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    A scuola di politica


     

     

    Luigi Bobba

     

    (NPG 1991-05-23)

     

    «Vi paio più un pedagogo che un politico?

    Forse perché nei miei discorsi non manco mai di sottolineare la dimensione morale e spirituale della politica.

    Ma ho buone ragioni per farlo.

    Non fosse altro perché ogni volta che affronto un problema politico o economico o sociale del nostro paese, finisco sempre per riscontrare una coscienza umana deformata, rapporti umani deformati» (V. Havel).

    Vaclav Havel, il drammaturgo presidente della Cecoslovacchia del post-comunismo, nel suo primo discorso pubblico tenuto a Berlino nel gennaio del '90, ha sviluppato una riflessione sul rapporto tra politica e parola.

    La parola è lo strumento per eccellenza.

    Attraverso la parola l'uomo dà un nome alle cose, cerca di comprendere la realtà, costruisce relazioni. La parola è strumento di dominio e di liberazione, di svelamento e di manipolazione.

    La parola ci viene in aiuto nel cercare la verità, ma serve anche per deturparla; è mezzo per affermare la libertà dell'uomo, ma anche per spegnerla.

    Libertà e verità - scrive ancora Havel - sono i confini invalicabili della politica.

    Ci sono parole umili che servono la verità e la libertà; ci sono parole superbe che le guastano. La politica produce guasti, quando pretende di possedere la verità e di mettere confini alla libertà.

    Ma libertà e verità per resistere al dominio della politica hanno bisogno di un «altrove» dove fondarsi, dove alimentarsi. Hanno bisogno di una fonte trascendente, di una sorgente non deperibile. 

     

    CRISI DELLA POLITICA

     

    La crisi della politica, della razionalità politica della nostra epoca, sta proprio nella rimozione che si è operata della dimensione trascendente della persona umana. Quando la politica smarrisce il senso del suo limite, e cioè il riconoscimento della trascendenza come luogo insequestrabile della propria azione, finisce per caricarsi di significati religiosi sociali e dunque totalizzanti. Le ideologie moderne (illuminista, marxista) non potendo cancellare del tutto la dimensione trascendente, hanno cercato di inserirla nella storia. I miti della rivoluzione e «dell'uomo nuovo» non sono altro che tentativi di raggiungere, attraverso la politica, la felicità e la pienezza della realizzazione umana.

    Tentativi miseramente e tragicamente falliti. Il crollo del «socialismo reale» e del mito di una società fondata sulla giustizia e sull'eguaglianza, è lì a dimostrare che la politica fatta con «parole superbe», che non riconosce cioè il proprio limite, produce guasti e sofferenze. Oggi, dopo la fine del comunismo, il potere non ha più maschere mitico-sacrali per potersi nascondere. È obbligato a dichiarare la sua vera ideologia: è giusto ciò che serve, ciò che consente di avere successo.

    Questa situazione inedita, quest'opera di svelamento consente di riaprire la ricerca, di cercare nuove risposte. È anche da questa crisi che prende forma una nuova domanda politica che non ha ancora trovato forme adeguate per trasformarsi in azione politica.

    Mentre infatti, nei paesi della CEE tra il 1976 e il 1987, le persone identificate con un partito politico sono diminuite dell'8070, quelle interessate alla politica sono cresciute del 4,5%. Accanto al declino dei tradizionali partiti politici - in Italia circa il 50% dei giovani non si identifica stabilmente con un partito - si accompagna con un crescente potenziale di attivismo a livello individuale.

    Forse le scuole di educazione alla politica hanno colto il senso di questo passaggio, di questa crisi; hanno abbozzato qualche risposta e hanno rappresentato forme e luoghi da cui far ripartire l'azione politica.

    CIÒ CHE E DI CESARE, CIÒ CHE È DI DIO: I FONDAMENTI DELLA POLITICA

     

    Il Papa, definito da alcuni commentatori legato al mito della cristianità, neointegrista e impregnato di ipotesi medioevaliste, ha pronunciato nel 1988 (12 ottobre), di fronte al Parlamento europeo, un discorso programmaticamente antiintegrista.

