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    Il preadolescente «è» la sua esperienza



    Giuliano Palizzi

    (NPG 1990-01-27)


    Ci ricolleghiamo al numero di gennaio '89 per continuare la riflessione attorno a uno dei nodi fondamentali del metodo dell'animazione culturale con i preadolescenti: il «far fare esperienza» della realtà.
    In quel numero avevamo richiamato quelli che ci appaiono i nodi centrali del «fare esperienza» in educazione. L'esperienza anzitutto considerata come «risorsa educativa», per realizzare il contatto immediato con la realtà fisica e sociale. Esso implica processi di simbolizzazione, di interiorizzazione, di analisi e di interpretazione molteplici, fino a divenire nucleo di memoria del soggetto e del gruppo, i quali a loro volta, oltre ad esserne modificati, possono consegnarla in dono.
    Nel presente contributo il fare esperienza è interpretato a partire dal preadolescente stesso, dal suo mondo in espansione, e dai cambiamenti profondi che ogni esperienza ha la possibilità di indurre in chi la vive non solo superficialmente.
    Perché si faccia davvero esperienza coi preadolescenti e si producano cambiamenti, una condizione irrinunciabile è quella che sia presente un educatore capace di sollecitare il preadolescente a raggiungere il cuore dell'esperienza, a ricondurla verso un «centro interiore» che la filtra e la fotografa, rimanendone impresso.
    Nella duplice attenzione alla condizione reale dei soggetti produttori dell'esperienza e alle aree d'obiettivo dell'animazione in antecedenza individuate, vengono richiamati alcuni ambiti di esperienza da privilegiare lungo la preadolescenza.

    «Non credo nella possibilità di insegnare, credo in quella di imparare; e per imparare, volendo semplificare, bisogna divertirsi. Così se prima di tutto riesci a divertirti e poi, in un secondo tempo, riesci anche a comunicare qualche cosa, allora hai vinto. Se pontifichi e sei noioso, la gente ti tira la frutta» (Sting). Questo sintetico vangelo-secondo-Sting descrive i passaggi che un educatore in genere, e di preadolescenti in specie, è invitato a considerare nei suoi interventi educativi: divertirsi, imparare, comunicare qualche cosa possibilmente... senza pontificare e annoiare.
    Qual è quell'educatore che non si è divertito prendendo parte al racconto di un'esperienza particolare come un concerto o una partita allo stadio vissuta dai ragazzi? Quanti aggettivi, versi, quanta scena e partecipazione accompagnano il racconto! L'esperienza è segnata sulla loro pelle.
    Forse ci è capitato di sentire raccontare animatamente un'esperienza di ritiro o di un campo fatta col gruppo e riuscita in tutti i dettagli, soprattutto nella segreta spedizione notturna nelle camerette delle ragazze. Certamente abbiamo anche davanti agli occhi la noia dipinta nei loro occhi quando si propina loro certe messe, certe assemblee pizzose, dove non vengono coinvolti e tutto procede a-misura-di-adulto-annoiato.
    Abbiamo imparato, divertendoci con loro, che se si vuole comunicare qualcosa, è importante la loro partecipazione all'interno di un'esperienza. Lo stadio diventa una grande-chiesa dove il sacerdote-giocatore non lascia indifferente il pubblico-fedele; il concerto è una liturgia dove tutta l'assemblea dei fan canta e vibra insieme al cantante-stregone. Non si guarda la partita, non si «ascolta» il concerto, ma si vive partecipando, soffrendo e godendo, in prima persona.

