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    Lontananza ed estraneità della Bibbia



    Giuseppe Barbaglio

    (NPG 1989-06-58)


    Anche chi può vantare, a ragione, una rilevante dimestichezza con i testi biblici, deve confessare di trovarsi davanti a «un libro chiuso con sette sigilli», per usare una formula con cui l'autore dell'Apocalisse si è riferito al contenitore dei segreti della fine del mondo.
    Ogni tentativo di negare le distanze risulterà illusorio, perché si tratta di una dimensione insita nella natura stessa della Bibbia, figlia del suo tempo, un tempo remoto non solo sulla scala cronologica ma anche e soprattutto dal punto di vista culturale.
    Non è infatti un libro disceso dal cielo, preconfezionato, adatto a tutti gli uomini di tutti i tempi.
    Certo, attraverso l'approccio ermeneutico le sacre Scritture ebraiche e cristiane ci diventano vicine e familiari, ma non al prezzo di annullare o misconoscere la loro lontananza ed estraneità. Esse sono lontane e vicine nello stesso tempo, ma naturalmente lette da diverse angolature.
    A me spetta qui il compito di evidenziare e documentare l'intrinseca lontananza ed estraneità della Bibbia.
    Procederò analizzando successivamente i suoi tre aspetti essenziali: essa è, a diversa profondità, testo, testimonianza della storia del popolo dei profeti (Antico Testamento) e del popolo degli apostoli (Nuovo Testamento), confessione di eventi fondanti, in concreto dell'esodo e della vicenda di Gesù di Nazareth.

    UN TESTO LONTANO ED ESTRANEO PER NOI

    Tutti sappiamo che è stata vergata in ebraico (una piccolissima parte anche in aramaico) e in greco (greco ellenistico distinto da quello classico, ma anche distante dal greco moderno), due lingue dell'antichità, rette da leggi proprie e non poco diverse, strutturalmente, dalle nostre lingue moderne. Si obietterà: ma non abbiamo a nostra disposizione buone traduzioni? Certo, le abbiamo, eppure in nessun altro caso come in questo vale il principio secondo cui il traduttore è anche un po' traditore. In ogni modo, fa testo soltanto la lingua originale e su quella si valutano le traduzioni. Un tentativo di smontare le lingue bibliche e di tradurre in lingua corrente è stato fatto recentemente anche in Italia, con esito facilitante la lettura, ma con semplificazioni «traditrici».

    Il miscuglio dei generi letterari

    Comunque esperienza più diffusa è quella di chi, leggendo o ascoltando la lettura della Bibbia in traduzione, può toccare con mano la diversità dei generi letterari usati dagli autori delle Scritture ebraiche e cristiane rispetto ai tipi della nostra letteratura.
    Per esempio, il genere letterario storico della Bibbia presenta caratteri peculiari.
    Anzitutto si deve parlare in proposito di più generi letterari: abbiamo gli annali (cf per esempio i libri dei Re), la storia interpretata teologicamente (cf per esempio i racconti delle origini, non privi di elementi mitologici), l'epopea (si veda il libro dell'esodo nelle grandi sezioni narrative), il romanzo storico (come i libri di Giuditta, di Ester, di Rut), ecc.
    Ma di norma esso non mira alla ricostruzione esatta del passato. Per questo le due spine dorsali di ogni storia nel nostro senso, la cronologia e la topografia, risultano nella Bibbia sommarie se non inesistenti. L'interesse cade sul presente, dunque sul senso degli eventi passati per l'oggi. Si aggiunga che la fede biblica ha spinto a vedere ed evidenziare la mano di Dio nelle vicende umane: il racconto storico diventa così confessione della presenza divina nella storia ed evidenziazione, per intuito da credente, dei segni della sua azione salvifica.
    Sul piano strettamente stilistico, poi, gli autori biblici sono portati all'amplificazione retorica, a creare grandi scenografie, ad amare i grandi numeri, allo scopo di far risaltare plasticamente l'importanza dell'evento. Così per esempio, nel racconto del passaggio del Mar Rosso si narra delle acque divise in due grandi masse, una a destra e una a sinistra, e in mezzo sull'asciutto passano gli ebrei fuggiti dall'Egitto, mentre gli inseguitori egiziani saranno travolti («avallo e cavaliere», come precisa l'inno del cap. 15 del libro dell'Esodo).
    Si potrebbe dire, per concludere, che vi si mescolano, in diverse leghe o dosaggi, racconto, lirica esaltazione, teologia della storia, intento pedagogico (historia docet), motivi mitologici, gusto del grandioso, ma anche cedimenti alla favola (vedi il libro di Giona, dove un ruolo importante gioca il cetaceo).
    Un esempio eclatante di originale e irripetibile genere letterario storico sono i vangeli. Non possiamo non riconoscere la qualifica di storia di Gesù, del quale narrano i fatti e riportano i detti. Ma non si tratta di biografie: troppi vuoti nella parabola storica del protagonista! Ci si occupa solo dei pochi anni di vita pubblica, e anche in questo ristretto tratto di esistenza la completezza non appare affatto assicurata. Le annotazioni cronologiche e topografiche sono perlopiù generiche: «dopo quei giorni», «al di là del lago», «nella regione di Tiro». Alle legittime domande. quando Gesù nacque e morì, quanti anni aveva al momento in cui decise di dedicarsi alla missione di evangelista del Regno di Dio e poi quando morì, non si danno risposte.
    In realtà, gli evangelisti non intendono narrare, ricostruendola, la parabola storica del loro protagonista. Ancor più, la loro attenzione propriamente non cade sull'accaduto, bensì sulla portata che l'accaduto ha circa il destino delle persone e il traguardo della storia umana.
    In concreto, più che raccontarci come Gesù è morto in croce, essi sottolineano che egli è stato crocifisso per noi. Storia, catechesi, teologia, confessione di fede: i vangeli sono tutto questo in un amalgama originalissimo.

