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    Giovani e nuovi valori



    Tavola rotonda

    (NPG 1990-07-5)


    I relatori invitati erano tutti membri di associazioni o movimenti ecclesiali o di impegno cristiano. Avevano una esperienza diretta del problema per aver partecipato, in prima persona, ad esperienze di animazione o per essere ancora impegnati nella realizzazione di progetti a nome dei propri gruppi.
    Ad essi era stato chiesto di offrire un contributo per evidenziare il significato profondo del «valore» e le eventuali problematiche. La loro presenza, nei gruppi di studio, avrebbe poi assicurato l'approfondimento del tema e offerto la possibilità di «allargare gli orizzonti».

    Pace

    Che cosa intendiamo per pace oggi?
    Ci rifacciamo alla pace biblica come «shalom». Shalom è pienezza di vita, è sazietà e consolazione. A Gerusalemme, la città della pace, si dice: «Succhiate fino alla sazietà al seno della consolazione. Perché così dice il Signore: Riverserò su di essa la prosperità come un fiume» (/s 66, 11-12).
    Shalom è anche felicità, come si esprime nel salmo 122: «Quale gioia quando mi dissero: Andremo alla casa del Signore. Domandate pace per Gerusalemme: sia pace per quelli che ti amano, sia pace sulle tua mura».
    Ma shalom significa pure fecondità e benedizione. Il salmo 147 dice: «Glorifica il Signore, Gerusalemme, loda Sion il tuo Dio, perché ha rinforzato le sbarre delle tue porte, in mezzo a te ha benedetto i tuoi figli. Egli ha messo pace nei tuoi confini e ti sazia con fior di frumento».
    L'idea dello shalom che emerge da questi brani è la pace paragonata alla fecondità, alla benedizione, alla felicità, alla sazietà, alla consolazione: quindi una pace che è pienezza di vita.
    Parlando di pace non intendiamo allora solamente una situazione di non- guerra, statica e tranquilla, ma qualcosa di più.
    Ed è un concetto che non viene inteso solo in senso personale e individuale o in senso politico, ma questi due ambiti sono sempre uniti: la pace è per l'insieme del popolo di Dio.
    Se intendiamo pace come la pienezza di vita, rileviamo che in questo periodo c'è stata una deterrenza nucleare che ha portato sì a situazioni di non-guerra in tutta Europa, ma a moltissimi conflitti in tutto il mondo.
    Si va alla ricerca della sicurezza nei confronti degli altri. Ma finora per sicurezza s'intende prevalentemente sicurezza militare, sicurezza da qualcosa di esterno, per cui è necessario difendersi con un esercito e con delle armi. Tale concetto è ormai superato, poiché l'obiettivo da difendere non è il territorio, ma le persone, la cultura di un popolo. Quindi non bastano più le armi per difenderci da un ipotetico nemico: ci sono minacce interne come l'inquinamento che insidiano la vita stessa; ci sono la disoccupazione, la riduzione delle risorse di cibo, la disuguale distribuzione delle ricchezze e dei guadagni. Queste sono minacce molto più pressanti.
    Di fronte a questa situazione ci si chiede cosa fare come persone e come collettività. A livello di chiesa ci si può riferire al processo ecumenico iniziato da diversi anni- le chiese cristiane cercano di dare una risposta forte ai problemi della giustizia, della pace ed ecologia. Ma una delle risposte fondamentali è quella di saper avere una coscienza libera, critica, propositiva; di esser capaci, in una società che ha degli schemi da rispettare, di obiettare, di saper opporsi, di saper far parte di una minoranza.
    La pace è un impegno continuo e quotidiano, del singolo e della collettività. Un impegno per cercare un nuovo modo di far politica, un modo diverso di lavorare nel sociale; ma soprattutto è un impegno per costruire una civiltà di pace dove l'uomo può trovare pienezza di vita.