    È da lì che vogliamo muovere per trovare principi ispiratori e scelte che possono far da guida all'azione politica di credenti che non vogliono rinunciare alla loro fede, ma che allo stesso tempo intendono essere fedeli agli uomini e alle donne del nostro tempo.

    Giovanni Paolo II riprende temi cari alla sua riflessione: la sostanziale unità di tutto il continente europeo a partire dalla matrice cristiana; la libertà religiosa; l'apertura verso il Terzo Mondo; il valore relativo delle strutture sociali; la condanna di ogni integralismo compreso quello cristiano; la vocazione pubblica del cristianesimo.

    «Nessun progetto di società - scrive Giovanni Paolo II - potrà mai stabilire il Regno di Dio, cioè la perfezione escatologica sulla terra». E ancora: «Le strutture della società non possono sostituirsi alla coscienza dell'uomo, alla sua ricerca della verità e dell'assoluto».

    «Laddove l'uomo non si appoggia più ad una grandezza che lo trascende, rischia di abbandonarsi al potere senza freni». E infine: «L'integralismo religioso appare incompatibile con lo spirito proprio dell'Europa quale è stato caratterizzato dal messaggio cristiano».

    Le citazioni potrebbero continuare. Ciò che preme sottolineare sono alcuni «fondamentali» per il credente impegnato nell'azione politica:

    - la distinzione dei piani (l'autonomia delle realtà temporali, per ricordare la lezione di Lazzati);

    - la radicalità del discorso religioso che non sopporta riduzioni, ma che prende le forme della civiltà in cui vive senza esserne consumato;

    - il rifiuto di ogni integrismo;

    - la vocazione pubblica e di presenza del cristianesimo;

    - una forte tensione verso il futuro.

    L'individuazione di questi criteri ispiratori si accompagna ad un forte senso della contemporaneità. Non è un caso che in quell'occasione, come in altre, Giovanni Paolo II anticipò il senso degli avvenimenti che - di lì a poco - avrebbero mutato il volto e la storia del continente europeo.

    La riscoperta delle radici dell'Europa non appare come un ripiegamento narcisistico, un ritorno al passato, ma come un riprendere forza per proiettarsi verso una nuova stagione per costruire un'Europa unita, aperta verso l'Est, generosa verso il Sud, fonte di civiltà.

    A SCUOLA DI POLITICA

     

    Il rapido diffondersi nell'area cattolica delle scuole di educazione alla politica ha sorpreso più di un'osservatore.

    La sorpresa era più che giustificata: «le scuole» non nascono per decisione dall'alto di qualche ufficio della Conferenza Episcopale, ma rappresentano un fenomeno reale di vitalità sociale.

    Si diffondono non in virtù di una pianificazione organizzativa ma per imitazione.

    Le scuole di formazione all'impegno socio-politico del card. Martini a Milano e l'Istituto di formazione politica «Pedro Arrupe» di Palermo, costituiscono i due prototipi all'origine di questo processo.

    Da Milano e da Palermo le scuole sono andate rapidamente diffondendosi in quasi tutte le diocesi, tant'è che ne sono state censite più di 150 che hanno coinvolto diverse migliaia di quadri dell'area cattolica.

    Un'indagine dell'ufficio della Pastorale del lavoro della CEI [1] ne ha analizzate 91, quasi tutte nate nel biennio 86-88.

    Di queste più della metà è localizzata al Nord e, dato di novità, sono dirette, in proporzione quasi eguale, sia da laici che da sacerdoti.

    Poche hanno una struttura di una vera e propria scuola con frequenze settimanali ed esami finali; la maggior parte, però, realizza un numero di incontri superiori ai 10 annui.

    Sono promosse per il 40% direttamente dalle diocesi, per il resto da associazioni locali, gruppi o movimenti.

