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    Un nuovo cammino per le associazioni educative



    Giovanni Bianchi

    (NPG 1990-06-31)


    La complessità del problema in questione induce inizialmente ad alcune considerazioni che non direi generali ma piuttosto preliminari. Non voglio ripercorrere ora il dibattito della questione giovanile, ma in ogni caso mi sembra opportuno contestualizzare il rapporto (o l'assenza di rapporto) tra associazioni e organizzazioni più o meno tradizionali e giovani.

    I GIOVANI COME RISORSA, I GIOVANI COME PROBLEMA

    Innanzitutto un dato di realtà della situazione attuale è costituito dalla difficoltà che hanno oggi le associazioni a rappresentare creativamente le nuove generazioni. Ciò mi pare vero al di là delle lodevoli (e vistose) eccezioni e del dato di controtendenza che registra negli ultimi anni una ripresa della partecipazione dei giovani ad alcune associazioni, anche tradizionali.
    Se l'associarsi in modo informale prevale su modalità di adesione a forme associative organizzate, tale distanza non può essere riduttivamente letta in riferimento alle caratteristiche specifiche dei due elementi in questione (le associazioni, i giovani). Il contesto, lo scenario sono, in questo caso, assai più determinanti degli attori. E il quadro di riferimento è costituito da quella che viene ormai correntemente definita «società complessa».
    Questo concetto ha subìto in questi anni il destino comune ad altre «chiavi interpretative», private dei propri significati più pregnanti da un uso tanto intenso quanto, spesso, non appropriato. Eppure il paradigma della complessità ci rappresenta una realtà sociale non solamente «cresciuta» rispetto a prima, ma radicalmente diversa.
    Ci riferiamo, per ciò che più attiene al tema, all'emergere ed imporsi di elementi quali:
    - differenziazioni sociali (di valori, scelte, modi di vita, ruoli sociali, simboli);
    - frammentazione dei percorsi individuali di vita, attraverso diversi ambiti: studio, lavoro, tempo libero;
    - aumento di complessità di saperi e competenze richieste nella vita attiva, non solo nel lavoro ma anche nei settori della partecipazione alla vita civile;
    - incremento delle opportunità di riuscita sociale accompagnato da una nuova forma di selezione sociale (scuola, lavoro, associazionismo).
    Questi elementi essenziali, indicati in modo schematico, contribuiscono in misura notevole - a mio avviso - a determinare comportamenti, atteggiamenti, stili e scelte dei giovani, in generale verso la vita sociale ma anche in modo specifico nei confronti dell'associarsi.
    Se può dirsi caduta la tradizionale opposizione al mondo degli adulti in base a criteri e motivazioni di tipo prevalentemente ideologico (validi fino al termine degli anni '70), la distanza, che pure ad oggi persiste, è piuttosto costituita dall'emergere di nuovi bisogni e categorie di comportamenti.
    Si pensi, ad esempio, al dominio del presente in relazione al modo di vivere la categoria del tempo da parte dei giovani e a come l'enfatizzazione dell'«adesso» implichi una naturale presa di distanza da organizzazioni che hanno fatto del futuro e della trasformazione una scelta ideologica e fondante il proprio stesso esistere.
    Ma il presente come tempo dominante non esprime solo perdita (di una memoria del passato, di un'idea per il futuro); è anche risorsa positiva nel senso di un'accresciuta capacità individuale (generazionale?) a dominare la precarietà e la variabilità, caratteristiche essenziali di ogni processo di complessificazione sociale.
    Un secondo elemento, che al primo risulta strettamente connesso, è costituito dal diffondersi tra i comportamenti giovanili di posizioni di identificazione parziale e «strumentalità» nei confronti della proposta del mondo adulto.