    Solidarietà

    È dietro ai concetti astratti, come quello di solidarietà, che molti si rifugiano per criticare la società attuale.
    Dobbiamo invece vedere come questo valore nasce nella società attuale per uscire dall'astrattezza, e vivere di un'autentica solidarietà.
    Si sente dire spesso che la nostra non è una società solidale. Questo è vero, però solo in parte. È vero che noi viviamo in una società in cui spesso l'individualismo sfiora il narcisismo e cade nell'isolamento del soggetto; è vero che esiste un tipo di conflittualità individuale e collettiva che porta all'ingiustizia, alla sopraffazione, all'affermazione di sé attraverso la distruzione dell'altro. L'economia, gli stili di vita sovente sono connotati da questo aspetto.
    Però vediamo in atto anche scelte dove la persona ha ancora una rete di protezione in cui manifesta la propria solidarietà sociale. Infatti la solidarietà è anche l'organizzazione dello Stato che intende tutelare il bisogno di realizzazione di vita delle persone.
    Il quadro è questo: una civiltà contraddittoria: in cui tutti i sistemi di sicurezza e di protezione esistono insieme con lo scacco della sofferenza, del fallimento e del dolore.
    E abbiamo poi scoperto che dentro questa società è possibile l'opulenza, una certa sicurezza, perché altre società al di fuori della nostra non ne hanno.
    Il discorso della solidarietà significa la scoperta che il proprio benessere, la propria realizzazione umana, segna ed è in qualche modo il frutto di ingiustizia.
    Vivere nella società d'oggi, essere solidali non significa essere buoni, ma scoprire l'ingiustizia profonda che è dentro la nostra esistenza, e cercare di ristabilire dentro la propria esistenza un tasso adeguato di giustizia. Ciò significa che ogni mia realizzazione personale può essere mancanza di una realizzazione di un altro, che ogni mio successo o consumo può essere mancanza di successo o mancanza di consumo per un altro.
    Allora solidarietà vuol dire che il mio progetto di vita non è isolato, ma è in qualche modo interconnesso non solo con le persone che condividono con me lo spazio, il tempo, e il luogo dove abito, ma è interrelato con tutte le persone che esistono nel presente, che sono esistite nel passato e che esisteranno nel futuro della storia umana.
    Solidarietà non è solo verso il presente, ma è anche nei confronti del passato e del futuro.
    Vivere la solidarietà oggi è vivere un'esperienza diversificata: non è solo fare del volontariato, ma vivere in un modo diverso l'essere cittadini, è vivere in un modo diverso la propria vita quotidiana.
    Essere solidali non è solo dedicare una parte del proprio tempo, ma significa esserlo quando si è a scuola, al lavoro, in ogni momento della vita; significa avere la capacità di condividere con gli altri ogni momento della propria esistenza; significa avere la capacità non solo di donare, ma di scambiare anche con chi è più povero di noi.
    Perché se riusciamo ad entrare in rapporto con chi ha più bisogno di noi, ci potremo accorgere che questo può darci molto, ci può arricchire, ci può dare la capacità di scambiare con tutti gli uomini, anche con quelli più poveri. Ma significa anche impegnarci per costruire delle strutture sociali di economia e politica in cui ci sia più giustizia. Essere solidali significa esercitare la propria cittadinanza in un modo nuovo.
    Tutto questo è l'aspetto più radicale, perché spesso la solidarietà si ferma a metà strada, per cui essere solidali significa solo essere gentili, aperti nel dare un po' del nostro tempo per alcune attività (ma poi si vive spesso la giornata sposando tutte le regole antisolidali che la vita propone), scoprire spazi di gratuità e di dono in cui si ristabilisce un equilibrio.
    Essere solidali significa avere continuità tra il momento forte in cui vivo un'esperienza più intensa, e tutti i momenti della vita quotidiana. Non si può diventare completamente solidali se non si riesce a capire che la nostra vita produce ingiustizia, e se non ci impegniamo per far in modo che questa ingiustizia diminuisca.
    Non si realizza solidarietà se non si comprende che se io non mi impegno per costruire il «noi», in cui ognuno abbia possibilità massima di autorealizzazione e di espressione, non costruisco il mio «io», ma distruggo la mia individualità, e se non si comprende che c'è un legame profondo tra la mia realizzazione personale e quella degli altri.

