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    (NPG 1989-03-18)


    Non trovo miglior modo di en- trare in argomento che dar conto di un'esperienza personale la quale, però, tanto personale forse non è. Nella misura in cui queste etichette hanno ancora un valore, credo di potermi definire un laico, e politicamente quello che si dice un democratico progressista. Eppure, ogni volta che negli ultimi tempi mi capita di leggere o ascoltare una difesa di queste posizioni in quanto summa di princìpi generali che sarebbero capaci in tutte le circostanze di additare le soluzioni giuste, provo regolarmente una sensazione d'insofferenza, d'inadeguatezza, diciamo pure di fastidio. È il dubbio che, dietro molte di queste difese, ci sia qualcosa che non funziona, che esse chiudano troppo disinvoltamente gli occhi su intere parti della realtà.
    In tutto l'Occidente è in atto una grande (anche se per fortuna incruenta) battaglia sui valori, di pari passo con una loro ridefinizione. La sconfitta storica del comunismo e la crisi della sinistra, il dinamismo nuovo del cattolicesimo e la generale ripresa in grande stile delle idealità religiose, infine il successo un po' dappertutto di posizioni cosiddette di destra, ma che si presentano come posizioni di sapore non tanto politico quanto etico-civile: tutto ciò testimonia della contesa in corso, ne rappresenta i diversi momenti, ne è causa ed effetto insieme.
    In questa contesa, l'insieme dei valori laici d'orientamento liberal-progressista sta subendo un forte attacco, il primo serio attacco da quando, con la conclusione della seconda guerra mondiale, si è stabilita in tutto l'Occidente una loro sostanziale egemonia. L'impressione però è che essi non riescano a uscire dalla difensiva, che non sappiano reagire se non riproponendo imperturbabilmente se stessi hic et nunc, con una certa irritata sufficienza che tende quasi a delegittimare la domanda stessa di valori che da qualche tempo percorre le nostre società.
    Bisogna viceversa cominciare a dire a voce alta che tale domanda è assolutamente ovvia e - se l'espressione non è troppo altisonante - connaturata alla natura umana. È fuor di luogo opporre ad essa, come spesso si fa, il celebre ammonimento di Max Weber: «Chi ha
    bisogno di visioni del mondo vada al cinematografo!». A parte che valori e visioni del mondo non sono proprio le stesse cose, con tali parole Weber voleva solo mettere in guardia contro il pericolo di fare della politica un campo d'esercitazioni per falsi profeti, per sognatori d'utopie, per demagoghi, non già sostenere che una collettività non debba ispirarsi a una visione etico-spirituale dell'esistenza e del mondo, e mirare a tenervi fede.
    Proprio da qui il pensiero laico liberal-progressista dovrebbe prendere le mosse per un esame di coscienza. Riconoscendo, ad esempio, che, per ragioni che in certa misura sono legate ai suoi stessi fondamenti teorici, una volta trasferito sul terreno della prassi storica della società di massa, esso tende con troppa facilità a divenire e ad essere sentito come una semplice ideologia della tolleranza a 360° e dell'indifferentismo etico, fatti salvi, ovviamente, i limiti più triviali della legge e dell'ordine.
    I laici, i democratici, si sono finora preoccupati troppo poco di questo pericolo. Ad esempio hanno per lo più sempre considerato la difesa di comportamenti e di affetti etici di tipo tradizionale alla stregua di manifestazioni di spirito retrivo; o semplicemente di spiriti bizzarri se quella difesa veniva dalla loro parte...
