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    L'educatore credente come narratore dell'evangelo



    Riccardo Tonelli

    (NPG 1989-06-109)


    Ho davanti al mio sguardo l'educatore credente e mi interrogo sul modo con cui può svolgere la sua missione.
    In questa ricerca si intrecciano tre temi: la responsabilità che compete ad ogni educatore di "nominare i valori" con coraggio e fermezza; il compito di evangelizzare, che alcuni educatori assumono in modo esplicito, come esito ultimo del loro servizio educativo; la frequente utilizzazione della Bibbia in questa operazione, anche per "nominare i valori" dalla parte della fede.
    Si tratta di preoccupazioni certamente diverse. Non possono essere confuse l'una con l'altra; né tanto meno si può immaginare di risolverne adeguatamente una, solo perché è stata affrontata con competenza l'altra.

    La prospettiva

    I tre temi hanno però non pochi elementi in comune. In questo contesto ne sottolineo soprattutto uno, che considero di fondo per chi nell'evangelizzazione assume seriamente le logiche dell'educazione.
    Tra educatore ed educando, tra evangelizzatore e colui che viene evangelizzato, nell'atto educativo e nell'atto pastorale, si instaura una relazione. Essa è comune ai tre processi, anche se i contenuti che fa scorrere sono differenti. La qualità della relazione può essere studiata perciò come punto convergente di prospettiva.
    Da questa prospettiva considero nella mia ricerca un problema che si presenta oggi in termini conflittuali, anche per la sensibilità acquisita.
    L'educatore, l'animatore in un gruppo, la comunità impegnata nell'evangelizzazione dicono parole che non dipendono da essi, la cui autorevolezza si fonda su radici più lontane e decisive. Nello stesso tempo e con la medesima intensità essi riconoscono che il diritto alla parola esige uno stile ed una coerenza di vita: questa consapevolezza riduce al silenzio le parole più solenni e sollecita a pronunciare ogni appello prima di tutto per sé e sulla propria esperienza.
    Il processo si fa più complesso quando oggetto di questa testimonianza è la parola esigente della fede, per sostenere e sollecitare nuovi cammini di fede.
    Di qui l'interrogativo: parole autorevoli e ferme o timidi scambi di esperienze personali? Silenzio o parola?
    La mia ricerca punta su questi problemi, inquietanti per chiunque voglia vivere la propria responsabilità in termini maturi e promozionali.
    Spero che a fine percorso risulti facile costatare come l'attenzione alla relazione non significa affatto disattenzione ai contenuti. Mi riprometto al contrario di ritrovarli in tutta la loro esigenza veritativa, proprio a partire da un modello rinnovato di relazione.
    Dedico qualche battuta a comprendere più a fondo il significato di queste affermazioni, forse troppo gratuite e un poco perentorie. Propongo poi una ipotesi di soluzione, con il tono trepido di chi intuisce una prospettiva e cerca compagni di viaggio per sperimentarla.

    OLTRE IL SILENZIO

    La qualità della relazione educativa si trova al centro di comprensioni differenti. Nel recente passato una violenta crisi di identità ha attraversato la figura e la funzione dell'educatore. Oggi affiorano qua e là tentativi involutivi. Da molte parti sono cercate e sperimentate alternative serie e praticabili.
    Devo, per forza, dichiarare esplicitamente il mio punto di vista.

    Una relazione "comunicativa"

    Educazione è un processo che investe, con piena responsabilità, interlocutori diversi. Educatori ed educandi sono coinvolti in una relazione che tutti stimano indispensabile per la vita propria e altrui. Nel gioco interattivo, lo scambio e il confronto viene sperimentato come reciproco guadagno.
    In questa relazione gli interventi e le mete sono condivise e concordate tra tutti gli interlocutori. Ma non è mai una relazione alla pari, tra interlocutori che raggiungono l'accordo attraverso il sottile gioco degli influssi e dei patteggiamenti. Si tratta invece di una relazione sostanzialmente asimmetrica. Anche per questo risulta tanto speciale da meritare, unica nel suo genere, il qualificativo di "educativa".
    Lo strumento attraverso cui si produce la relazione è fondamentalmente di tipo linguistico: la relazione educativa è una relazione comunicativa. La "parola" la costituisce e la realizza.
    Ciascuno dei due interlocutori dice qualcosa all'altro, sottoponendo alla sua attenzione un sistema di segni destinato a richiamare dei contenuti vitali (la proposta di uno stile di esistenza e di un progetto globale di vita).
    Le stesse cose possono essere dette di quella particolare relazione comunicativa che chiamiamo, nella comunità ecclesiale, l'"evangelizzazione". L'intenzione reciproca ultima è la crescita nella fede e nella vita nuova. Lo strumento è la parola, testimoniata e pronunciata al servizio della verità, da chi ne ha la competenza.
    Anche in questo caso, si tratta di una relazione che coinvolge, nella stessa responsabilità e nella stessa passione, chi evangelizza e coloro a cui l'evamgelizzazione è rivolta.

