt'al più, essere giustificata da comodità di descrizione, dato che il nostro modo di pensare è fortemente influenzato da modelli di causalità lineare.
    Le complicazioni e i problemi e, spesso, la patologia insorgono quando invece l'arbitrarietà delle interpunzioni viene totalmente dimenticata e si pretende di dare interpretazioni causali ad un certo tipo di comportamento, utilizzando come spiegazione il comportamento che immediatamente precede un altro ritenuto significativo.
    Se si considera, ad esempio, una sequenza in cui l'animatore autoritario giustifica la propria abitudine a comandare continuamente perché il gruppo non si dà da fare, mentre, dal canto suo, il gruppo spiega di lasciar andare le cose perché l'animatore vuol fare tutto lui, si nota che l'aspetto tipico della sequenza è che animatore e gruppo credono di reagire agli atteggiamenti dell'altro, indicati come punti di origine della sequenza, e non sospettano che può anche provocarli.
    Si tratta dunque di un problema di interpunzione arbitraria in cui i due comunicanti sono impegnati in un conflitto su ciò che si considera la causa e ciò che si considera l'effetto, quando questi concetti non sono utilizzabili data la circolarità della comunicazione. L'effetto del disturbo comunicativo, che consiste nell'interpunzione arbitraria, è che i comunicanti sono invischiati in un circolo vizioso di accuse e controaccuse, in un gioco senza fine di colpevolizzazione reciproche, e quindi di sofferenze e di lacerazioni.
    Da questa situazione, frequente dentro il vissuto del gruppo, non è possibile sottrarsi se non uscendo fuori dal circolo, cioè comunicando sulla relazione.
    Ma se i due contendenti non sono in grado di comunicare, o non vengono aiutati a farlo da un intervento esterno quale quello dell'animatore o del gruppo nel suo insieme, il risultato è un vicolo cieco dove vengono lanciate accuse reciproche di cattiveria e malevolenza senza fine.
    L'arbitrarietà della punteggiatura di una sequenza è il fenomeno che fa sì che un comportamento, che di volta in volta viene designato come cattivo, abnorme, egoistico, presuntuoso, sia assunto come causa del disagio di tutti gli altri membri del gruppo.
    Compito dell'animatore è aiutare il gruppo a rendersi conto di quando la comunicazione si evolve in circolo vizioso dell'interpunzione. In questo caso egli, da una parte, evita accuratamente di cadere nel circolo, dall'altra invita il gruppo a fermarsi, a interrompere la comunicazione, prendere le distanze sufficienti per salire ad un livello diverso, quello della metacomunicazione e dunque della relazione alla base della scorretta interpunzione e della voglia di cercare capri espiatori, colpevolizzare i singoli, scaricare le responsabilità.
    Molto più complesso è assumersi come gruppo la paternità delle cause, fare attenzione al punto di vista dell'altro, ritrovare l'unità del noi-gruppo, impegnarsi a modificare anzitutto la relazione.

    LA SIMMETRIA E LA COMPLEMENTARIETÀ

    Le relazioni tra due o più persone nel gruppo tendono a svolgersi all'interno di un asse con due polarità. Il primo polo è l'interazione o scambio simmetrico, il secondo l'interazione o scambio complementare.
    Lo scambio simmetrico si ha quando, di fronte ad una comunicazione di un partner, l'altro risponde rispecchiando, cioè riproducendo in se stesso, il suo comportamento. Così, ad esempio, se uno tende a dominare nel gruppo, c'è scambio simmetrico quando un altro gli resiste, vuole restare alla pari, cerca altrettanto una posizione di dominio. Lo scambio complementare invece si ha quando il comportamento di risposta vuole essere complementare all'altro. Di fronte, ad esempio, ad un comportamento di dominio di un partner, l'altro risponde con un atto di sottomissione.
    Nell'interazione complementare un partner di solito assume la posizione one-up, cioè la posizione di chi sta sopra, domina, fa suo un ruolo primario, mentre l'altro assume una posizione one-down, cioè la posizione di chi sta sotto, accetta di fare il gregario, fa suo un ruolo secondario.
    Non è detto che l'unica comunicazione corretta sia quella simmetrica. Si pensi alla positività e normalità di relazioni complementari nel caso del rapporto medico-paziente, docente-allievo, allenatore-giocatore, madre-figlio. Ma si pensi anche al buon senso della moglie (o del marito) quando, di fronte al partner inquieto e teso per un problema, assume un ruolo one-down, diventando «contenitore» della tensione.
    I disturbi, i disagi e le patologie nascono quando si assume in modo rigido un modello e si esclude categoricamente l'altro. In questo caso nella relazione simmetrica si arriva velocemente allo scontro estenuante e senza fine. La vita di gruppo offre spesso di questi esempi, soprattutto fra i leaders emergenti. Di segno opposto, ma comunque preoccupanti, sono anche le relazioni in cui la complementarietà, che nella normalità assicura l'armonia, vede sempre gli stessi soggetti in posizione one-up e, viceversa, tutti gli altri sempre in posizione one-down.
    Nel corso di una comunicazione non patologica nel gruppo devono alternarsi i due tipi di scambi, senza che alcuno rimanga rigidamente fisso nel modello complementare o in quello simmetrico.
    L'animatore deve operare, pertanto, affinché nel gruppo ci sia, a seconda delle situazioni, una scelta adeguata del tipo di relazione, simmetrica o complementare o mista che sia. Egli abilita a comprendere quando è utile che un partner reagisca con un atteggiamento simmetrico, e quando invece è più utile un rapporto complementare.
    In effetti la buona armonia in gruppo richiede a volte duri contrasti, sia tra giovani che con lo stesso animatore. Se si pensasse di eliminare le relazioni simmetriche, il gruppo diventerebbe dipendente da un leader, da un prepotente, da chi grida o è più scorbutico, dallo stesso animatore autoritario. Se ci si adatta nella posizione one-down, il gruppo diventa patologico, in quanto accetta un'immagine di vita sociale piramidale contraria a tutta la pratica dell'animazione.
    Assestarsi sul modello complementare in modo assoluto, impedisce al gruppo di avere una vita democratica al suo interno e di apprendere a vivere nella democrazia sociale che richiede, in certi momenti, di opporsi, di contestare, di resistere. A volte nel gruppo l'unica relazione possibile, anche nei confronti dell'animatore, è quella simmetrica, anche se può essere molto dolorosa. Tocca all'animatore operare affinché la simmetria sia raggiunta facendo in modo che gli atteggiamenti complementari tra le persone alla fine si equivalgano.


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