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    L'interiorità per vivere l'impegno da uomini maturi e credenti



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1990-07-22)


    Di solito, il primo momento di ogni studio serio è destinato a chiarire i termini. Molti di noi si sentono insicuri quando sono costretti a manipolare espressioni che possono risultare un po' equivoche.
    Quando abbiamo agito così, ci siamo imbarcati in discussioni tirate, alla ricerca delle espressioni meno pregiudicate. E, in genere, siamo approdati a poco o a nulla.
    I momenti più felici del nostro cammino verso un progetto di spiritualità sono stati quelli, invece, in cui ci siamo entusiasmati sulle intuizioni, non abbiamo avuto paura delle parole e abbiamo incominciato a far girare tra di noi questo patrimonio culturale e linguistico "non ben identificato". "Dopo" (e cioè dall'interno di una condivisione appassionata), abbiamo cercato di far chiarezza, precisando termini e definendo condizioni. Abbiamo riconquistato in una comprensione riflessa quello che sapevamo di possedere nella passione e nella fantasia.
    Anche la ricerca sull'interiorità risente, per fortuna, di questo stile, poco ortodosso...
    Abbiamo parlato di interiorità tre o quattro anni fa. E qualcuno ricorda lo stupore e le reazioni diverse suscitate dal suo richiamo. Abbiamo poi ripreso il tema nelle ricerche successive, soprattutto per riformulare l'intuizione delle prime battute. Ora siamo in grado di lavorarci dentro con la calma necessaria, per dire finalmente di che cosa si tratta.
    Sono contento di costatare che vogliamo parlare di interiorità nel contesto e nel clima di una ricerca su come costruire pace, solidarietà, giustizia, rispetto del creato, una nuova società dove tutti siano accolti e possano abitare con gioia e responsabilità.
    Interiorità e impegno sono i due volti di una stessa esistenza, trascinata nella voglia di cambiare le cose d'attorno, perché tutti abbiano vita e ne abbiano in abbondanza, e costretta continuamente ad interrogarsi per quale vita impegnarsi, perché sia veramente vita-per-tutti, e su quale fondamento ancorare la speranza, nella dura lotta tra morte e vita.
    Qui sta il centro della mia proposta: affermo la necessità di diventare uomini dalla profonda interiorità, proprio mentre sento il bisogno di riscattare questo stile di vita dai modelli gretti e ristretti in cui spesso l'abbiamo imprigionato.
    Non ho la pretesa di chiarire a puntino questi grossi problemi, né quella più pericolosa di dire cosa fare e cosa evitare. Mi riprometto solo di mettere un po' in crisi, costringendo a pensare, per trovare assieme prospettive e ipotesi praticabili.
    Meditando su questi temi, la crisi l'ho provata in prima persona: mi piacerebbe proprio che l'esperienza si allargasse.

    VERSO L'INTERIORITÀ

    Pace, solidarietà, giustizia, accoglienza e promozione della vita di tutti sono "beni messianici": sperimentabili pienamente solo nella casa del Padre, possiamo sognarli e tentare di assicurarli nel ritmo quotidiano della nostra esistenza perché il Regno di Dio è già tra noi, come esito del dono di vita nuova che per tutti è il Crocifisso risorto. Come tutti i doni di Dio, richiedono però impegno duro e lotta coraggiosa, in una continua e intensa collaborazione responsabile.
    Questa costatazione ricorda un dato di cui siamo oggi molto coscienti e che emerge con crescente chiarezza nel nostro progetto di spiritualità: invochiamo da Dio i suoi doni e ci impegniamo continuamente per costruirli e per consolidarli.
    Chiamiamo "impegno sociale e politico" la fatica delle nostre mani. Lego assieme i due aggettivi "sociale" e "politico" per dare a ciascuno quella risonanza culturale e strutturale che loro compete. In ogni impegno sociale e politico ruotano infatti tre elementi: gestione del potere, creazione delle condizioni oggettive che consentano a tutti la realizzazione del proprio destino, un quadro di valori come orizzonte ispiratore della prassi e suo punto di verifica.
    Possiamo assicurare pace e solidarietà, costruire giustizia e rispetto del creato, solo mediante un serio impegno politico, capace di esprimere la nostra fede e la nostra speranza.
    Uno sguardo, anche rapido e schematico, ai problemi che lo attraversano, convince facilmente di alcune esigenze. Esse configurano il bisogno di una qualità nuova di esistenza personale che chiamo "interiorità". L'interiorità è davvero, per me, la condizione irrinunciabile per vivere l'impegno sociale e politico da uomini maturi e da credenti.