    La chiave del testo

    Di qui l'esigenza impreteribile ma anche assai ardua di decifrare il genere letterario di questo o di quel libro della Bibbia che vogliamo leggere. Ne va di una corretta lettura, che ci salva da facili stravolgimenti. Sappiamo tutti che senza la relativa chiave non si entra nel mondo sconosciuto ed esotico del testo che ci sta sotto mano. Intendo, in ultima analisi, parlare di un indispensabile processo di decodificazione.
    La Bibbia come testo è un insieme di segni convenzionali, un testo scritto in un linguaggio cifrato. Solo decodificando il sistema usato possiamo aprirci a ricevere la sua comunicazione, comprendendo quanto gli scrittori biblici intendono comunicare. Solo così saltano i sette sigilli che la chiudono ai nostri occhi e alla nostra intelligenza.

    LA TESTIMONIANZA DI UNA REMOTA STORIA

    È certo che dietro il testo biblico, come del resto sullo sfondo di ogni scritto, si stagliano persone, gruppi, generazioni, comunità, popoli, ciascuno con la sua peculiare storia e cultura. Volti sconosciuti emergono dall'oscurità più totale dei tempi andati, interlocutori nuovi si fanno incontro a noi dall'altra parte di questo «filo telefonico», che mette in comunicazione non persone localmente separate, ma soggetti separati dalla barriera del tempo.
    Da questo punto di vista, leggere la Bibbia vuol dire dialogare con persone vive, che si palesano appunto attraverso la decodificazione del loro datato linguaggio biblico. In breve, leggere diventa così ascoltare.
    E qui la lontananza ed estranietà della Bibbia appare ancor più grande e disarmante. La decodificazione dei testi biblici fa balzare in primo piano uomini antichi, culturalmente diversi e alieni da noi. Bastano pochi esempi per dare evidenza corposa a questa tesi incontrovertibile.

