Agnes Heller
(NPG 1990-09-41)
Quattro tipi di cultura mi sembrano determinanti, oggi: la cultura dei rapporti personali, la cultura politica, la cultura
del gusto e, in fine, la cultura delle credenze e della fantasia.
Per «cultura» intendo una combinazione - con piccole modifiche - del concetto greco di paideia con quello tedesco di Bildung.
Il termine «cultura» racchiude l'aspetto «normativo» delle forme di vita, le quali richiedono che le doti umane (emotive, mentali e, talvolta, anche fisiche) si sviluppino in un modo tale che, praticare appunto la «cultura», divenga una questione di carattere.
Allora, una cultura così intesa, non può fare uso della nozione di «sfere culturali», né la distinzione fra cultura «alta» e cultura «bassa».
Per esempio guardare la televisione non rientra in questa sfera.
Non perché si tratta di cultura «bassa», ma perché non contribuisce con alcun contenuto specifico - sia esso spirituale o etico, positivo o negativo - alla modernità. Per contro, la violenza dei teppisti - quando la motivazione è «normativa» - può essere considerata cultura in quanto contiene tutte le componenti necessarie a una cultura.
L'esperienza ci insegna che i modi di vita che fomentano la violenza possono essere radicati nella modernità. Tuttavia le culture di questo stampo sono state messe ai margini nell'Europa contemporanea.
Perciò, parlando brevemente delle quattro culture, io parlerò unicamente di quegli aspetti normativi di modi di vita che possono essere impregnati dello spirito di tolleranza.
L'emergere di una moda
A causa della separazione fra Stato e società civile e della crescente «pluralizzazione» di modi di vita nel mondo moderno, tutti e quattro i tipi di cultura hanno una propria dinamica.
Ed è proprio questo che fa la cultura moderna così diversa da quella antica. Così un tipo di cultura può essere forte, mentre l'altro può essere debole o praticamente inesistente.
Una particolare cultura può essere condivisa da molti mentre un'altra no. E ancora: un aspetto particolare di una cultura può essere condiviso, mentre altri aspetti rimangono soltanto specifici di una cultura.
Se parliamo di democrazia, si può presumere che la cultura politica sia comune ai cittadini dei diversi Stati. Ma, allo stesso tempo, non ci si può aspettare che l'intera popolazione di ogni singolo paese si ispiri ancora al «Libro» unico, come succedeva nell'America protestante.
Perché c'è soltanto un libro, e nessun altro, che deve essere conosciuto e continuamente interpretato dall'intera popolazione: la Costituzione, oppure un suo equivalente.
C'era una verità essenziale nella posizione dei critici della cultura degli anni Cinquanta e Sessanta: il consumo non è un'istanza culturalmente creativa. Se modellati unicamente dalle forze di mercato e dai «mass media», tutti i modelli «formali» di vita rimangono lettera morta.
Il problema fondamentale non consiste nel fatto che molta gente faccia la stessa cosa (ad esempio, accendere le candele sulla tavola per la cena, oppure mettere un disco prima dell'arrivo dell'amante), ma nel fatto che questo tipo di cerimonia abbia o meno un rapporto organico con la vita nel suo insieme; e che possa sempre cambiare in qualsiasi momento con l'emergere di una nuova moda.
Non possiamo biasimare unicamente le forze di mercato per questo sperpero di un patrimonio culturale di alto livello, o per non averlo arricchito o per averlo sostituito con un altro. E non è colpa delle varie popolazioni se «consumano» stili di vita invece di praticarli. Da tempo gli intellettuali occidentali si sono infatuati della modernità in maniera così eccessiva che si sono messi a misurare il progresso con il metro della modernizzazione.
Per i fondatori della modernità servivano, nell'ordine: l'ingegneria, la fisica, la chimica, la matematica applicata e forse anche l'economia. Gli studi umanistici puri sono sembrati totalmente superflui con la sola eccezione della lingua madre, della letteratura e della storia nazionali. L'impostazione europea degli studi è diventata, da un lato «realistica» e «pragmatica» e dall'altro, appunto, nazionale. Questo perché servisse come preparazione per la vita «reale».