    Un nuovo discorso politico

    Oggi parliamo di impegno sociale e politico, con una coscienza nuova. È importante non dimenticarlo, per le conseguenze che nascono proprio sul problema dell'interiorità.

    Attorno alla vita e alle sue esigenze
    All'inizio degli anni settanta, lo sguardo verso il futuro ha peccato di mancanza di realismo e di quella fretta che nasceva dalla speranza.
    Oggi, però, la politica si trova soffocata in una trama, intricata e triste, di connessioni, di rilanci e di resistenze, tale da giustificare la diffusa sfiducia verso le istituzioni. Degradata a pragmatismo, diventa corsa massacrante alla conquista e alla gestione clientelare del potere, con l'unica preoccupazione di stabilire bene i compagni di cordata.
    Per ritrovare progettualità e speranza, anche per la politica punto di riferimento non può essere che la vita, la comprensione, condivisa e sofferta, di cosa la distingua dalla morte e la ricerca appassionata delle condizioni che permettano a ciascuno e a tutti di possederla in pienezza. In causa c'è quindi, senza mezzi termini, i problemi fondamentali dell'esistenza: quelli che riportano l'uomo nel confronto con la sua immagine e con il progetto su cui accetta di misurare i suoi sogni e le sue ricerche.
    Qualcosa si sta muovendo in questa direzione. Siamo critici rispetto ad un modello di politica proprio perché stiamo intravedendo i frammenti di un modo rinnovato di intenderla e di realizzarla.
    Si manifestano un'attenzione e una partecipazione diffusa nei riguardi dei problemi della quotidianità, di relazioni interpersonali e con l'ambiente, delle interazioni a livello sociale. Si fa strada la disponibilità ad assumere a vari livelli progetti caratterizzati da concretezza e aderenza al reale in quanto "possibile". Grossi avvenimenti dello scacchiere mondiale sembrano restituire fiducia al "fare politica" come modo incidente e maturo di affrontare anche i problemi più complessi.
    Nasce insomma il bisogno di collocare le esigenze della vita prima di ogni altra cosa.
    Quando, come in questo caso, l'alternativa è sui valori, sono convinto che la carta da giocare è il coraggio della speranza e la fantasia nell'invenzione.
    Lo sguardo verso il passato è prezioso e irrinunciabile; ma solo come condizione per lanciarsi "temerariamente" (come diceva don Bosco di sé, pensando al bene dei suoi "cari ragazzi") verso il futuro. La qualità sognata della vita e la sua vittoria concreta e definitiva sulla morte non sono la ricostruzione di un tempo felice che abbiamo respirato all'inizio del nostro cammino o nell'entusiasmo di "stato nascente" di qualche suo frammento.
    Sono nel tempo e oltre il tempo. Lo diciamo nella fede, per dare una interpretazione di verità al presente che condividiamo con tutti gli uomini.
    Per questo un modo nuovo di fare politica richiede il coraggio di inventare frammenti di futuro nel tempo duro della necessità e della lotta.

    La compagnia sui valori
    Certo, inventare "vita", in una prospettiva piena di futuro, è impresa tanto grande che riesce difficile, anche per i credenti, immaginare un'unica risposta o pretendere di possedere la migliore. Tutti siamo sollecitati a cercare, accettando il confronto con esigenze che giudicano ogni ricerca e inquietano ogni risposta.
    Possiamo cercare solo assieme a tutti gli uomini che amano sinceramente la vita, mettendo la comune passione al servizio di una causa di profonda responsabilità.
    Tutto questo significa che un impegno politico per la pace, la solidarietà, il rispetto del creato, la promozione della giustizia e dei diritti di tutti i popoli non può essere spartito (anche etimologicamente si ricorda la necessità di superare i "partiti"), ma va condiviso. L'unica discriminante è segnata dal confine netto tra vita e morte: chi vuole la vita, sta da una parte; chi cerca la morte sta inesorabilmente dalla parte opposta.
    La compagnia sui valori si allarga ad un vero respiro universale: non abbraccia solo il dialogo tra est ed ovest, ma cerca fraternamente e responsabilmente anche quello tra nord e sud del mondo.