    Un quadro cosmologico ristretto

    Anzitutto, se ci si domanda in qual modo essi pensano e vivono il mondo, la risposta è che appare loro come un edificio a due piani, cielo (piano superiore) e terra (pianoterra), con uno scantinato o un sottoterra, chiamato anche sheol nell'Antico Testamento, che è il regno dei morti. Un quadro cosmologico che ci permette di capire, per esempio, il racconto della creazione di Genesi 1, intitolato appunto: «In principio Dio creò il cielo e la terra». Allo stesso modo afferriamo il senso esatto della formula plastica indicativa del morire: «discendere» nello sheol, nel regno dei trapassati. E ancora, possiamo renderci conto di come il libro di Isaia indica la speranza finale: ci sarà una nuova terra e nuovi cieli (cf Is 65,17). Un modo di vedere che a noi risulta angusto, assai ristretto, sapendo quanto immenso è il mondo, abitato da galassie sterminate, in cui la terra e il firmamento che vi sta sopra (= questo è il cielo) appaiono granellini minuscoli.
    Detto in una parola, il mondo degli uomini che ci parlano dai testi biblici è veramente piccolo: una piccola casa, in più abitata da pochi, dal momento che, secondo i primi capitoli della Genesi, l'umanità è l'insieme di Camiti, Semiti e Giapeti.
    Sempre dal punto di vista cosmologico, possiamo rilevare come gli uomini della Bibbia fossero culturalmente dominati da una visione «tolemaica» del mondo: la terra, fissa e immobile, al centro del sistema cosmico e, attorno ad essa, a girare il sole, la luna e le stelle. Per questo comprendiamo il famoso grido di Giosué: «Sole, férmati in Gàbaon e tu, luna, sulla valle di Aialon»; grido efficace, ci dice il libro di Giosué: «Si fermò il sole e la luna rimase immobile finché il popolo non si vendicò dei nemici» (10,12-13). Il condottiero israelitico intendeva così prolungare il giorno e avere a disposizione altro tempo per poter sterminare gli avversari.
    L'esempio, come sappiamo, ha fatto epoca, perché ai tempi di Galileo, scienziati e teologi vennero a singolare tenzone con armi diverse, gli uni con l'osservazione scientifica e gli altri a colpi di pietrificati dogmi religiosi.

    Il mondo dell'uomo

    Altrettanto antico e alieno alla cultura moderna è il modo con cui il popolo dei profeti e il popolo degli apostoli pensavano all'umanità e alle sue origini.
    Usando una terminologia della scienza antropologica di oggi, possiamo sintetizzare il tutto parlando di monogenismo e di fissismo. L'umanità, dice la Bibbia, ha in Adamo il suo progenitore e in Eva «la madre di tutti i viventi» (Gen 3,20), e in tutti e due la coppia originaria e unica. Inoltre l'uomo è tale e quale dalle sue origini, un essere uguale a se stesso lungo l'arco del tempo, che trae origine non da esseri inferiori, ma da un intervento diretto di Dio creatore che lo ha costruito pienamente come ci sta davanti nella nostra èra storica.
    Noi oggi, più attenti alle diversità esistenti tra popolo e popolo, razza e razza, ragioniamo in termini di poligenismo e con mentalità evoluzionistica. Senza dire che gli inizi erano allora fissati a un data relativamente vicina: poche migliaia di anni, mentre la scienza antropologica, affermatasi nei tempi moderni, conta su numeri a sei/ sette cifre in più.
    In breve, il quadro è molto più complesso di quanto potevano pensare gli uomini della Bibbia, che si facevano spontaneamente un'idea assai semplice non solo del mondo ma anche dei suoi abitanti.