    Un'analisi dei programmi di queste iniziative rivela una sostanziale omogeneità tematica.

    Quasi tutte le scuole censite «condividono un'ossatura comune, articolata in via principale su di un insegnamento di magistero sociale e di storia del movimento cattolico italiano, e rivolta in via subordinata all'analisi dell'attualità politica istituzionale e sociale con particolare attenzione al mondo del lavoro e al nesso etica-economia».[2]

     

    Una crescente domanda formativa

     

    Al di la di questi dati quantitativi, la crescita dirompente e inaspettata delle scuole di educazione alla politica rivela l'esistenza di una domanda formativa che attraversa in particolare giovani credenti impegnati nelle parrocchie o in esperienze di volontariato.

    La consistenza e la qualità del fenomeno indicano che la distanza dalla politica che viene generalmente denunciata è distanza da questa politica, da questi partiti e che, non di meno, molti giovani sono alla ricerca di fondamenti al loro agire sociale e politico.

    Emerge così la centralità politica della questione formativa.[3]

    Le scuole di educazione alla politica rispondono ad un bisogno di affrontare la sempre maggior complessità della vita sociale in modo critico non pauroso, oltre gli stereotipi dell'adattamento passivo o del rifiuto radicale.

    Senza quest'opera formativa ci saranno sempre meno persone in grado di sapere come stanno le cose.

    Così si rischia di avere o dei semplici irresponsabili incapaci di orientarsi nella complessità delle scelte, o politici eticamente ispirati ma non in grado di mcidere, di trasformare la realtà.

    La conseguenza di quella crisi della politica, dei suoi fondamenti di cui abbiamo detto, «sembra dunque consistere nella valorizzazione della formazione non come semplice segmento preparatorio, ma come struttura portante della politica: non una soglia ma un'architrave».[4]

    Le scuole di educazione alla politica hanno dunque svolto un'opera di supplenza nei confronti di partiti politici che da tempo non si danno più pensiero di formare nuova classe dirigente, e anche all'istituzione scolastica che ha, finora, sottovalutato l'importanza dell'educazione politica.

    Le linee guida di questa «impresa di pedagogia sociale», così come emerge dalle esperienze più elaborate, a grandi linee possono essere così sintetizzate:

    - la politica come dimensione essenziale e inevitabile dell'esperienza umana.

    Non il «tutto è politica» degli anni '70 che presupponeva una concezione totalizzante della politica, ma un prendere coscienza che la politica come «governo delle interazioni tra le parti di un sistema» riguarda non solo il «palazzo» ma ogni persona.

    «La politica dunque è una dimensione diffusa; non è tutto: è un aspetto di ogni situazione.

    È quell'aspetto che considera il tutto dal punto di vista della connessione tra le parti».[5]

    Da questa affermazione deriva che tutti siamo in qualche modo «politicamente competenti»;

    - la politica non può essere assunta come pura «arte del potere» non soggetta ad una verifica di realtà.

    L'acquisizione di una mentalità scientifica (non scientista) nei confronti della politica consente di svelare gli inganni, di sottoporre l'azione politica allo schema «teoria-ipotesi-verifica eventuale correzione».

    La politica risulterà così molto più aderente alle situazioni concrete, ai bisogni del territorio, ai vincoli e alle risorse;

    - l'acquisizione della democrazia come metodo di comportamento e modalità corretta per prendere decisioni che riguardano il bene comune.

    L'educazione alla democrazia non è una fedeltà a princìpi democratici astratti, ma comprensione del valore delle istituzioni quali forme storiche della democrazia stessa.

    Una rigida contrapposizione tra vitalismo sociale e ossificazione istituzionale conduce ad una politica fatta solo di protesta e di delega in bianco a qualche capo carismatico.

    Una democrazia non plebiscitaria richiede pazienza e capacità di modificare le regole e incidere nel costume. 

     

    E DOPO?

     

    E dopo? È la domanda che da più parti è sorta di fronte ad un fenomeno che non poteva essere ridotto a puro «laboratorio».