    Mondialità

    C'è tanta retorica sulla mondialità, l'uomo planetario, l'interdipendenza e la transnazionalità, l'interculturalismo e la multirazzialità, l'ecumenismo e così via. Se è vero che la nostra identità radicale etimologicamente indica il cattolico come l'uomo della mondialità, l'uomo planetario (perché il cattolico si sente a casa quando si parla dell'universo, del mondo, della natura in tutte le sue dimensioni), questo però non vuol dire che il nostro passato storico è a posto con tali valori.
    Riflettere oggi sulla mondialità significa anche avere il coraggio di rivedere la nostra tradizione storica, i nostri comportamenti passati nei confronti della mondialità come l'altra umanità e come tutta la natura.
    Vorrei dire queste cose in una prospettiva di prossimità. Tutta la pastorale del farsi prossimo del Card. Marti ni deve essere assunta e portata dentro l'educazione alla mondialità, perché la mondialità è solo farsi prossimo, scoprire l'altro come domanda, come appello.
    Un'altra prospettiva da assumere è la «responsabilità», ossia il rispondere al volto dell'altro che mi interroga e chiede che io prenda una decisione e scelga solidaristicamente o egoisticamente.
    Una terza prospettiva è quella della compagnia: ciò significa rischiare la nostra identità in un viaggio comune con le differenze, cioè con le identità degli altri, con quello che non ho e con quello che non sono.
    Non lasciarci quindi macerare dalla nevrosi dell'identità, cioè dalla domanda all'infinito del «chi sono io», ma rischiare la mia identità in un viaggio che somiglia tanto all'esodo, quell'esperienza che con la memoria della nostra fede storica abbiamo già vissuto.
    Che cosa è allora la mondialità?
    La mondialità è anzitutto una auto- comprensione: sentire se stessi come parte di un tutto, un tutto umano, un tutto cosmico. Lo scopo della nostra vita non è quello di catturare gli altri per farli come me, ma di liberare la ricchezza delle differenze.
    Oltre ad essere questo «sentimento», la mondialità è una visione della realtà mondiale non come una società di stati e nazioni, ma come una comunità di popoli, di gruppi etnici, di lingue, di religioni e così via.
    La mondialità è anche un comportamento, un complesso di gesti, azioni, atti di alleanza; la mondialità è vivere il presente con la coscienza di essere responsabili del futuro dell'umanità e della natura, perché anche le generazioni future hanno diritto a vivere in una terra abitabile e vivibile. Bisogna però stare attenti a parlare della mondialità come valore: essa di per sé è solo un involucro dentro cui ci si può far stare tutto. Si può dire che c'è mondialità e mondialità.
    Ho incominciato personalmente a interessarmi con entusiasmo di educazione alla mondialità partendo da una precomprensione: la mondialità è aiutarci tutti a scoprire una maggiore unità, a camminare insieme verso una identità comune che alla fine trionfa, cioè diventare tutti più simili. Poi ho capito che questa idea di mondialità era viziata. Il valore della mondialità è solo l'altro. La mondialità che sento più autentica è quella che crea la società delle differenze come «convivialità» delle differenze, che fa fecondare reciprocamente le differenze perché dalle differenze scaturisce una identità arricchita.
    Una volta credevo che alla domanda «chi sono io?» si doveva rispondere come il personalismo cristiano ha insegnato: guarda dentro te stesso, scopri i valori dell'intelligenza, della spiritualità, dell'anima, perché tu essenzialmente sei questo.
    Ora che cosa ho scoperto? Il problema era male impostato, perché cercavo la risposta alla mia identità solo dentro di me, macerandomi interiormente; devo pormi invece continuamente la domanda «chi sono io» a partire dal volto dell'altro.
    E la risposta può essere: «Eccomi». Allora sono l'uomo della solidarietà.
    Se invece rispondo: «Non me ne importa niente di te», allora sono l'uomo Caino, sono l'uomo dell'egoismo.