    Una cultura patriarcale

    I costumi familiari poi, che si riflettono negli scritti della Bibbia, erano improntati a concezione patriarcale e autoritaria della famiglia, che vedeva i figli sposarsi in casa e costituire una comunità sotto l'autorevole guida indiscussa del pater familias.
    Non per nulla il marito nell'Antico Testamento era chiamato ba'al, cioè padrone e signore della moglie, uso linguistico che appare anche nel Nuovo Testamento, come vedremo subito.
    In realtà, la donna prima del matrimonio era sotto l'autorità del padre e una volta sposata cambiava soltanto padrone, sottomessa al marito.
    Per questo non dovrebbe meravigliare più di tanto l'esortazione del- l' autore della lettera agli Efesini in 5,22: «Le mogli siano sottomesse ai mariti come al Signore».
    Esortazione così motivata: «Il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa» (5,23).
    E rincarando la dose, così conclude: «E come la Chiesa sta sottomessa a Cristo, così anche le mogli siano sottomesse ai loro mariti in tutto» (5,24).
    Un altro aspetto dello stato d'inferiorità della donna presso la società in cui ha avuto origine la Bibbia ebraica è la poligamia: un uomo poteva avere più donne, una moglie e diverse concubine, e i re in Israele, i più ricchi e famosi, si permettevano il lusso di mantenere un harem (cf 1 Re 11,3 che annota a proposito di Salomone: «Aveva settecento principesse per mogli e trecento concubine»).
    E ancora, solo i mariti avevano il diritto d'intentare causa di divorzio dalle loro moglie (cf Deut 24,1-4).
    Dunque una prassi divorzistica che sarebbe più esatto chiamare prassi di ripudio.
    Gesù vi si opporrà con grande fermezza, dichiarando che il vincolo matrimoniale, che risale al volere del creatore, non può essere sciolto per iniziativa umana.
    Si veda Mc 10,9: «L'uomo dunque non separi ciò che Dio ha congiunto».
    Anche l'etica matrimoniale ne risulta fortemente condizionata: in pratica essa esprime sul piano morale i rapporti giuridici tra coniugi stabiliti sulla base di tale concezione patriarcale e «maschilista», diremmo noi oggi.

    Testimonianza remota anche in campo etico e religioso

    È chiaro che tutto ciò rende la Bibbia lontana ed estranea alla nostra sensibilità e cultura, e i nostri tentativi di approccio saranno respinti. La difficoltà, si noti bene, non si limita a prendere atto della sua distanza da noi nell'ambito delle conoscenze cosmologiche, antropologiche e giuridiche. Dopo tutto, si osserva, essa non è un libro di scienza e noi l'accostiamo non per apprendere qualche notizia di carattere scientifico.
    Ma anche in campo etico e religioso paga un forte debito dalla cultura del tempo, e qui lo sconcerto appare ben più grave. Già si è detto dell'etica matrimoniale, ma ancor più ci allontana dalla Bibbia la sua conclamata e radicata indulgenza a forme estreme di violenza. A parte i noti racconti raccapriccianti della conquista, manu armata, della terra di Canaan da parte delle truppe di Giosué, narrati nel libro omonimo, si veda la charta magna della guerra sacra o guerra di Jahvé nel capitolo 20 del libro del Deuteronomio: «Quando ti avvicinerai a una città per attaccarla, le offrirai prima la pace. Se accetta la pace e ti apre le sue porte, tutto il popolo che vi si troverà ti sarà tributario e ti servirà. Ma se non vuoi fare pace con te e vorrà la guerra, allora la assedierai. Quando il Signore tuo Dio l'avrà data nelle tue mani, ne colpirai a fil di spada tutti i maschi, ma le donne, i bambini, il bestiame e quanto sarà nella città, tutto il suo bottino, li prenderai come tua preda... Così farai per tutte le città che sono molto lontane da te e che non sono città di queste nazioni. Soltanto nelle città di questi popoli che il Signore tuo Dio ti dà in eredità, non lascerai in vita alcun essere che respiri; ma li voterai allo sterminio» (vv. 10-16).
    È necessario precisare: ciò che più ci ripugna non è tanto e solo la prassi della guerra di sterminio, ma la concezione di Jahvé come Dio guerriero che si batte a fianco di Israele e comanda lo sterminio dei vinti. E l'obbedienza a Dio, la cui volontà nel caso concreto di una spedizione militare viene rivelata dai sacerdoti, esige che si conduca con assoluta determinazione una guerra sterminatrice. Si legga l'inizio della normativa sulla guerra sacra: «Quando andrai in guerra contro i tuoi nemici e vedrai cavalli e carri e forze superiori a te, non li temere, perché è con te il Signore tuo Dio, che ti ha fatto uscire dal paese d'Egitto. Quando sarete vicini alla battaglia, il sacerdote si farà avanti, parlerà al popolo e gli dirà: Ascolta, Israele! Voi oggi siete prossimi a dar battaglia ai vostri nemici; il vostro cuore non venga meno; non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro, perché il Signore vostro Dio cammina con voi per combattere per voi contro i vostri nemici e per salvarvi» (Deut 20,1-4).
    In realtà, un filone importante della Bibbia ebraica, esattamente la corrente deuteronomica e deuteronomistica, ha elaborato tutta una teologia giustificatrice della guerra di sterminio dei popoli che risiedevano nella terra di Canaan. Jahvé ha stabilito nella sua incontestabile volontà che la terra di Canaan, che sarà chiamata più tardi Palestina, spetti di diritto divino a Israele, perché gli è stata assegnata a Dio. Dunque gli israeliti sono autorizzati a entrarne in possesso, con le buone o con le cattive. Per questo si arriva a identificare la fede in Jahvé nella determinazione di battersi contro i nemici e di sterminarli.
    Vorrei ancora insistere su un altro dato culturale insito nel cuore stesso della teologia biblica, sia dell'Antico che del Nuovo Testamento, attirando l'attenzione sulla abituale immagine di Dio quale «signore» (Adoni, Kyrios), un padrone superiore ai padroni di questo mondo, più potente, perché è «il signore dei signori». La sua volontà dunque non si discute per princIpio, non gli si può chiedere spiegazione, ma solo sottomettersi docilmente, da buoni e fedeli sudditi. Dico sudditanZa perché correlativamente gli uomini sono visti e pensati come «servi» (ebed, doulos). Per esempio, noi tutti conosciamo il sì di Maria all'annuncio dell'angelo: «Ecco la serva (doulé) del Signore; avvenga di me secondo la tua parola»(Lc 1,38). E nel Magnificat ella canta lode al Signore, «perché ha fissato il suo sguardo sulla bassezza (tapein &i s) della sua serva» (Lc 1,48).
    Certo, si potrà anche dire che questa concezione teologica apporta di fatto dei correttivi, anche importanti, al rapporto Dio-uomo, che non si riduce a ricalco puro e semplice del codice sociale padrone-servo.
    Ma resta l'incontestabile constatazione di una proiezione in Dio di schemi sociali del tempo, in questo caso dello schema padronale o signorile.