    E così pure l'opinione pubblica progressista non ha fatto troppo caso - o addirittura è stata corriva - al decadimento catastrofico di tutti gli istituti deputati alla trasmissione del patrimonio culturale (scuola e università), si è mostrata e si mostra ognora distratta rispetto a fenomeni come lo scarsissimo senso civico, la crescita patologica della dipendenza psicoculturale dalla televisione, la dimensione ormai divorante della moda, la volgarità e la faciloneria della comunicazione: fenomeni diversi, ma che tutti insieme sembrano destinare la nostra compagine civile, e specialmente i suoi membri più giovani, a una perdita inquietante di «serietà», di consapevolezza e di contegno etico. Ma poiché un oscuro andito a tali cose non può essere mai del tutto spento, come meravigliarsi se poi Comunione e liberazione trova seguito e consensi? Nessuna società può vivere e tenersi insieme solo mirando all'accrescimento del reddito, o preoccupandosi della sua distribuzione ottimale. Ciò poteva forse accadere, e riusciva ad incarnare una rappresentazione di valori di segno forte (il «progresso», la «giustizia»), quando quel reddito era scarso e sperequatissimo, ma ora non più. L'identità politica - e più ancora ideologica - laico-democratico-progressista soffre dell'eccesso d'enfasi con cui troppo spesso continua a tenere gli occhi fissi a questo ambito o ad altri consimili. Ma in tal modo essa si espone facilmente all'accusa, da un lato di essere portatrice di una visione del mondo intimamente «materialista», dall'altro di essere oggettivamente responsabile di una reductio socio-statutista delle prospettive e dei problemi di vita degli individui: cioè di tendere a porre sempre e comunque nella società e nello Stato il fulcro non solo di ogni espressione ma anche di ogni Bildung personale.
    Il laicismo democratico-progressista ha creduto che una miscela di individualismo e di ruolo tutorio dello Stato fosse la migliore ricetta per la formazione di una società e di individui liberi. Ma ciò si è rivelato spesso falso. Non poche volte, infatti, quella miscela ha prodotto nella pratica un egotismo garantito e protetto, si è risolto cioè in una malleveria in bianco offerta dalle leggi e dal costume all'idea che possa essere esclusivamente puro interesse o desiderio personale la base della motivazione della moralità: un'idea che mina alla base ogni legame tra gli individui, ogni vincolo di obbligazione sociale e di esistenza comunitaria, da quello della famiglia a quella più ampia della compagine nazionale. L'opinione pubblica laica democratico-progressista e la maggior parte dei suoi portavoce sembrano essere ciechi e muti, quasi fatalisticamente rassegnati, di fronte alla somma di sofferenze e di disagi - per nulla minori, anzi talvolta maggiori di quelli suscitati dalle antiche discriminazioni di reddito, di sesso o di status - che il rapido diffondersi di questa idea-prassi ha prodotto nel corpo sociale. Ed ecco allora che altri si fa forte, giustamente, di quelle sofferenze e di quei disagi.
    Il laicismo democratico-progressista allontana lo sguardo da tali problemi, forse perché teme, se facesse altrimenti, di scendere sul terreno degli avversari e di tradire le sue premesse. Ma è vero il contrario. Si tratta, semmai, di tornare a queste. Cioè di ricordare che mai i suoi grandi padri hanno pensato che la libertà potesse andare disgiunta dalla responsabilità, così come mai essi hanno cessato di credere che il problema della libertà ha sempre qualcosa di un dramma, di un cammino travagliato, sul cui sfondo si agitano forze misteriose e potenti che legano l'umano a qualcosa che sta oltre la sua essenza puramente tangibile. Per quanto è noto, né Kant né Stuart Mill né altri loro pari si è mai fatto attraversare la mente dall'idea che la libertà sia sinonimo del carnevale o di un free-shop.
    Certo, restare fedeli a questo retaggio è tutt'altro che facile in una società di massa, ai cui bisogni di certezze ultime, di valori suggellati dal crisma dell'eterno, il liberalismo (uso per brevità questo termine che mi sembra il più generale e riassuntivo) non potrà tra l'altro mai soddisfare.
    Ma se esso in qualche modo non tenterà di ritornare al suo ethos origina-rio, sospettoso di troppe facili e comode conquiste, il liberalismo è di sicuro votato alla sconfitta, frutto amaro e paradossale delle sue stesse grandi vittorie.

    (E. Galli della Loggia La Stampa, 28 settembre 1988)


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