    Da credenti
    Un impegno politico, poggiato su nuove basi etiche, chiama subito in causa l'esperienza di fede del credente.
    Il credente impegnato in politica si trova a gestire un'impresa ad alto rischio.
    Qualche volta è tentato di distinguere l'ambito della fede da quello della politica, per lasciare ciascuno alle prese con le sue logiche e con le prospettive così diverse che lo caratterizzano. Riesce a fare un po' di pace dentro, accettando di dividersi in due tronconi che non litigano solo perché non si parlano mai. Al massimo, la sua fede serve a motivarlo all'impegno politico e a sostenere la sua pazienza quando i ritmi diventano duri.
    Spesso invece il credente rischia di portare di peso nella politica le logiche che caratterizzano l'ambito della fede: quell'orizzonte di definitività dove tutto risulta chiaro e sicuro, perché sprofondato nel mistero di Dio. E così anche in politica dominano le espressioni sicure e i principi assoluti, con la pretesa di saper interpretare la realtà in tutte le sue sfumature o di risolverne la complessità con un pizzico di buona volontà in più.
    La prospettiva maturata nella nostra ricerca sulla spiritualità è, ancora una volta, diversa.
    La politica va rispettata nella sua autonomia e laicità: dalla fede non si può dedurre direttamente un modello politico di società, di governo; essa non offre ricette di organizzazione sociale, politica ed economica.
    La fede si pone però come la coscienza critica della politica, assumendo una funzione profetica e creativa, suggerendo scelte coraggiose e aperte. Restituisce alla politica la sua profonda risonanza etica, perché contrasta duramente ad ogni tentazione di ridurre l'impegno storico ad un semplice gioco di potere, senza orizzonti valoriali.
    Luogo di riconciliazione tra le esigenze della fede e il rispetto dell'autonomia di ogni umana avventura, è la nostra soggettività: uno spazio, povero e fragile, a cui fa da "grembo materno" il sostegno della comunità ecclesiale e il riferimento ai fratelli che lo Spirito ha posto in essa per orientare il cammino verso la verità.

    Dalla qualità dell'impegno alla qualità della persona

    Ho ricordato alcune esigenze per un autentico impegno nel sociale e nel politico: la capacità di compagnia con tutti coloro che stanno dalla parte della vita, il coraggio di inventare una nuova qualità di vita, per restituire tutti (e i più poveri soprattutto) alla vita, il recupero continuo della dimensione credente anche nell'impegno politico.
    Se ripensiamo con un po' di calma a queste esigenze, ci accorgiamo che la qualità dell'impegno chiama inesorabilmente in causa la qualità della persona che si impegna. C'è di mezzo un modo di progettarsi e di vivere come uomini, nel concreto di questo nostro tempo e sotto la pressione, che spesso toglie il respiro, delle tante cose da fare per la trasformazione culturale e sociale.
    Siamo chiamati a giocare la nostra identità di cristiani, accettando con gioia quella compagnia con tutti gli uomini che sembra spesso minacciarla. Dobbiamo scatenare progettualità, invenzione del futuro, capacità di sognare, conservando bene i piedi per terra, per il realismo che esige il servizio alla vita dei poveri. Ci serve il coraggio di proclamare forte le esigenze della vita, resistendo con tenacia e fierezza a chi si accorge dell'uomo e dei suoi drammi solo quando spera di raggranellare una manciata di consensi.
    Facciamo fatica ad essere uomini così. Le cose ci prendono e ci inquietano. Non abbiamo più spazio tranquillo per pensare e vagliare. Crediamo alla vita e non sappiamo mai bene cosa distingue radicalmente la vita dalla morte, in un tempo in cui persino i mercanti di morte hanno imparato a vendere i loro prodotti mortiferi, cercando di sedurci nel nome della vita.
    Il riferimento alla fede diventa modello spicciolo di fare le cose o si svuota in un orizzonte ultimo, dove tutto si confonde e si stempera. Lo costatiamo tutti i giorni. Ci sono dei cristiani che ci fanno paura: procedono sicuri e impettiti nel nome di Dio, come se fossero stati da lui a cena la sera prima e, tra un bicchiere e l'altro, gli avessero carpito qualche segreto che ora svendono con il contagocce. Ma purtroppo ce ne sono tanti altri che di cristiano conservano solo l'etichetta: il vestito bello da indossare nelle cerimonie ufficiali.
    In fondo, era più comodo collegare il tema della spiritualità alle sole espressioni religiose della nostra esistenza cristiana. Bastava aggiungere, togliere o modificare qualche pratica... e tutto sembrava risolto.
    Trascinata nella vita di tutti i giorni, collocata nel cuore della prassi politica, ci troviamo inquieti alla ricerca della nostra identità, senza poter più fermare il mondo, nell'attesa di risolvere bene le nostre crisi.
    Qui si colloca, secondo me, il bisogno di interiorità.
    Non è l'alternativa all'impegno sociale e politico; è invece una qualità di esistenza, che stimo indispensabile per non disperdere il cammino della vita sotto l'urgenza affannosa delle cose da fare e per realizzare un impegno sociale e politico secondo le caratteristiche di cui ho appena parlato, ritrovando "dentro" il coraggio di resistere.