    EVENTI FONDANTI CHE DIRETTAMENTE NON CI TOCCANO, EPPURE CI SCANDALIZZANO

    La storia del popolo dei profeti prende avvio e senso dall'esperienza dell'esodo, cioè dall'evento della liberazione delle tribù israelitiche dalla schiavitù egiziana e della loro adesione al Dio dell'alleanza stipulata al Sinai.
    Si tratta di storia di persone che credono nella presenza di Jahvé nelle pieghe della storia con progetto e azione «esodici», cioè consoni alla logica di esodo. Per questo e da tale punto vista l'evento passato è significativo per il presente e il futuro del popolo israelitico.
    Così, per esempio, quando dopo la sedentarizzazione delle tribù israelitiche si è riprodotta una situazione sociale simile a quella egiziana, con la creazione di una massa di servi della gleba e di una classe privilegiata di sfruttatori, il profeta Amos ha levato alta la sua voce di condanna della società israelitica del regno del Nord, chiamando tutti a fare «esodo», a trovare cioè una via d'uscita da uno stato di sperequazione economica oppressivo non meno dei lavori forzati in Egitto.
    Allo stesso modo, più tardi, i profeti hanno promesso, in nome di Jahvé, un «nuovo esodo» per gli israeliti esiliati nella terra di Babilonia (cf soprattutto i capp. 40-55 del libro di Isaia), cioè la loro liberazione, che accadrà di fatto sotto Ciro il Grande.
    L'esodo però ci appare quanto mai lontano e poco significativo.
    Già l'indeterminatezza con cui ci è narrato nel libro biblico omonimo spinge tale evento nelle nebbie di un passato remoto e nebbioso, in campo sfocato: non sappiamo infatti quando avvenne, quante persone interessò, in quali condizioni circostanziali ebbe luogo.
    Inoltre, visto storicamente, si presenta come un fatterello di cronaca, a tal punto che gli annali egiziani non ne parlano affatto: poche centinaia di persone, guidate da un certo Mosé, che fuggono dall'Egitto dove erano asservite ai lavori forzati, scampano a un pericolo mortale al Mare dei Giunchi e così si salvano.
    Ma soprattutto è pur sempre un evento che ha interessato altri, non noi, la loro storia, non la nostra.
    Si aggiunga l'atmosfera miracolistica che pesa sulla narrazione biblica: prodigi strepitosi, che la tradizione chiama abitualmente «le piaghe di Egitto», il passaggio del Mar Rosso tra due colonne di acqua che si è ritirata davanti alle tribù israelitiche, ma travolgerà poi gli egiziani inseguitori.