    Giustizia

    La giustizia non si limita e non si gioca solo tra singoli, ma è arrivato il momento in cui la giustizia si gioca tra popoli, e di questo soprattutto noi cristiani dobbiamo essere convinti.
    La giustizia non è solo una questione di furti, ma è un qualcosa che va oltre ciò che passa per le aule dei tribunali. Per il fatto che nel mondo nascono i famosi Tribunali Russel o la Lega per i diritti dei popoli, si comincia ad avere la sensazione che c'è un'altra giustizia più grande, che va al di là dei litigi sui diritti singoli, anche se c'è chi si chiude nel suo privato e fa di tutto per non essere toccato da questo problema. Tutto questo ha generato una visione di giustizia-sviluppo.
    Che cosa c'entra la giustizia con lo sviluppo? Chi è che subisce il torto? Già Leone XIII parlava della miseria immeritata. La miseria immeritata evoca ingiustizia: se qualcuno sta male non è colpa sua, ma è colpa di qualcun altro. Quindi questa miseria immeritata è oggi alla portata di tutti: chi vuole può chiederselo, chi vuole può rispondere.
    Ma qual è l'atteggiamento dei giovani di fronte a questa nuova sensazione di giustizia e ingiustizia, e quindi alla connessione tra giustizia e sviluppo?
    Ci possono essere cinque atteggiamenti che vanno da un estremo all'altro.
    Un atteggiamento molto superficiale è quello della curiosità verso i paesi in via di sviluppo: i paesi del Terzo Mondo. Questi paesi stimolano moltissima curiosità specialmente per il loro paesaggio esotico. Chi si ferma solo sulla soglia della curiosità, resta fuori dal problema.
    Il secondo atteggiamento è la colpa e la rimozione. Oggi chi approfondisce il problema vede che possiamo avere un certo livello di benessere perché qualcun altro non ce l'ha. Questa sensazione non è piacevole, è come entrare in un supermercato pieno di merce e pensare che è così pieno perché c'è tanta gente che muore di fame. Questa sensazione non fa venire la voglia di riempire il carrello, è una sensazione di disagio. E un modo per superare il disagio è rimuovere la sensazione: colpa e rimozione.
    Terzo atteggiamento è la responsabilità e l'impegno. Il problema non viene risolto rimuovendolo, ma lo si affronta facendolo sfociare nell'impegno concreto: lo sviluppo è pensato in termini sociali e collettivi, mondiali.
    Il quarto atteggiamento è rappresentato dalla dissoluzione dell'impegno nell'ideologia. C'è chi rimuove in maniera elegante, cioè arriva a capire che il problema esiste, che qualcosa bisogna fare; arriva ad ammettere che chiudere la porta non è una soluzione. Allora rilancia il problema su sfere ideologiche, su discorsi astratti che a quel punto sono innocui, non fanno male a nessuno.
    Ultimo atteggiamento è la delega: ci pensi colui a cui spetta, chi è deputato a questo.
    Per chi ha scelto l'atteggiamento dell'impegno, si pone il problema dei luoghi. Uno è quello del volontariato internazionale; un altro luogo è quello del laicato missionario; un altro ancora è l'impegno politico preso seriamente. La solidarietà non può fermarsi infatti a livello personale; bisogna che cambino le strutture che sono alla fonte delle ingiustizie. Certamente senza un'azione politica quelle strutture non cambieranno mai. Un ultimo luogo dell'impegno è quello della denuncia e dell'informazione: un impegno per tanti giovani che non hanno altre possibilità d'azione.