    DUE MODI DI EDUCARE

    Semplificando, riconduco a due soli i modelli di educazione.
    Il primo privilegia, assolutizzandolo, il metodo verbale-concettuale. Le parole e le idee soprattutto: i discorsi, richiami, spiegazioni... il tutto accompagnato magari da punizioni o premi. Il ragazzo deve solo ascoltare, deve soltanto mobilitare un settore della sua personalità, quello dell'intelligenza, e reprimere possibilmente tutto il resto di sé.
    Sapendo che i preadolescenti non riescono a prestare attenzione al di là di quel quarto d'ora scarso, che non hanno ancora sviluppato un pensiero che procede secondo una logica astratta, ma procedono per logica concreta, che non riescono a cogliere i valori descritti in astratto, se non sono presentati concretamente come rispondenti a qualche loro interesse-bisogno; sapendo anche che non amano il nozionismo e non si entusiasmano in situazione di passività, ridotti a recipienti-collettori di bei discorsi e nozioni varie..., non rimane che guardare al secondo metodo, quello che tiene conto del soggetto, e si preoccupa di coinvolgerlo globalmente e non solo intellettualmente. Non un preadolescente che ascolta soltanto, ma un preadolescente che partecipa, che opera attivamente a livello cognitivo, volitivo, affettivo, emotivo, motivazionale, operativo e creativo... incontrando valori che vengono vissuti prima e scoperti poi in situazioni reali di vita quotidiana.
    Il preadolescente impara vivendo più che ascoltando. La parola spiega la vita, ma la vita è il punto di partenza. Un conto è sentire le cose, un conto è vederle con i propri occhi: se questo è vero per un adulto, quando di più per un ragazzo.
    Il preadolescente «è» davvero il risultato della sua esperienza, di come l'ha vissuta e di come ha reagito ad essa.

    «Residuo comportamentale» e cambio degli atteggiamenti

    La vita dunque è una grande esperienza che nasce da un insieme di esperienze. Non tutte hanno la stessa importanza, non tutte incidono allo stesso modo. «Una nozione essenziale nella prospettiva che qui ci interessa è quella di residuo comportamentale. Indichiamo con ciò il fatto osservabile che ogni esperienza vissuta lascia una traccia, un effetto, manifestantesi con una modificazione del comportamento susseguente (ecco il residuo). L'esempio classico del bambino che si produce una scottatura alla mano contro la stufa illustra ottimamente il fenomeno: è noto che dopo quell'esperienza spiacevole, il comportamento del bambino nei confronti della stufa avrà un mutamento. Fortissima è infatti la probabilità di veder apparire risposte di sottrazione che prima non esistevano riguardo a quell'oggetto; esiste pertanto mutazione di comportamento, e noi diciamo familiarmente che il bambino ha imparato qualcosa. L'evento, l'esperienza, l'episodio, quali che siano, modificano in certa misura la struttura esistente del soggetto, provocano una ristrutturazione nell'organizzazione degli elementi antecedentemente presenti. Così ogni esperienza nuova non viene semplicemente ad associarsi in modo aggiuntivo all'organizzazione psichica anteriore, ma ne provoca necessariamente la modificazione, implicando pertanto una riorganizzazione più o meno considerevole dell'insieme, e il comportamento ulteriore ne risulta mutato. Similmente possiamo dire che ogni esperienza lascia il fanciullo più o meno diverso da ciò che era prima» (Osterrieth). Anche se l'approccio è qui tentato dentro l'ottica comportamentista, lo stesso, e in forza maggiore, vale per il cambiamento degli atteggiamenti attraverso il fare esperienza.
    Perché questo avvenga, le esperienze devono essere «vere»; e il preadolescente deve avere la chiave di lettura per interpretare ciò che ha vissuto e trarne una lezione di vita. Perché sia «vera» e, se vogliamo esprimere così, provochi un residuo comportamentale, l'esperienza deve essere «significativa». Deve interessare e deve coinvolgere: non è una cosa anonima, incolore, che lascia il soggetto indifferente. L'oggettività della proposta, del valore sottostante all'esperienza stessa, viene colto soggettivamente nella sua profondità e diventa oggettivo per il soggetto al di là delle sua oggettività intrinseca. Non si parte della validità dell'esperienza per proporla, ma dalla disponibilità del preadolescente a cogliere la significatività dei contenuti dell'esperienza.
    Non sempre il preadolescente è disponibile, né qualsiasi esperienza suscita la disponibilità. Lo si troverà tanto più disponibile quanto più l'esperienza è risposta ad un suo bisogno, e quindi c'è già un'attesa che provoca partecipazione e coinvolgimento. Inoltre bisogna tener conto dell'elemento «novità» che non guasta mai nel mondo del ragazzo: la ripetitività provoca l'abitudine e l'abitudine è la morte dell'interesse.
    Educare attraverso l'esperienza significa allora non lasciare mai il soggetto passivo, ma creare delle predisposizioni, provocare in lui delle reazioni, suscitare delle modificazioni, facendolo incontrare con un «bene educativo», cioè con cose, persone, relazioni, «azioni»... che incarnano un valore e ne sono portatrici. Il contatto con questi beni educativi provoca un insieme di azioni e reazioni, di interrogativi e di risposte che costituiscono quel «dinamismo modificatore» che mobilita il soggetto «dentro», portandolo a interiorizzare i valori, ad elaborare, attraverso i comportamenti, nuovi atteggiamenti e modi di porsi di fronte alla realtà.
    Sarà perciò anche importante preparare «tecnicamente» l'andamento dell'esperienza. La quale però sarà tecnicamente riuscita, cioè sarà educativa, se sarà capace di mettere in discussione l'esistente, e non solo epidermicamente o a livello di comportamento, ma a un livello profondo di interiorizzazione, di atteggiamento. Altrimenti corre il rischio di essere una recita, senza partecipazione interna, vitale, quindi priva di significatività e di incisività.