    RISCATTARE L'INTERIORITÀ DALLE SUE DISTORSIONI: LA PARABOLA DEL DESERTO

    L'ho già ricordato all'inizio. Le prime battute sull'interiorità, hanno suscitato stupore e meraviglia. Qualcuno ha concluso: finalmente la spiritualità ritorna a dire cose serie. Qualche altro era preoccupato: e se fosse davvero il tentativo di fare marcia indietro?
    È innegabile: interiorità evoca fantasmi lontani e sepolti. Il suo richiamo proviene da contesti spesso disattenti ai problemi reali dell'esistenza quotidiana. Sembra mettere in primo piano prospettive che la spiritualità della vita quotidiana aveva giustamente ridimensionato.
    Non vogliamo certo rinunciare a quello stile di esistenza cristiana che ci ha permesso di ritrovare, in un'unica passione, l'amore alla vita e al suo Signore. Abbiamo però paura di naufragare in una esperienza tutta esteriore, giocata all'insegna delle cose e dei gesti, facendo magari convivere nella nostra vita logiche e atteggiamenti che di evangelico hanno davvero poco.
    Nei primi passi della nostra ricerca, abbiamo vissuto questa esperienza un po' conflittuale sotto il segno di una immagine biblica, affascinante e ambigua: il deserto.
    Ci ha provocato la riscoperta del deserto e delle sue esigenze, per assicurare una qualità più intensa di vita umana e cristiana. Ci inquietava però la costatazione che spesso questa riscoperta era accompagnata dalla fuga e dal disimpegno. Ci veniva facile fare battute su quel tipo di deserto, di cui giovani e educatori si erano invaghiti, per riaffermare la nostra preferenza per una spiritualità della vita quotidiana. Il tema del deserto è ritornato però spesso, come uno di quei ritornelli che ti martellano dentro senza sapere il perché e che ti viene di canticchiare a mezza voce senza speciali ragioni.
    E così, un po' alla volta, proprio attorno al "deserto" è stato possibile recuperare l'esigenza dell'interiorità, riscattandola dalle distorsioni di cui ha sofferto in tanti modelli di spiritualità, catturati dalla paura dell'esistente e protesi nella fuga, tentata o sognata, verso oasi tranquille.

    Deserto e vita quotidiana

    Liberare l'interiorità dalle sue alterazioni significa passare dall'amore al deserto, come fatto fisico, alternativo al quotidiano, alla scoperta del deserto come parabola di uno stile di esistenza nel quotidiano.
    Chi sogna il deserto, come punto di fuga dal quotidiano, per respirare interiorità, divide l'esistenza in tempi vuoti, da riscattare, e tempi felici, da sperimentare. Non basta certo finalizzare i secondi alla retta gestione dei primi: l'operazione ha il greve sapore della conquista e del riscatto.
    L'interiorità, che cerchiamo trepidanti per sopravvivere maturi in un tempo di dispersione e di affanno e per produrre veramente qualità nuova di vita in una società rinnovata, non è prerogativa di alcuni fortunati (quelli che fanno del deserto la loro dimora abituale) o di alcuni spazi speciali (i tempi del deserto nel tessuto del quotidiano).
    L'interiorità deve diventare qualità pervasiva di ogni gesto dell'esistenza: possibile in ogni gesto e esprimibile in ogni momento.
    Il deserto diventa parabola: non è un luogo fisico, ritagliato nel frastuono di una esistenza che non è deserto; è invece stile di vita, capace di pervadere e organizzare il quotidiano; luogo di purificazione e di passaggio da "attraversare", ogni tanto, come forte esperienza spirituale che rende più autentico il rapporto con Dio e con i fratelli.

    Nel deserto Dio dice "parole d'amore"