    Alla ricerca di alternative

    Ho tracciato il quadro ideale, disegnando, a rapidi cenni, come dovrebbero strutturarsi, sul piano della relazione, l'educazione e l'evangelizzazione.
    Purtroppo le cose non vanno davvero secondo questi modelli.
    Non mi fanno problema, in questo momento, i "contenuti" messi in circolazione. Rappresentano innegabilmente un punto serio da verificare, in un momento di profondi cambiamenti, antropologici e teologici.
    Le mie perplessità riguardano la qualità della relazione.
    Veniamo da tempi di profondo silenzio. Dopo il periodo dell'onnipotenza educativa e delle certezze sopra ogni dubbio, l'educatore ha cercato di ricostruirsi un po' di credibilità interiore, rinchiudendosi in un sofferto silenzio. L'educazione e l'evangelizzazione si sono trasformati in uno scambio incerto e fragile, dove il diritto alla parola era confermato solo per coloro che accettavano di stare al gioco. La soggettivizzazione e l'incertezza valoriale ha segnato tragicamente la relazione educativa.
    Oggi siamo in grado di apprezzare gli aspetti positivi dell'operazione. Ma ci rendiamo lucidamente conto delle minacce che l'attraversano. Questo silenzio ha ridisegnato la figura dell'educatore; ma gli ha tolto il coraggio di nominare le esigenze irrinunciabili della vita. Come ogni espressione di insicurezza e di fragilità programmata, non ha aiutato a vivere, nella speranza e nella responsabilità operosa.
    Molti cercano alternative serie e praticabili.
    Purtroppo però è facile superare la posizione contestata, oscillando disperatamente verso il suo contrario.
    Stanno sorgendo, infatti, sul piano pratico e con una insistita giustificazione anche teorica, modelli forti e sicuri. L'autorevolezza dell'educatore diventa persino sfrontata proposta di immagini ad effetto, offerta di espressioni rassicuranti, pronunciate fuori da ogni schema critico, come risposta ad una pretesa ricerca di certezze.
    Non solo sembrano tornati i tempi che ci eravamo lasciati alle spalle. Vengono gridati talvolta come l'unico rimedio alla crisi in atto.
    Nell'ambito dell'educazione alla fede il processo viene enfatizzato, per l'intima connessione con una verità, donata alla nostra trepida ricerca di ragioni per vivere e per sperare. Si fa strada un'ipotesi di fondamentalismo: come se bastasse pronunciare parole formalmente "vere", per risolvere ogni problema.
    La relazione comunicativa è considerata così solo come il canale in cui chi conosce fa scorrere i contenuti verso chi è chiamato a conoscerli. La sua qualità è valutata insignificante rispetto ai contenuti stessi.

    UNA PAROLA "VERA"

    La verità sta a cuore ai difensori dei "contenuti" e a quelli che invece sono attenti anche alla relazione interpersonale: non possiamo certamente considerare la "mala fede" come variabile indipendente.
    Il nodo del problema è ad un altro livello: quando è "vera" l'informazione lanciata nell'educazione e in quella specialissima forma educativa che chiamiamo "evangelizzazione"?
    Non voglio scivolare sul terreno insidioso della ricerca sugli assoluti. Mi fermo in un ambito più concreto e solo funzionale. D'altra parte è possibile disegnare la relazione comunicativa, solamente dopo aver compreso quale livello di verità possiamo assicurare nelle nostre affermazioni.
    Per non continuare a mescolare piani operativi, analizzo ora direttamente il processo di evangelizzazione. Le conclusioni raggiunte in questo ambito sono facilmente generalizzabili per ogni relazione educativa.

    Un processo a carattere simbolico

    Ricordo un tema già affrontato molte altre volte. È pregiudiziale a tutta la ricerca.
    L'evento di Dio si rende comunicabile all'uomo attraverso le parole umane che lo esprimono. Nella parola umana, infatti, la parole indicibile di Dio si fa parola per l'uomo, appello alla salvezza. La logica di fondo è quella dell'Incarnazione, come ricorda esplicitamente Dei verbum 13.
    Lo stesso capita quando la comunità ecclesiale e l'educatore della fede lanciano l'appello dell'evangelizzazione. Non propongono direttamente la parola di Dio. Quello che si vede, si può controllare e manipolare, è solo un segno, una povera "cifra" umana di un grande evento di salvezza e di amore. Attraverso questo segno la comunità ecclesiale rende presente nella parola umana l'ineffabile parola di Dio.
    Anche la risposta dell'uomo percorre lo stesso schema simbolico. Egli pone un gesto, dice una parola, piega la sua esperienza verso orientamenti e motivazioni. In tutto questo esprime l'inesprimibile decisione di vivere nella fede e di confessare che solo Dio è il Signore e il Salvatore.
    Appello di Dio e risposta dell'uomo possiedono una loro struttura visibile, di natura simbolica, destinata a veicolare eventi più profondi e più radicali. In essa il senso diretto, primario, letterale, designa un significato secondario, indiretto e figurato, che può essere appreso solo attraverso il primo.