    Questi elementi, sottolineati in particolar modo da F. Garelli in «La generazione della vita quotidiana», delineano un quadro di realizzazione delle identità giovanili «a mosaico», anche in questo caso faticosamente compatibili con proposte anche associative che, quando anche non si presentano come totalizzanti ed esclusive, sono in ogni caso tendenzialmente coinvolgenti.
    Oggi, invece, i giovani non si accostano ad un'associazione con una decisione per così dire globale, che li faccia cioè aderire con una immediata e totale disponibilità. Il loro invece è un tipo di accostamento per tappe successive, attraverso mille cautele e tanti percorsi particolari.
    Emergono quindi, per limitarci solo all'indicazione di alcune tendenze dei comportamenti giovanili, nuovi bisogni, stili e realtà.
    In questo senso sarebbe scorretto rappresentare l'associazionismo, meglio le associazioni, come un corpo unico, coeso, quando invece - anche al loro interno - notevoli sono le differenze e le specificità.
    Così, se maggiori sembrano essere le rigidità dell'associazionismo politico, e quindi la sua «distanza» dalla condizione giovanile, in crescita risultano forme nuove di aggregazione (volontariato, associazioni naturalistiche ed ecologiche) come anche soggetti tradi zionali ma attenti a nuove sensibilità, come è il caso dello scoutismo.[1]
    Bisogni e soggetti segnano quindi percorsi mutevoli, talvolta coincidenti, spesso distanti, ma mai rigidamente disposti.
    Il problema della distanza tra associazioni e giovani, connotato oggi come si è visto secondo modalità specifiche e per molti versi nuove, esiste in ogni caso e riguarda ogni soggetto associativo organizzato. Direi che il fatto di sentirsi interrogati da «distanza» ed «estraneità» è una esigenza di ogni autentica esperienza democratica (e quindi dell'associazionismo)• essa è chiamata ad occuparsi anche di quelli che non si occupano di lei.
    Possiamo certo approfondire senso e problemi dell'azione associata di giovani rivolta ad altri giovani. Ma quali giovani associati per quali altri giovani?
    A questo proposito non disponiamo di dati «univoci», oscillando lo stato delle ricerche sull'argomento in Italia tra indagini a vasto raggio ed analisi qualitative.
    La già citata ricerca di Garelli sulla realtà piemontese, limitata quindi ma in ogni caso esemplificativa, tracciava il profilo del giovane associato secondo caratteristiche prevalenti di diversa natura: «... la propensione associativa interessa più i residenti nella metropoli che nelle altre zone della regione, e relativamente più le femmine che i maschi, più i giovanissimi che i giovani. L'opportunità e la pratica associativa varia quindi in funzione, oltre che di caratteristiche socio-culturali dei giovani, anche di fattori di contesto. Il risiedere in una metropoli aumenta le probabilità associative e ciò sia per le maggiori opportunità offerte sia per il modello di vita più differenziaso che caratterizza il contesto socioculturale d'una grande città…»
    I dati raccolti dalla seconda Ricerca IARD sulla condizione giovanile in Italia, confermano il dato dell'appartenenza di classe tra coloro che aderiscono all'associazionismo (63% tra i giovani di classe superiore, 40% per i ragazzi di estrazione inferiore); mentre una ricerca del CENSIS sottolinea una situazione di squilibrio tra Sud del Paese (52,8% di non partecipanti ad associazioni), Centro (36,4%) e Nord (39,9%).
    Al di là di dati di natura quantitativa, il problema pare essere costituito dal fatto che, come diceva Garelli, l'associarsi costituisce oggi per un giovane un «vantaggio sociale» che però, proprio per questo suo essere «vantaggio», risulta per taluni giovani un'ulteriore opportunità accanto ad altre già presenti (famiglia disponibile e motivante, scuola, lavoro...) e per altri un fattore di discriminazione.
    Se questa è una condizione facilmente rilevabile, ulteriore problema è costituito per l'associazionismo dalla difficoltà a mantenere fede, in questa situazione, a quella che è una delle proprie specificità: la vocazione educativa.