    Questa è dunque la mia ipotesi: possiamo vivere come uomini dalla profonda interiorità nella vita quotidiana, solo se riusciamo a riempire il nostro quotidiano delle stesse esperienze che per il popolo ebraico hanno trasformato un luogo maledetto (come è il deserto "fisico") in un tempo felice.
    Nel tempo dell'esodo, in quella sofferta marcia che l'ha ricondotto dall'Egitto alla terra dei padri, il popolo ebraico ha trascorsi lunghi anni del deserto. In questo luogo, duro e ostile, si è ritrovato Dio vicino e accogliente, come mai gli era successo prima. L'ha condotto per mano, liberato da mille pericoli, nutrito e dissetato dalla sua potenza. Nel deserto, Dio ha firmato un patto di vita con lui. Lì, la sua fedeltà è stata messa alla prova. Nonostante i continui segni di una insperata benevolenza, anche in questo tempo felice è riaffiorato il tradimento e l'infedeltà. Dio però è rimasto vicino al suo popolo. Lo ha richiamato e colpito. Ma alla fine lo ha salvato, riportato alla casa promessa, "in una terra fertile e spaziosa dove scorre latte e miele" (Es 3, 8).
    Così, il deserto è stato veramente trasformato. Per questo, l'uomo della Bibbia è pieno di nostalgia per il deserto, anche se lo teme ogni volta che lo deve attraversare, e lo combatte per strappargli fazzoletti di terra fertile. Ricorda con rimpianto il tempo di una fedeltà più grande; è ancora affascinato dall'esperienza di sentirsi sussurrare "parole d'amore" da Dio: "Un giorno, io, il Signore, riconquisterò Israele, il mio popolo. Lo porterò nel deserto e gli dirò parole d'amore. Gli restituirò le vigne che aveva e trasformerò la valle della disgrazia in una porta di speranza. Lì, mi risponderà come al tempo della sua giovinezza quando uscì dall'Egitto." (Osea, 2, 16-17).

    L'INTERIORITÀ NELLA VITA QUOTIDIANA

    Interiorità è capacità di leggere dentro le cose, vivendole e condividendole. Essa dice quindi la qualità di una persona, impegnata nel quotidiano per la vita di tutti.
    La parabola del deserto ricorda gli atteggiamenti da recuperare per assicurare uno stile di esistenza dalla parte dell'interiorità.
    Elenco qualcuno di questi atteggiamenti, riorganizzando alcune riflessioni che abbiamo condiviso in questi anni.

    Costruire uno spazio per l'interiorità "dentro"

    Il cristiano, impegnato a costruire vita attorno a sé, consolidando la pace, la giustizia, la fraternità, il rispetto del creato, la solidarietà e la libertà, condivide prospettive e interventi con tanta altra gente. Egli vive immerso nel mondo. È la casa comune e non la vuole fuggire.
    Quando si mette a far verifiche, per decidere contro chi reagire e da che parte stare, s'accorge che alcune logiche sono certamente contrarie al Vangelo, costruite dentro prospettive mortifere. Da queste non è difficile prendere le distanze, almeno in linea teorica.
    Molte altre, invece, sono meno evidenti. Determinano quello stile di perbenismo e di concretezza che sembra indispensabile per ogni convivenza ordinata.
    Il cristiano percepisce però un disagio crescente. Si sente soffocare, nei suoi sogni e nei suoi progetti. Ha paura di essere costretto a fare come tanti altri: spegnere l'insofferenza dell'utopia, per vivere a proprio agio nella mischia delle vicende quotidiane.
    Abbiamo bisogno di respirare, ogni tanto, aria pulita. Ma non sappiamo proprio dove sbattere la testa. Anche nella comunità di coloro che confessano Gesù il Signore, troppo spesso domina la logica del buon senso e del realismo.
    Ci serve uno spazio alternativo, dove prendere le distanze dalle logiche in cui siamo immersi, per verificarle tutte, in un'opera coraggiosa di discernimento critico e dove sperimentare una qualità diversa di esistenza.
    Questo spazio ce lo portiamo dentro: siamo noi a noi stessi, se riusciamo a costruirlo dentro, giorno dopo giorno, imparando a pensare e a meditare, senza fretta e senza quel rumore di fondo che ci fa una gran compagnia.
    In questo spazio d'interiorità, riusciamo di nuovo a sognare in grande. E così, rifatti nel sogno, possiamo riprendere il ritmo duro di una esistenza che ha bisogno di mercanteggiare le esigenze e di ridimensionare le prospettive.
    Soffrendo e maturando dentro un modo nuovo di essere uomini, possiamo incominciare a costruirlo nei frammenti piccoli e gestibili (il gruppo, la comunità, l'istituzione scolastica...), che si allargano a macchia d'olio verso il sociale.