    E dopo? Che cosa faranno queste persone con un surplus di formazione politica? In quali partiti andranno? La Chiesa sarà tentata di utilizzarli per una propria presenza politica diretta? Ce la faranno ad entrare nei partiti e nelle istituzioni?

    Le domande sono tutte legittime, ma suppongono un dogma dello «sbocco» che non può essere accettato. Quasi che il percorso di queste persone dovesse seguire un itinerario a tappe prefissate: «la scuola», l'impegno nel sin- dicato o nel partito, l'assunzione di responsabilità istituzionali. Uno schema antico, forse adatto agli anni '50, oggi del tutto inservibile.

    La domanda appare mal posta. Potrebbe essere così riformulata: la formazione alla politica realizzata in queste «scuole» è riuscita e riuscirà a ridare forza etica all'azione politica nonché a contribuire a rinnovare una democrazia bloccata?

    Così è possibile abbozzare qualche risposta, consapevoli che la formazione alla politica di alcune migliaia di quadri non può essere considerata uno strumento onnipotente in grado di riformare la politica o di ridare vitalità alla democrazia nel nostro Paese.

    Vale la pena sottolineare che fenomeni quali l'ambientalismo, le Leghe, le diverse «incarnazioni» del partito radicale, hanno inciso nel sistema politico forse più di quanto hanno fatto tante scuole di formazione.

    Un dato è certo, queste scuole hanno costituito nell'area cattolica un'argine a un duplice rischio:

    - il rischio dell'impegno sociale come rifugio dal malessere della politica;

    - il rischio di una diaspora senza cultura politica.

    Circa il primo, va osservato che ogni volta che nel mondo cattolico è venuta ad offuscarsi una dimensione «impegnata» eticamente della politica, c'è stata una sorta di mitizzazione dell'impegno sociale e, a volte, un uso cinico e disinvolto del rapporto con la politica: occupare spazi istituzionali per garantire la durata del «sociale cristiano».[6]

    Non va invece dimenticato che il rifugio nel sociale non sarebbe che un riparo temporaneo, perché ben presto questo sarebbe travolto dalla depressione etica della politica.

    L'altro rischio è quello di una nuova diaspora.

    C'è stato dagli anni '70 in poi una ricca presenza di cattolici in esperienze politiche diverse dalla Democrazia Cristiana. Questo pluralismo è oggi un fatto più che un problema. Il limite risiede nel fatto che questa diaspora non ha dato origine ad una autonoma cultura politica. È rimasta a livello di testimonianza, di coerenza personale, non è riuscita a trasformare gli strumenti della politica: i partiti.

    Alla luce di questo duplice rischio si può affermare che le «scuole» hanno svolto una funzione positiva nell'accrescere la cultura politica di molte persone attivamente impegnate in gruppi di volontariato e di assistenza. Hanno cioè corretto una tendenza, tipica dei primi anni '80, per cui i cattolici con maggior tensione etica si dislocavano unicamente nel sociale.

    Per la maggioranza di queste persone ciò non ha comportato un impegno diretto nel partito o in una istituzione. Ma maggior coscienza e cultura politica potrà sicuramente illuminare in modo diverso il loro lavoro, la loro funzione sociale. Potranno scoprire la valenza politica del loro servizio volontario; potranno risalire alle cause dei malesseri che tentano di fronteggiare; potranno far pressione sulle istituzioni perché correggano politiche sociali ingiuste ed inefficaci.

    Lo «sbocco» insomma non è al di fuori; ciò in forza del fatto che la distinzione tra sociale e politico è in gran parte saltata.

    Non esiste un «prepolitico» che è il sociale e un politico che è l'impegno nei partiti e nelle istituzioni.

    Se la politica è una dimensione diffusa, allora la si può esercitare in modo maturo anche nell'azione sociale, nell'impegno civile.