    I MILLE PERCORSI DELL'EDUCARE

    La scelta educativa costituisce, per un gran numero di associazioni giovanili, la ragione stessa del proprio organizzarsi. L'accrescersi ed esplicitarsi di questa tendenza si è verificato però in una fase nella quale il concetto stesso di educazione ha subìto critiche e trasformazioni radicali.
    Dinanzi a processi di complessificazione sociale, come sono stati in precedenza sinteticamente richiamati, occorre oggi registrare l'esaurimento del ruolo dei modelli educativi totalizzanti, incapaci di rispondere alle differenziazioni dei bisogni educativi emergenti.
    Questo dato interroga le istituzioni e le organizzazioni impegnate in ambito educativo ma, più radicalmente, suscita il problema della crisi di concezioni educative fondate essenzialmente sulla trasmissione di valori, visioni di vita e proposte di trasformazione della realtà.
    È questa una crisi delle ideologie educative e di tutti quei comportamenti sociali implicitamente educativi, tra i quali è possibile includere anche diverse esperienze associative.
    Il constatare le difficoltà, spesso implicite, delle proposte formative non sensibili a nuovi bisogni e alle trasformazioni sociali, implica anche considerare le possibili nuove modalità di costruzione delle identità giovanili attraverso i processi educativi.
    Rinunciare a concepire la dinamica di definizione dell'identità attraverso un semplice processo di trasmissione può significare, in positivo, il riconoscimento che la pluralità di bisogni educativi presenti nella condizione giovanile non è affrontabile da un unico «luogo» educativo, ma necessita della presenza di più soggetti.
    Entrare nella vita adulta si presenta oggi come un percorso non lineare ma, spesso, contraddittorio e difficile. I luoghi e i tempi educativi si sono moltiplicati: scuola, famiglia, istituzioni, gruppi informali, gruppi organizzati, associazioni, servizi sono frequentati dal giovane spesso contemporaneamente. A nessuno oggi è concesso, né è possibile, a questo proposito, operare sintesi al posto del giovane stesso, che è chiamato in prima persona a discernere tra le opportunità e a costruire un proprio progetto educativo. Si comprende come una tale situazione sia lontana, nella propria incertezza e complessità, dalle rassicuranti ed esaustive proposte educative di un passato anche recente.
    Eppure non si può parlare, in questa prospettiva, di esaurimento del ruolo dell'educazione. Se la crisi non è di strumenti e metodi ma - ci pare - di senso, è però altresì vero che il bisogno educativo si è fatto più presente in questi anni tra i giovani. Non ci riferiamo solo alla crescente domanda formativa ma, ad un livello più approfondito, a una reale volontà giovanile di non dilazionare indefinitamente il momento di passaggio alla vita adulta né di delegarne ad esperti o istituzioni le modalità.
    All'interno di questo quadro come si collocano le proposte associative?
    Da un punto di vista educativo la scelta di associarsi è, per dei giovani, una scelta «forte», rivelatrice di quella che è possibile definire una «relazione finalizzata». Proprio questo fatto costituisce però potenzialmente una contraddizione per taluni giovani. Intendo dire che se per stabilire relazioni significative, consapevolmente indirizzate a fini comuni, è necessario - come è ovvio - un determinato livello di benessere personale e di disposizione positiva al «fare progetti» su di sé e con altri, ciò conferma il dato prima accennato dell'associazione come «vantaggio» sociale aggiuntivo per chi ha già saputo cogliere alcune opportunità importanti.
    L'esclusione dal processo educativo che avviene all'interno dell'associazione è quindi assai difficile per quei giovani che attribuiscono alle relazioni sociali (con i pari, gli adulti, le istituzioni), un significato prevalentemente strumentale.
    In questo senso, la capacità di elaborare un progetto (che è poi progetto di vita) non può costituire quasi un requisito di partecipazione alla vita associativa, ma è una meta stessa dell'educarsi con altri, raggiungibile da ognuno in tempi e secondo modalità differenti. Un'associazione che non intende trasmettere educazione ma consentire progetti personali e di gruppo si configura quindi come uno «spazio a disposizione» dei giovani, non neutrale certamente, ma che intende educare soprattutto facilitando i percorsi individuali di ricerca di identità.
    Un'ulteriore osservazione critica, a questo proposito, è relativa al concetto stesso di «progetto», o meglio all'uso che oggi ne viene spesso fatto. Mi sembra che al «progetto» e al «progettare» sia stata spesso atttribuita, anche da chi come noi è attivamente impegnato in ambito educativo, una valenza quasi demiurgica, come se con questo strumento fosse possibile governare una complessità altrimenti dispersa.
    Un'enfasi eccessiva, che rischia di non far apprezzare il concetto (e lo strumento) per quello che di veramente utile può darci. Così ormai tutto ciò che è iniziativa e attività (o attivismo) può essere inopinatamente detto progetto, a prescindere da specificità del contesto, dei soggetti coinvolti. Sappiamo però che ogni pedagogia del progetto non è un'architettura astratta, un contenitore vuoto, ma attinge il suo senso dalla situazione concreta nella quale si realizza. E in particolare dal grado di coinvolgimento di coloro ai quali si rivolge: è progetto educativo, cioè, nella misura in cui diventa progetto personale per ognuno dei giovani che vi partecipa.