    Uno spazio libero dagli idoli

    In questo spazio di interiorità, ritagliato dentro la nostra esistenza, possiamo immergerci nella verità, solo se diventiamo uomini liberi.
    Non credo che sia sufficiente imparare a pregare e a meditare. Bisogna farlo con l'atteggiamento del povero delle beatitudini: "Beati quelli che sono poveri di fronte a Dio" (Mt 5, 3).
    Anche questo è un problema serio.
    Ci siamo riempiti la vita di idoli. Alcuni li mostriamo a tutti, con arroganza e fierezza: sono i simboli della nostra potenza e i segni del nostro fascino superiore. Altri li teniamo di riserva, per i momenti di difficoltà.
    Ormai ci siamo affezionati tanto e sono tanto indispensabili compagni di ogni avventura, che non ci accorgiamo quasi più della loro presenza e delle loro pretese. Quando c'è da decidere e da organizzare, basta uno sguardo anche distratto verso di loro e troviamo tutta l'ispirazione e la sicurezza di cui abbiamo bisogno.
    Per mettere Dio sopra ogni cosa, l'unica condizione seria è quella che ci fa soffrire di più: distruggere, con decisione, tutti gli idoli che ci siamo fabbricati.
    Dio sta di casa solo nella semplicità, nello stupore, nella paziente ricerca e nella trepida attesa.
    Per distruggere gli idoli, dobbiamo riandare quotidianamente all'avventura della nostra vita, per rileggerla con calma, tranquillità e coraggio: ripensare alle decisioni e alle motivazioni che le hanno ispirate, per guardare in avanti dopo aver riconquistato in modo riflesso il passato.
    Gli uomini spirituali dei tempi antichi, quelli che avevano scelto il deserto come loro abituale dimora, avevano risolto il problema alla radice. Tutta la loro esistenza era un continuo processo di revisione. Sceglievano, con lucidità coraggiosa, di vivere il tempo fuori del tempo, per poter allacciare meglio passato e futuro.
    Abbiamo scelto una spiritualità diversa, per restare gente di questo nostro tempo senza rinunciare alla signoria di Dio sulla nostra vita. Abbiamo bisogno di imparare a revisionare la vita "al rallentatore".
    Il processo al rallentatore è un interessante possibilità offerta dai moderni strumenti di registrazione.
    Viene usato abitualmente nelle riprese sportive. Le immagini scorrono con un ritmo che non è quello normale. E così i particolari risaltano meglio, fino ai minimi dettagli. Si può persino ritornare indietro e riprendere da capo l'immagine. Può essere bloccata, congelando in un frammento di presente lo scorrere inesorabile del tempo.
    In moviola, riusciamo a fermare il tempo, riconduciamo il presente nel suo passato, imprimiamo al presente un movimento che non è il suo ritmo naturale: ce lo aggiustiamo sulla nostra lenta capacità di penetrazione.
    Interiorità è decifrare il presente in questo stile, per non restare soffocati dai suoi ritmi affannosi e non restare prigionieri delle sue trame seducenti.

    Una esigenza: il silenzio per stare in compagnia di se stessi

    Chi cerca di prendere le distanze dalle logiche correnti e si abitua a rileggere la sua esistenza "al rallentatore" si trova, per forza, solo, in compagnia di se stesso.
    Ho l'impressione che restare in compagnia di se stessi sia una delle esperienze più difficili oggi. Abbiamo tutti un gran paura di restare soli e cerchiamo affannosamente gli altri. Ci sostengono, ci servono di prezioso punto d'appoggio. Diventano persino il grembo materno a cui affidiamo la fragile nostra esistenza.
    Spesso è una compagnia strana: rumorosa e distraente, come un pomeriggio domenicale che dura tutta la vita, passato in discoteca, vicini e tanto isolati, costretti ad urlare per farsi ascoltare, sempre male interpretati, nel sottofondo musicale che distorce ogni voce. Ma ci va bene. Ci aiuta a non pensare: a non avere paura e a non essere costretti ad alzare le mani invocanti.
    Qui è il punto.
    Quando siamo soli, faccia a faccia con la nostra finitudine, ci sentiamo costretti a cercare due polsi robusti a cui ancorare le nostre braccia alzate nell'invocazione. Ma questo ci fa soffrire, troppo per risultare praticabile.
    Scopriamo di non bastare a noi stessi, noi che sappiamo tante cose e usciamo indenni da tutti gli inghippi. E ci accorgiamo che, in fondo, nessuno dei nostri amici ci basta per sopravvivere sull'onda del limite invalicabile della nostra fame di vita e di felicità.
    Diventiamo gente che cerca salvezza e che fonda su Dio la sua ricerca.
    Per stare in compagnia di noi stessi, abbiamo bisogno di silenzio "vero", come dell'aria che respiriamo, di pace e di tranquillità conquistata con i denti, di capacità di riflessione e di ascolto.
    Solo nella ritrovata compagnia con noi stessi, possiamo ascoltare la voce che giunge dal mistero di Dio. E diventiamo capaci di rispondere a questa voce interpellante.
    Solo avvolti nel silenzio, possiamo dire le parole, giuste e sufficienti, per incontrare il Dio del silenzio e inventare quei gesti dalla parte della vita, che costruiscono oggi un po' del regno di Dio.