    L'ESPERIENZA DICE CHI É L'UOMO

    L'esperienza è rivelatrice di chi è l'uomo, nel senso che scopre verso cosa egli tende, qual è la sua teleologia, la sua tensione interna. Tutti gli organismi viventi sono dinamicamente orientati verso il divenire e impostano quelle progettazioni da cui dipende la loro sopravvivenza. L'esistenza psichica dell'uomo si basa sull'acquisizione del presente come imperfetto e sul tentativo di costruire un futuro più perfetto. L'esistenza si pone un «fine ultimo», una meta prevalente verso cui si indirizza il comportamento. Tutte le manifestazioni psichiche (i modi con i quali vengono filtrate le esperienze) sono comprensibili alla luce della teleologia, dello scopo, delle finalità consce o inconsce che l'individuo si prefigge. Questo finalismo, presente anche nel più svagato preadolescente (certamente non in modo riflesso) orienta, legge, interpreta ogni esperienza in base appunto alla «linea direttrice», cioè la strada prevista dall'individuo per raggiungere quelle finalità che fanno il futuro più perfetto, e in base allo «stile di vita» di ogni individuo.
    Lo stile di vita è l'impronta unica e irripetibile di ogni individuo, costituita dalla risultante delle sue esperienze, del suo orientamento vitale, dei suoi vissuti, posti al servizio del fine ultimo perseguito. È possibile ricostruire lo stile di vita di una persona costruendo una griglia e osservando le sue abitudini sul piano dell'agire (ad esempio di fronte ad una situazione frustrante gratificante o neutra, oppure riguardo all'immagine che ha di sé, degli altri, del mondo e alle sue impressioni emotive ed affettive), ma soprattutto ricostruendo la storia delle sue esperienze e del modo con cui le ha vissute.
    Lo stile di vita è elaborato dalla forza creatrice del bambino, che utilizza il suo bagaglio costituzionale, l'educazione ricevuta o le influenze sociali. Lo stile di vita si presenta quindi come l'organizzazione della globalità della personalità, che dà alle espressioni psichiche, anche a quelle psicopatologiche, il loro senso. Se capisco lo stile di vita di un preadolescente, capisco i suoi bisogni e i motivi di un determinato comportamento, quindi organizzo esperienze che possono rispondere adeguatamente ai bisogni presenti.
    Occorre essere educatori, «professionisti dell'affetto» (Jean Tefnin).