Il recupero dell'«inutile» passato, con l'intenzione di fare qualcosa di utile per una vita «reale», ha interessato prima la classe operaia e, successivamente, l'intera popolazione, tranne una piccolissima élite. L'istruzione è diventata così un grosso affare di distribuzione del sapere e, al tempo stesso, la fucina del nazionalismo. L'utile e la nazione sono diventati le due stelle del firmamento. moderno.
L'istruzione, e la scuola superiore in modo particolare, è il più grande disastro culturale dei tempi moderni.
In sostanza, il sapere non può essere distribuito là dove mancano una cultura etica e spirituale (è un discorso ampio che qui non possiamo affrontare). Più la seconda si avvizzisce, più la prima si fa inefficace.
Dopo un secolo di costanti innovazioni, perfino l'analfabetismo retrocede, non è più un grande problema per il mondo «civilizzato».
Forse la democrazia non ha bisogno di un'élite culturale che sia equivalente a un'élite sociale (con relativo potere e prerogative finanziarie).
I sofisti in Grecia così come i predicatori protestanti all'inizio della storia americana, con il loro ruolo di «fomentatori», suggeriscono un nesso fra il vigore della presenza di un'élite culturale e la forza di una cultura etico- spirituale.
Il contenuto etico della modernità in generale è di livello basso, spiritualmente è quasi inesistente.
Finché il guscio era riempito dalle culture tradizionali (incluso un forte nazionalismo culturale), il vuoto non è stato interamente percepito: ma ora è arrivato il momento della verità.
Sinora, perfino la produzione economica, lo sviluppo industriale e la competitività dei paesi europei dipendevano da qualcosa che appariva superfluo dal punto di vista utilitario e nazionalista: i quattro tipi di cultura che non devono essere necessariamente nuovi.
Nuova però deve essere la prospettiva, che è quella di un nuovo rinascimento europeo tutt'altro che impossibile.
L'estensione della cultura politica democratica alle forme di cooperazione fra gli stati-nazione europei è una di queste prospettive.
Non è necessario in questo contesto rievocare ancora una volta alcuni ideali umanistico-rinascimentali.
Anzi, va detto che coltivare gusti e stili di vita comuni non crea unità culturale oggi, come invece succedeva ai tempi dell'umanismo rinascimentale. Si verifica proprio l'opposto, aumenta le differenze.
Linguaggi universali
Tanto più è sofisticata una particolare cultura (gusto o stile di vita) tanto meno le frontiere nazionali saranno capaci di contenerla. Questo è vero in particolar modo per la fantasia e la spiritualità, in quanto informano la cultura politica e in quanto rimangono parte di pratiche creative e giudizi di gusto.
Le élites culturali, benché diverse di natura, diventano sempre più cosmopolite.
Le eccezioni del passato - ebrei e «zingari culturali» - sono sempre meno eccezioni, al contrario.
Per di più, le culture europee potrebbero ritrovare i loro testi in comune. Al linguaggio universale della matematica e fisica, può essere aggiunto il linguaggio universale della pittura, della musica e della filosofia.
È in atto proprio questo processo. Dopo il grande secolo delle nazioni - letterature nazionali, musica nazionale, filosofia nazionale e pittura nazionale - l'arte e il gusto post-moderno hanno superato le frontiere delle singole nazioni.
Così l'orologio dell'Europa va avanti tornando indietro.
Forse domani il greco e il latino, la poesia e la retorica, la matematica e la filosofia, la mitologia e gli altri studi umanistici, torneranno a far parte dei programmi delle scuole europee: per i ragazzi di tutte le classi sociali e di tutte le origini, per ricchi e poveri, a tutti i livelli e per tutti. Ethos, bellezza e fede sono motori del mondo, il nostro come quello dei nostri antenati.
La cultura post-moderna sarà una cultura dei libri - come ci fu una cultura del Libro.
La carta stampata non sarà solo merce, avrà un significato. In questo senso il rinascimento in Europa comprende anche la grande fiera europea del libro.
(Agnes Heller, Repubblica, 17 maggio 1990)