    Ecologia

    Il contributo che posso dare in questa riflessione è soprattutto rivolto a come noi cristiani possiamo giudicare il movimento ecologico che si sta sviluppando nel mondo.
    Dopo l'avvento di Gorbaciov, quello che poteva essere la minaccia più grave alla creazione, cioè la guerra nucleare, è di fatto passata in secondo piano. Slitta invece al primo posto il problema dell'inquinamento.
    Se non si produce un cambiamento radicale nella mentalità, nel costume, nei comportamenti, negli orientamenti di fondo della politica degli stati, sia di quelli sviluppati che di quelli in via di sviluppo, noi ci stiamo preparando a una catastrofe di proporzioni inimmaginabili.
    Dall'altra parte bisogna guardare positivamente allo sviluppo del movimento ambientalista: è il vero grande sogno dei tempi dell'epoca in cui viviamo. Trenta anni fa Giovanni XXIII disse che i grandi segni dei tempi erano la rinascita dei paesi un tempo vittime del colonialismo, lo sviluppo del movimento delle donne e la crescita del movimento operaio. A questi tre grandi fenomeni oggi va aggiunto quello del movimento «verde».
    È una questione capitale. Una volta, per dimostrare l'esistenza di Dio, si ricorreva spesso alla natura. Oggi il discorso è completamente capovolto: è soltanto chi crede che la natura è creata da Dio che può davvero impegnarsi fino in fondo per evitare che questa natura venga distrutta dall'uomo.
    È un capovolgimento totale: una volta era la natura la vera prova dell'esistenza di Dio; oggi l'esistenza di Dio è una delle tante prove che bisogna difendere la natura.
    Quali sono i valori cristiani colorati di verde? Quali sono i valori della nostra fede? L'amore per la natura, il rifiuto di un suo sfruttamento irrazionale, la prevalenza della qualità della vita sulla quantità dei beni da consumare, la condanna del consumo come dilapidazione di risorse non rinnovabili, uno stile di vita sobrio e non dissipatore, la destinazione universale dei beni intesa non solo in senso temporale definito, ma anche rivolta al futuro, e quindi la preoccupazione per le generazioni future.
    Quali sono, invece, i limiti dell'esperienza ecologista?
    Un atteggiamento educativo è fondamentale: spingere sapientemente i tasti per consentire da un lato l'innamoramento vero per la natura e la sua tutela, e dall'altro evitare che questi innamoramenti portino a sbandate. Il primo limite, quindi, è la divinizzazione della natura; il secondo è il suo carattere di messianismo, ossia di religione secolare; il terzo è la riduzione dell'uomo da immagine di Dio a uno dei tanti elementi del creato, e soprattutto il passaggio ad una impostazione nuova che viene definita biocentrica; un altro limite è la demonizzazione e il rifiuto dello sviluppo, della tecnica, dello sforzo umano per raggiungere migliori condizioni di vita.
    Nel suo senso letterale la parola «ecologia» vuol dire dottrina della casa.
    Noi cristiani ci siamo dimenticati di quella riflessione profonda che ci diceva che l'abitatore della casa del creato oltre che l'uomo e gli animali, è Dio. Ecco il punto su cui interrogarsi a fondo come cristiani: capire i motivi che hanno portato l'uomo dalla libertà di coltivare e custodire alla libertà di sopraffare e di sfruttare.
    Il passaggio fondamentale è quello di una certa concezione di natura e di ambiente.
    Nella natura l'uomo si sente in qualche modo il dominatore. L'ambiente invece è una rete di relazioni in cui l'uomo è una delle tante relazioni, sicuramente la relazione centrale, ma non la sola.
    Questo ci dovrebbe riportare in qualche misura a interrogarci sul motivo per il quale nella Genesi l'uomo ap pare solo al sesto giorno. Dobbiamo interrogarci non soltanto sul fatto che, apparendo l'uomo solo al sesto giorno, ne manifesta la importanza fondamentale.
    In realtà la creazione finisce il settimo giorno; quindi il concetto espresso in «l'uomo che fa» non è il senso più vero della versione di Dio, ma il senso più vero è quanto contenuto nell'espressione «l'uomo che è». Il coronamento del creato non è l'uomo, ma il sabato di Dio.
    In questa visione l'uomo non ha più quella volontà di dominio che è stata espressa in particolare da Newton e dall'industrialismo esasperato che attraversa la storia dell'umanità, ma è decisivo il suo essere in Dio.
    Allora si riscopre che questo messaggio ecologico è un messaggio forte, impegnativo, che parla alla coscienza di ciascuno, di ogni uomo non meno che del cristiano.


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