    DALLE CONTRADDIZIONI DI OGGI AL SIGNIFICATIVO DI DOMANI

    Gli elementi sin qui proposti – mi rendo conto - sono prevalentemente critici. Proprio dall'evidenziazione consapevole delle contraddizioni presenti nel nostro agire educativo possono peraltro nascere fertili ipotesi per il futuro.
    Innanzitutto sembra configurarsi la necessità di una scelta strategica di fondo per le associazioni, una trasformazione radicale che mi pare efficacemente sintetizzata dalle conclusioni di una recente ricerca condotta sul rapporto tra «emarginazione ed associazionismo in Italia»: «... si tratta inoltre di una trasformazione assai importante che va da una vecchia forma di solidarietà di gruppo, difensiva ed entro- pica ad una solidarietà attiva, progettuale, aperta, al servizio del prossimo, integrata a promuovere cambiamento e nuovi stili di vita. È un associazionismo centrato sulla concretezza e rivolto alle persone...».
    Un'impostazione di questo tipo concentra l'ottica del cambiamento non tanto sul soggetto al quale si chiede di aderire all'associazionismo, ma su coloro che sono già promotori dell'azione educativa.
    I nuovi «stili di vita» ai quali si fa cenno sono, crediamo, le scelte interne all'associazione stessa, che ne esplicitano all'esterno l'identità. Una testimonianza di un gruppo di militanti della GiOC rende chiaramente questo senso profondo del processo educativo: «... abbiamo scoperto, come educatori, cose inestimabili: ci siamo educati. Valutiamo positivamente l'esperienza fatta nonostante tutte le difficoltà. È fondamentale cogliere i cambiamenti e le scelte di ognuno di noi, perché solo analizzando le nostre trasformazioni possiamo scoprire la capacità del progetto di Dio di trasformare in grande.
    Si profila quindi un graduale passaggio dal prevalere della scelta di associarsi come opportunità per manifestare opinioni, valori, ideali di una parte (la più attiva) del mondo giovanile, ad una concezione dell'associazionismo come accoglienza, spazio di cittadinanza per chi è in condizioni di marginalità. Né si tratta, in questo caso, di appello volontaristico ma, piuttosto, di un lasciarsi rifondare da ciò che non è rappresentato (anche associativamente). Quell'area di popolazione giovanile che vive in spazi marginali per ragioni di diversa natura (insufficiente istruzione, mancanza di qualificazione, disagio personale, difficoltà familiari...) potrebbe essere non più solo destinataria dell'azione delle associazioni giovanili, ma reale opportunità di nuova crescita per esse?
    Chi è marginale lo è, oggi, anche rispetto a gran parte dell'associazionismo; eppure la spirale dell'insuccesso personale e della marginalizzazione può essere interrotta.
    Due sembrano essere le direttrici di sviluppo, in questo senso.
    Da un lato la frequentazione sempre più attiva di situazioni di «confine». Pensiamo alla valorizzazione e al potenziamento di esperienze sul campo condotte da diverse associazioni in contesti cosiddetti «difficili»: i carceri minorili, i quartieri disagiati delle grandi città del Sud, i ghetti degli extracomunitari, i campi nomadi. Comportamenti nuovi e considerati «diversi» rimettono in discussione il concetto corrente di normalità; nuovi linguaggi contaminano quelli consolidati.
    D'altro canto, strategica è sembrata in questi anni l'opzione educativa operata da molte associazioni per la «prevenzione» come strumento di azione nei confronti della marginalità giovanile. Le specificità associative indirizzano poi un'esperienza più verso il versante della prevenzione cosiddetta «primaria» (le associazioni «tradizionali», ad esempio), ed altre nel campo dell'intervento preventivo «secondario» o «terziario» (comunità, gruppi di volontariato, esperti collegati ad associazioni).
    Non si intende, in ogni caso, attribuire collocazioni rigide ed attribuzioni di ruolo ma, piuttosto, richiamare ancora una volta la necessità di un procedere integrato tra soggetti diversi.
    Queste prospettive possono svolgere un ruolo realmente provocatorio non solo all'interno delle associazioni ma nel più ampio tessuto sociale.


    NOTA

    [1] Il Rapporto 1990 del Consiglio Nazionale dei Minori, sottolinea come: «Risulta dunque un significativo incremento nell'impegno in gruppi ecologisti e di difesa della natura, anche nelle più giovani classi di età. Gli iscritti al WWF di età compresa fra i 5 ed i 14 anni, ad esempio, si sono triplicati nel breve giro di tre anni. Anche lo scoutismo fa registrare un incremento, lievissimo nel caso della versione «laica»(CNGEI), e più deciso per quanto riguarda la versione cattolica rappresentata dall'AGESCI: in quest'ultimo caso, in particolare, è interessante mettere in evidenza la capacità di richiamo che lo scoutismo sembra assumere per le più alte leve dell'universo minorile»


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