    Una strana logica dell'agire salvifico di Dio

    Comunque la ragione decisiva dell'estraneità di questo evento fondante la storia del popolo dei profeti è il fatto sconcertante che Jahvé salva sì il suo popolo, ma a prezzo della rovina fatta cadere sugli egiziani.
    La logica dell'agire salvifico divino nella storia sarebbe dunque quella spietata del mori tua vita mea?
    Una vita preservata, liberata, salvata, certo, ma con lo strumento della violenza portatrice di morte. Agli oppressi ebrei Jahvé ha mostrato la sua faccia di salvatore, liberatore e redentore, ma agli oppressori egiziani ha mostrato una seconda faccia, quella di «creatore» di morte, di violento annientatore dei nemici del suo popolo. Ecco dunque l'interrogativo radicale: come poter aderire nella fede alla logica dell'esodo se comporta tanta violenza? Come poter fare nostra la duplice faccia del Dio dell'esodo?
    Evento fondante della storia del popolo degli apostoli è invece la vicenda di Gesù di Nazareth, conclusa con la morte orrenda di croce, ma che i suoi discepoli dicono risorto. E anche qui siamo rimandati all'indietro di duemila anni circa, in una regione che faceva parte di una provincia periferica dell'impero romano, all'interno della piccola società giudaica di allora.
    Solo un pietismo ingenuo, acritico ed entusiastico, può portare a pensare Gesù quale personaggio di «attualità».
    Anzitutto si deve accettare che i contorni della sua figura, tratteggiata nei vangeli, sono sfocati e che molti vuoti restano nelle caselle della sua carta d'identità. La sensibilità umana che ama grandi personaggi, figure prominenti, eroi e santi, si sente poi delusa, nella sua attesa, da chi è letteralmente un non-personaggio, un non- eroe. Muore sconfitto dalla cricca sacerdotale del tempio di Gerusalemme, umiliato dal prefetto romano Ponzio
    Pilato che lo condanna alla pena infamante della crocifissione, senza da parte sua uno scatto di efficace e vittoriosa reazione. Il racconto della passione di Marco annota che alla vigilia della tragedia, nell'orto del Getzemani, era stato preso dall'angoscia e dal panico (14,33). La sua fine non rientra nel novero delle grandi tragedie; egli è solo uno dei tanti piccoli uomini schiacciati senza difficoltà.
    Comunque, ancora una volta, determinante, ci sembra, come motivo di estraneità, il Dio disvelatosi nella vicenda di Gesù.
    Non contrasta i disegni degli avversari di suo figlio, non si oppone alla sconfitta di quest'ultimo, che indirettamente è anche la propria, non risparmia al suo «amatissimo» la sorte orrenda della crocifissione. Ecco un Dio impotente, a cui si cerca di sfuggire con capziose distinzioni: poteva risparmiare al figlio la croce, ma non ha voluto per fini superiori. Ma così si finisce per avere un Dio malvagio, che vuole perseguire i suoi scopi pur nobili mettendo in conto la morte violenta di Gesù, dunque un Dio che non taglia nettamente con la violenza, ma la usa, facendosene così complice.
    In ogni modo, il nostro disagio è grande, se usciamo dai luoghi comuni e prendiamo sul serio la vicenda di Gesù, luogo dell' autodisvelamento di Dio. Certo, i discepoli del maestro di Galilea hanno testimoniato che il crocifisso è risorto, che Dio lo ha esaltato conferendogli il nome di Signore. Ma la risurrezione non annulla la dimostrazione d'impotenza divina del venerdí santo. Vi si aggiunge e completa il quadro, mostrando l'altra faccia di Dio: non risparmia la croce al figlio e, bisogna aggiungere, ai «figli», ma è capace di risuscitare i crocifissi, creando vita là dove regna la morte.
    Ecco il segno paradossale sotto cui l'evento fondante della vicenda di Gesù ci consegna l'immagine complessa di Dio, contraria alle diverse ma omogenee immagini divine delle religioni.


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