    Preghiera e contemplazione per leggere nella verità il visibile dalla parte del mistero

    Lo svelamento del mistero di Dio non è mai pieno. Non può essere "posseduto", come conosciamo e possediamo gli avvenimenti della nostra vita quotidiana.
    Di fronte ai segni della "presenza di Dio" il credente resta colui che decide nella trepidazione della fede. Maria è il più bel ritratto di cristiano perché è colei che giunge al mistero di Dio nella continua rimeditazione della sua vita.
    Quando siamo posti davanti ad avvenimenti sorprendenti e misteriosi, che chiedono decisioni coraggiose, che non possono certamente dipendere dalle sole logiche umane, restiamo incerti e confusi. A prima vista, stentiamo a capire. Il credente però si tuffa nel mistero, alla ricerca di eventi che vanno oltre quello che la sapienza umana è in grado di decifrare. Nella sua fede vive il presente dalla prospettiva dell'invisibile: "possiede già le cose che spera e conosce già le cose che non vede" (Eb 11, 1).
    In presenza di un mistero che supera la capacità di comprensione sapiente, il credente si immerge nella fede e ritorna, con attenzione penetrante, sugli avvenimenti. Legge dentro le vicende della sua vita quotidiana, alla ricerca del mistero di cui sono cariche.
    Ritornare sugli avvenimenti con calma e capacità di penetrazione è una condizione fondamentale per arrivare alla soglia profonda delle cose, dove si staglia il mistero di Dio.
    La decisione di fede è un salto coraggioso nel mistero che ci sovrasta. Non sopporta i lunghi tentennamenti né cerca i calcoli accorti dei bilanci previsionali.
    Questa stessa decisione va però progressivamente riconquistata e posseduta, per tornare ogni giorno fresca e giovane. Per questo la prima avventura viene rimeditata continuamente, ripresa e rivissuta in una tensione che porta maggiormente alle soglie del mistero. Non ripensiamo a quello che abbiamo vissuto per capirlo meglio. Lo rileggiamo per sprofondarsi di più nell'abisso di Dio che chiama nel silenzio e nell'imprevedibile.
    Possediamo strumentazioni tutte speciali per operare a questo livello di profondità misteriosa: la Parola di Dio e la preghiera. Sono il nutrimento dell'interiorità. Senza essi, anche il silenzio più raffinato, resta vuoto e inconcludente. Fa giustamente paura.
    La Parola di Dio guida e ispira la nostra ricerca, orienta le nostre decisioni, giudica le nostre esperienze. Per questo, sostiene la fede e la costruisce, giorno dopo giorno.
    L'uomo di fede è sempre un uomo di preghiera. Nella preghiera il credente parla a Dio e parla di sé e di Dio. Vive di fede e dice la sua fede. Si contempla, immerso in un amore che tutto lo avvolge, per possedersi nella verità. Non può dire quello che ha scoperto di sé con le parole controllate con cui si esprime nel ritmo della esistenza quotidiana. Ha bisogno di parole intessute di silenzio, di espressioni pronunciate nel vortice dell'amore, della fantasia scatenata in cui si sono espressi alcuni santi.

    L'interiorità è lotta

    Un'ultima cosa voglio ricordare.
    L'interiorità, come il deserto che ne è la parabola, è un'impresa dura e faticosa. Fa soffrire. Interiorità è lotta.
    Sembra strano. Ma è così. Non ho ragioni da addurre, come quando si dimostra un teorema di geometria o la terza legge della termodinamica. Possiamo mostrarlo raccontando frammenti della nostra storia. Lo verifichiamo raccontando la storia dei grandi credenti, chiamati a maturare, nel silenzio della loro interiorità, grandi scelte per la loro vita e per quella degli altri.
    L'ha vissuto così Gesù, in quel periodo drammatico della sua vita in cui si è trovato costretto a scegliere la qualità della sua vocazione per la causa di Dio. "Lo Spirito di Dio spinse Gesù nel deserto. Là egli rimase quaranta giorni, mentre Satana lo assaliva con le sue tentazioni" (Mc. 1, 12-13).
    Nel deserto Mosè ricostruisce la sua vocazione di mano potente di Dio. Nel deserto il popolo ebraico rinnova la sua fedeltà a Dio. Nel deserto Elia ritrova la sua passione infuocata per la causa di Dio.
    Come Gesù, anche Mosè, Elia, il popolo ebraico, i monaci abitatori del deserto sono stati tentati da Satana: messi continuamente di fronte ad alternative drammatiche.
    Non c'è una risposta, pronta e facile, una di quelle che non lascia alternative. La decisione è sempre come buttarsi nell'abisso di Dio. Ci possono accogliere le braccia rassicuranti o possiamo sfracellarci sulle dure rocce.
    Nell'interiorità sperimentiamo la prova: la decisione che sa rischiare, trascinata tra le diverse alternative, senza poterci appoggiare ad altri, senza poter citare l'autorità di un documento o di un personaggio di prestigio a sostegno della nostra posizione.
    Siamo davvero soli nel mistero di Dio che è sempre, nonostante tutto, mistero grande e indicibile. Questa solitudine ci fa soffrire: ci costringe a lottare con la nostra voglia di chiarire tutto, di sperimentare, di decidere solo a ragion veduta o solo nella compagnia rassicurante degli altri.
    Ma non è questo l'unico modo di vivere l'esperienza dello Spirito?