    Più complesso il giudizio sulla capacità di queste scuole di generare cultura politica, di non ridurre l'impegno politico dei cattolici a pura testimonianza

    Un dato è certo: le «scuole» hanno dato un contributo a far memoria della cultura cattolico-democratica. Memoria che ha conosciuto - nell'ultimo quindicennio - vere e proprie interruzioni generazionali. In secondo luogo, anche se non esistono rilevazioni oggettive, è noto che non pochi partecipanti alle scuole si sono candidati, con risultati alterni, alle ultime elezioni amministrative.

    In tal senso le «scuole» hanno consentito la nascita e lo sviluppo di «vocazioni» politiche; vocazioni di cui la politica ha grande bisogno.

    Ancora: un fenomeno come quello dell'ex sindaco di Palermo che ha lan ciato in questi mesi la proposta di costituire una «Rete» capace di raccogliere tante sperimentazioni e gruppi locali, probabilmente non avrebbe trovato tanto riscontro se non in un terreno già predisposto a percepire il nodo etica- politica come centrale per un rinnovamento di tutte le istituzioni.

    In definitiva, sia che abbiano reso più consapevoli le persone del loro impegno nel civile e nel quotidiano, sia che abbiano generato nuove vocazioni politiche, sia che abbiano contribuito ad una ripresa di ambizioni morali e politiche, il bilancio delle «scuole» appare tutt'altro che negativo. Seminai c'è da rilevare un certo scolasticismo, una interiorizzazione a volte pedissequa dei canoni della dottrina sociale della chiesa, un certo disancoramento dalla vita quotidiana. 

     

    L'APERTURA DI UNA NUOVA FASE

     

    Sembra, a chi scrive, che la fase espansiva delle scuole di educazione alla politica determinatasi prevalentemente per meccanismi di imitazione, sia ormai al tramonto.

    Una certa domanda di primo orientamento alla politica, di riacquisizione della memoria della cultura politica dei cattolici, nonché il rilancio etico della politica, è ormai soddisfatta. Come se il compito di rialfabetizzare alla politica un numero anche consistente di quadri di area cattolica fosse ormai concluso.

    Le scuole sono state strumenti di transizione verso la nuova fase della politica, verso la democrazia dell'alternanza, ma oggi è forse venuto il tempo di mobilitazioni civili in grado di rompere l'immobilismo del sistema politico italiano.

    Le idee guida per gli anni '90 si possono focalizzare attorno a tre polarità.

    - Riforma delle regole del gioco. L'iniziativa referendaria per la modifica della legge elettorale ha visto protatoniste non poche associazioni - prima tra tutte le ACLI -, gruppi e movimenti dell'area cattolica. Una mobilitazione non a supporto di questo o quel partito, ma per conseguire l'obiettivo di restituire ai cittadini la possibilità di scegliere il proprio governo sottraendo tale scelta alle infinite mediazioni dei partiti.

    Le firme sono state convalidate; ora la Corte Costituzionale ha pronunciato il suo verdetto. Resta comunque l'esperienza di una mobilitazione sociale, trasversale a tutte le forze politiche, che ha obbligato i partiti ad uscire dallo stallo e a dichiarare le loro proposte.

    Una parte della «piazza» si è svegliata ed organizzata, e ha obbligato il «palazzo» a mettere a tema la questione elettorale come questione politica discriminante e non come dibattito da salotto.

    La democrazia non vive solo di referendum; ma va detto che sempre di più il cambiamento passa attraverso mobilitazioni di carattere civile, che superano le appartenenze di partito; la contrapposizione non è tra la «piazza» e il «palazzo», ma tra chi vuole conservare la rendita esistente e chi vuole ridare vitalità ad una democrazia che rischia di diventare esangue.

    - La nascita di iniziative quali la «Rete» di Orlando e il «Forum dei cattolici democratici» promosso dalle ACLI o ancora di cartelli quali «Educare non punire», costituiscono forme di iniziativa politica più flessibili, capaci di raccogliere consensi anche tra i non addetti ai lavori, di restituire eticità all'azione politica, nonché di agire in modo diretto su questioni specifiche.