    UN EDUCATORE PER FAR FARE ESPERIENZA

    Al di là dell'importanza dell'esperienza allora sottolineiamo la centralità della figura dell'educatore. L'educatore è lui, l'esperienza è soltanto un mezzo. Educatore mediocre rende vana anche l'esperienza in sé significativa, o per lo meno non permette all'esperienza di sortire quegli effetti educativi di cui si diceva. Un educatore che sia «uomo», che suscita quindi stima per il suo essere prima che per il suo fare. Un educatore che sappia fare, un professionista, un competente. La sua personalità susciterà una relazione soddisfacente col ragazzo: sarà la sua ricchezza personale ad ispirare fiducia. Un educatore che accetta il preadolescente per quello che è, non in base a quello che fa. Dà il suo affetto al di là dell'approvazione: fa capire al preadolescente che lui è importante, anche se non sempre si comporta come dovrebbe. Instaura quindi un clima umano favorevole, da uomo a uomo, in un'atmosfera di libertà dove la persona è al centro e non il programma da realizzare. Certo l'educatore guida l'esperienza, ma l'esperienza vera è lui, perché il suo coinvolgimento vitale qualifica l'esperienza. È un competente: offre esperienze ricche, provocanti per la ricchezza di contenuto, solide e sostanziose.
    Sostiene il preadolescente nel cammino, non mettendosi al suo posto, non offrendo soluzioni prefabbricate, non spingendo ad agire sulla sua parola, facendo esperienza con lui, non al suo posto. Insomma un educatore deve essere un po' «strano»: essere se stesso, unico. La diversità (ciò che lo fa definire dagli altri «strano») è la sua originalità. Un educatore che non possa essere etichettato, schedato, confuso con altri. Non viaggia col manuale in mano: è lui, punto e basta.
    Usa la pedagogia positiva: apprezza e rimarca tutto ciò che di buono c'è, fosse anche un pizzico; non esagera nel sottolineare il negativo; non rinvanga i vari «te-l'avevo-detto-io» e «se-mi-avessi-ascoltato»...

    L'educatore e l'esperienza

    Un educatore con un progetto. La vita è piena di esperienze: ci sono quelle occasionali e quelle programmate. Queste nascono da una volontà che tenta di realizzare un progetto educativo. Senza lasciarsi sfuggire e senza sottovalutare le esperienze occasionali che nascono nella maniera più impensata (un incontro, un avvenimento, un successo, un fallimento, un'amicizia...) non lascia nulla al caso.
    L'educatore sa che il preadolescente corre il rischio di diventare un «consumatore-di-esperienze» se non lo si aiuta a trovare «quel centro» intorno al quale elaborare i messaggi che emergono dalle varie esperienze. Le esperienze programmate partono dai soggetti e in base alle mete prefisse si costruiscono su misura dentro un itinerario che si prefigge obiettivi a lungo e a breve termine.
    Aiutare a leggere le esperienze vuole dire anche «riviverle» attraverso processi che portano a interiorizzarne i valori. Si può partire da un'analisi «a caldo» dell'esperienza stessa in cui si sottolinea ciò che è risultato positivo/negativo. Dopo un certo tempo si fa la «verifica» vera e propria, richiamandola con l'aiuto dei linguaggi simbolici, evocativi, narrativi e figurativi.

    ESPERIENZE DA PRIVILEGIARE CON I PREADOLESCENTI

    Il modo, l'intensità e la durata di un'esperienza dipendono dal progetto che sta alla radice del cammino di un gruppo, di una classe, di una catechesi. Ma al di là di tutto è importante stabilire quali sono gli elementi importanti intorno ai quali organizzare la proposta e il cammino. Ci sono elementi che caratterizzano la preadolescenza e intorno ai quali il preadolescente prende coscienza di sé e della realtà. Sono elementi di cui tener conto in tutte le esperienze, e bisogna riprenderli successivamente, a spirale, allargando il respiro e suscitando sempre maggior coinvolgimento.
    Le caratteristiche che configurano la preadolescenza di oggi da una parte e gli obiettivi educativi individuati nell'animazione, ci permettono di selezionare le esperienze da «produrre» con i ragazzi, e di raccoglierle attorno ad alcuni ambiti privilegiati, in vista di un itinerario.

    Le esperienze per sollecitare verso l'identità

    L'identità e la sua definizione non è un compito evolutivo ristretto alla preadolescenza, ma riguarda propriamente la fase adolescenziale. La preadolescenza ne costituisce la fase esplorativa: essa offre e predispone per l'adolescenza il «materiale simbolico» con cui elaborarla. Per usare il linguaggio del computer, potremmo dire che il preadolescente ricerca i dati da immagazzinare, l'adolescente li elabora. È importante allora che i dati siano ricercati bene, con abbondanza e con completezza, perché l'elaborazione dell'identità sarà conseguente. Il preadolescente deve quindi venire a conoscenza di tutti i dati che possono servire ad elaborare la sua identità.
    Ecco allora urgente una programmazione delle esperienze che tenga conto di ciò: quale «materiale esperienziale» il preadolescente deve ancora immagazzinare ed interiorizzare, per poter avviare l'elaborazione della propria identità?
    Non solo; in questo programmare il materiale da acquisire, merita attenzione particolare la capacità raggiunta di «separarsi dall'altro». Non può raggiungere la sua identità se non arriva a considerare se stesso capace di autonomia e indipendenza. Occorre provocare esperienze nelle quali il preadolescente sperimenti questo e verifichi che può cominciare a «camminare con i suoi piedi», a non aver bisogno sempre di qualcuno che gli faccia tutto. Sarà il primo elemento che permetterà di cogliere tutti gli altri.
    Contemporaneamente è importante far maturare questo atteggiamento di «separazione» anche nei genitori, sempre preoccupati di proteggere i propri figli e sempre pronti a considerarli più bambini di quello che sono e quindi a non farli crescere. Far capire ai genitori che i figli diventano grandi non restando attaccati a loro ma «provando» a staccarsi, a gestirsi piccoli spazi in qualche «avventura».