    UN PO' DI DESERTO VERO PER VIVERE OGGI L'INTERIORITÀ

    Concludo formulando una ipotesi, tutta da verificare e, comunque, da assumere con estrema attenzione educativa.
    Per imparare a vivere nell'interiorità, abbiamo bisogno di inventare qualcosa di duro, provocante, impegnativo. Non basta vivere meglio il ritmo normale.
    È quello che conta, d'accordo. Ma non è sufficiente da solo ad autogenerarsi nell'autenticità. Per viverlo più intensamente, dobbiamo, ogni tanto, imparare a staccarcene: programmare qualcosa capace di strapparci dal ritmo normale della nostra esistenza. Ci vuole, insomma, un po' di "deserto" quasi vero, almeno inedito, per riuscire a vivere da uomini spirituali nella fatica dell'impegno sociale e politico.
    Solo così, riusciamo un po' alla volta a vivere l'interiorità pienamente e totalmente nel quotidiano. La parabola del deserto si conquista insomma con l'esercizio e il rodaggio: con pezzi di deserto vero.
    In che direzione? Provo a suggerire qualche piccola indicazione, con l'unica pretesa di tirare la volata alla ricerca comune.
    Per molti giovani ha funzionato come "deserto" la partecipazione ad un campo di lavoro. Il ritmo duro della giornata, la condivisione fraterna, l'avvertire la schiena rotta e le mani bruciare per poter dare un frammento di sé ai poveri, quelle lunghe celebrazioni eucaristiche serali, piene di passione e di stanchezza meritata, hanno trasportato in un altro mondo, così diverso e lontano da quello quotidiano.
    Chi ha vissuto questa felice esperienza, la ricorda come un punto di riferimento obbligato.
    Altri giovani hanno scoperto le esigenze dell'interiorità in giornate di studio, lontani dal frastuono della città. Misurandosi con le esperienze più riuscite, è facile costatare come l'esito positivo di questi momenti è legato ad alcune condizioni: il ritmo pieno, il corretto dosaggio tra studio e lavoro, il clima, la coscienza di responsabilità nei confronti di tutti (anche di quelli rimasti a casa), la saggia collocazione nell'orario dei momenti di silenzio, di preghiera, di contemplazione, il contatto diretto con testimoni qualificati.
    Una lunga e affermata tradizione pastorale consegna molta fiducia alle giornate di ritiro "spirituale" (come si dice con un gergo ancora molto dualista) e agli "esercizi spirituali" (per continuare ad usare il linguaggio "bellicoso" del loro inventore). Possono essere certamente momenti stimolanti di deserto.
    Anche per essi valgono le condizioni già ricordate. Sono deserto solo se trascinano "fuori" dal ritmo ordinario e riportano a far esperienza diretta di quelle esigenze di vita, tante volte ormai richiamate.
    Devono spingere "fuori" dall'ordinario non solo perché si fanno cose strane o inedite. Lo sono invece perché le logiche della vita quotidiana sono vissute come al rallentatore; e lo sono perché si ha il coraggio di scontrarsi con un modo di vedere e vivere le cose di tutti i giorni, tale da riportarci pienamente nella logica folle della croce di Gesù.
    Un pezzo di deserto può essere conquistato anche nel ritmo delle nostre giornate feriali. Basta approfittare del ritardo di un autobus per mettersi a pensare seriamente a quello che conta, facendo un po' di vuoto dentro e d'attorno. Possiamo immergerci in una solitudine feconda anche quando attraversiamo frettolosi il nostro quartiere o quando, in un angolo buio e raccolto di una Chiesa, facciamo arrivare l'ora di un appuntamento a cui siamo giunti in anticipo.
    In una cultura, come è la nostra, in cui ogni proposta è supportata dal volto seducente di testimoni, è esperienza di deserto scontrarsi con testimoni diversi. Hanno qualcosa da dire non perché sono affascinanti, potenti, riusciti, perché cantano, giocano, danzano in modo superlativo. Li facciamo parlare e li ascoltiamo con disponibile attenzione perché ci riportano a quel mistero profondo che, unico, può dare ragione del nostro quotidiano.


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