    Sono forme di azione politica non alternative ai partiti, ma dato lo stallo completo della vita democratica nelle nostre forze politiche e l'assenza quasi totale di ricambio di classe dirigente, rappresentano un tentativo di superare la sterile protesta e l'invocazione moralistica di una politica dagli «abiti virtuosi» che non si sa come costruire.

    Lontano dall'essere derive antiistituzionali, queste nuove forme di azione rappresentano forse i germi di una nuova fase i cui caratteri sono appena tratteggiati.

    - Infine lo sviluppo di luoghi di collegamento di iniziative del civile quali «la Convenzione per l'associazionismo» o il «Centro di iniziative per il volontariato», rappresentano probabilmente una sfida per gli anni a venire.

    Autonomia e imprenditività del civile sono i caratteri essenziali di questo processo: autonomia dai partiti e dalle istituzioni oltre le logiche di dipendenza e di clientela; imprenditività come capacità di concorrere alla produzione di ricchezza attraverso la realizzazione di servizi di utilità sociale.

    Questi tre processi - mobilitazione attorno a temi civili di grande rilevanza; nuove forme di azione politica nell'area cattolica; coordinamento tra associazioni e volontariato - sono le frontiere su cui si può ragionevolmente impegnare anche la «riserva» di motivazioni accumulate nelle «scuole di educazione alla politica».

    Non in senso strumentale, bensì come lo sviluppo coerente di un percorso che non è lineare, né senza possibilità di ritorno. 

     

    LA SCOMMESSA DELLA POLITICA: VIVERE LA RAGIONEVOLE SPERANZA

     

    Maritain, insuperato maestro di filosofia della politica, scriveva, in un'opera della sua maturità (L'uomo e lo Stato), che non basta definire una società democratica dalle sue strutture legali; occorre infatti un altro fattore: «quell'energia dinamica» che sostiene il movimento politico, quella spinta vitale che non può essere iscritta in nessuna costituzione, né incorporata in nessuna istituzione, perché per sua natura libera, è l'elemento profetico. Di questo la democrazia non può farne a meno.

    Recuperare l'elemento profetico è la prima priorità della politica; la storia della moderna democrazia ha conosciuto, in diverse epoche, profeti della politica, autentici servitori del popolo: davvero sarebbe lunghissimo l'elenco. Vogliamo solo ricordare che essi hanno consentito la discontinuità, o meglio la paradossalità, rischiando il consenso, che ha permesso alla società umana di intraprendere un cammino nuovo (l'indimenticabile '89 è pieno di avvenimenti di questo genere).

    Senza questo la politica muore, diventa la volontà di potenza omicida; la polis. invece di essere la oikoumene dell'uomo, diventa il concorde formicaio del declino umano.

    La politica, l'umile politica, che non muore è quella che scandisce i tempi dell'uomo della ragionevole speranza: vivere nel «frattempo», nel «non-ancora», la dimensione del Regno.

    È la nostra ispirazione cristiana che ci porta a questo: vivere la dimensione politica, nell'ottica del Regno, significa lo sforzo per una società che non misura la sua vitalità dal grado di benessere raggiunto, ma invece dalla sua capacità di aiutare l'uomo a crescere in umanità.

     
     
    NOTE

    [1] Notiziario dell'ufficio della Pastorale del Lavoro della CEI - n. 8, 1988.
    [2] Notiziario dell'ufficio della Pastorale del Lavoro della CEI - o.c. pag. 8.
    [3] G. Mazzoli, M. Serofilli, Alcune valutazioni sull'esperienza della scuola di educazione alla politica di Reggio Emilia, paper.
    [4] G. Mazzoli, M. Serofilli, o.c., pag. 12.
    [5] G. Mazzoli, M. Serofilli, o.c., pag. 13.
    [6] G. Bianchi, Riforma della politica e ricomposizione delle forme di rappresentanza, paper, Roma, 1990.


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