    Le esperienze per aprire verso l'intersoggettività

    La separazione dall'altro è importante perché il preadolescente possa scoprire un «nuovo altro» o tanti altri con i quali dovrà costruire se stesso condividendo spazi di vita. L'avventura del gruppo è propria della preadolescenza. Esperienze di gruppo sono esperienze di comunità: attraverso la piccola comunità il preadolescente si prepara ad entrare nella grande comunità. Esperienze di gruppo che non evadono dalla vita, ma che rituffano nella vita rendendo capaci di «viverla» senza lasciarsi vivere. Esperienze di gruppo dove il si-sta-bene-insieme non è tutto, ma può essere solo un momento o una parte, perché il gruppo non è fine a se stesso ma diventa un mezzo, una esperienza in sé, perché nell'adolescenza si possa elaborare un'identità aperta alla comunità, un'identità dove l'io si rende conto che non può crescere senza condividere la vita con gli altri, senza costruire la propria vita con/per gli altri.
    Ancora una volta però la proposta di fare esperienza di gruppo deve tener conto di un cammino parallelo a livello di genitori. Troppo facilmente essi sono preoccupati della «compagnia» del proprio figlio. A tal punto che a volte preferiscono il figlio senza amici, piuttosto che rischiare di farlo incontrare con «cattivi» compagni. È un rischio da correre.

    Le esperienze che dischiudono alla trascendenza

    Sappiamo quanto il preadolescente sia un «consumatore di religione», e come questa domanda indotta venga progressivamente e precipitosamente declinando nel corso dell'età.
    Per passare dalla struttura notevolmente egocentrica del Dio della religione all'apertura e disponibilità verso il Dio di Gesù (il Dio della fede che s'incontra nella verità solo nell'invocazione accompagnata dall'offerta vitale dell'evangelo come esperienza di gratuità anticipatrice), è importante riscoprire tutte quelle esperienze di gratuità, di finezza, che sono dotate di un alto coefficiente di alterità, che cioè sbilanciano il soggetto che esperisce al di fuori di se stesso, facendogli scoprire «il volto dell'altro».
    Solo questo tipo di esperienza produce, qualora venga elaborata, il «salto di qualità» della domanda di vita, che è nient'altro che un dischiudersi della domanda su un orizzonte nuovo ed infinito.
    La presenza dell'altro che chiama, provoca, interpella, anticipa, e che ha il suo «simbolo» nelle figure del povero e della comunità ecclesiale, quale comunità di poveri che dona gratuitamente vita e ragioni per produrre vita, è in realtà il nucleo fondamentale dell'esperienza qui individuata.

    Le esperienze non programmate

    Nel proporre esperienze che maturano bisogna sempre tener presente che nella vita del ragazzo ci sono già tante esperienze non programmate o addirittura in contraddizione con quelle vissute in gruppo.
    Un educatore accorto non si preoccupa solo di fare esperienze. Non gestisce il cammino come se tutto dipendesse da ciò che si fa sotto la sua guida. Si preoccupa di dare al preadolescente gli elementi attraverso i quali egli sia in grado di elaborare le esperienze che fa indipendentemente dall'intervento educativo, quelle occasionali o quelle nelle quali intervengono altre agenzie.
    La preoccupazione principale non è quindi solo di far fare esperienze, ma di aiutarlo a «cavarsela» quando si troverà in esperienze di vario tipo, per non subirle, per non restare un consumatore, per imparare a leggerle, cogliendo tutta la loro valenza positiva e maturante.


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