    Tra presenza e assenza

    L'evangelizzazione si realizza in una struttura simbolica. Essa, come ogni comunicazione intersoggettiva, è tutta giocata nel rapporto presenza-assenza, vicinanza-lontananza. Un segnale, fisicamente costatabile, chiama in causa e fa venire in mente qualcosa di ulteriore: un di più, assente e lontano, ma nello stesso tempo tanto implicato in ciò che si costata, da essere presente e vicino.
    Questa costatazione è già molto importante: pacifica per ogni relazione comunicativa intersoggettiva, dovrebbe diventarlo nella coscienza credente e matura della comunità ecclesiale. Aiuta a superare ogni visione schematica della verità. Non ci permette più di immaginare il rapporto tra evento e parole in termini fondamentalistici. Introduce quel prezioso "sospetto ermeneutico" che porta a distinguere tra il contenuto della fede e le sue espressioni linguistiche.
    Possiamo però procedere oltre, verso una comprensione più approfondita di quel gioco tra assenza e presenza che caratterizza il segno rispetto all'evento.
    Il rapporto simbolico si può realizzare secondo modalità differenti. Semplificando un po' le cose, si possono immaginare modelli comunicativi a carattere denotativo e modelli a carattere evocativo.
    Mi spiego con un esempio.
    Chi cerca un libro in una grande biblioteca, può lavorare sullo schedario o può ottenere l'autorizzazione di accedere alla sala-deposito.
    Lavorando nello schedario, rintraccio la scheda di collocazione del libro desiderato. Essa mi dà informazioni preziose per reperire il libro. Non ho ancora il libro tra le mani. Ma sono in grado di arrivare sicuramente ad esso.
    In questo caso, il rapporto tra segno (la scheda) e referente (il libro) è molto stretto e ben determinato. La scheda informa in modo denotativo rispetto al libro.
    La scheda deve contenere informazioni esatte, identiche tutte le volte che ricorre nello schedario.
    Chi invece accede nella sala-deposito, si muove con alcune informazioni generali. Conosce la pianta della biblioteca e conosce la logica di sistemazione dei libri. Forse sa anche in quale scaffale è collocato il libro desiderato.
    Cercandolo, si imbatte in altri libri. Li consulta frettolosamente e forse arriva a concludere che ce ne sono di più aggiornati rispetto a quello richiesto o si convince, a ragion veduta, della scelta prevista.
    L'informazione conduce al libro, in un gioco raffinato di fantasia e di responsabilità personale. Si tratta di un segno a carattere evocativo. Informa, evocando e responsabilizzando.
    L'evangelizzazione si realizza in una struttura simbolica. Di quale ordine? Evangelizzando, la comunità ecclesiale lancia segnali univoci, che conducono deterministicamente all'oggetto, oppure utilizza di fatto solo dei segni a carattere evocativo?
    I contenuti dell'evangelizzazione sono "veri" solo perché "denotano" l'evento? Oppure possono essere "veri" anche quando lo "evocano"?
    Non mi chiedo quale ipotesi sia la migliore. Mi chiedo, prima di tutto, quale sia quella più vicina al progetto di Dio, riconosciuto in Gesù.

    IL RACCONTO DELLA CENA

    Le prime volte che mi sono posto in modo riflesso l'interrogativo, sono rimasto profondamente inquietato.
    L'ipotesi e vocativa mi affascinava, anche come modalità matura di vivere nella fede. La decisione ultima, che fa vivere di fede interpretando la chiamata alla fede contenuta nella parola dell'evangelizzazione, è sempre infatti un atto di coinvolgimento libero e responsabile della persona: l'esperienza di un credente che ha sperimentato l'espansione di senso della fede nella storia umana, nella catena ininterrotta di altre esperienze credenti, che conduce fino i discepoli di Gesù di Nazareth. Questa sembra davvero la logica della fede: presenza senza essere possesso, assenza senza essere lontananza, decisione coraggiosa sostenuta nella fede della comunità.
    Eppure non riuscivo a concludere in termini tranquilli. Una lunga tradizione ecclesiale sembra spingere in altre direzioni. Mi faceva paura il gioco scatenato della soggettività, a cui sembra aprire la scelta di privilegiare i modelli evocativi. Non ce n'è proprio bisogno oggi, in un tempo in cui la riconquista della soggettività sembra minacciare il confronto con le esigenze di una verità chiamata a misurare ogni ricerca personale.

    La struttura dei vangeli

    Per capirci un po' di più, sono andato all'esperienza fondante della nostra esistenza cristiana: i vangeli e le lettere apostoliche.
    Ho cercato come evangelizzare e come ricostruire una relazione educativa "oltre il silenzio", alla scuola di coloro che hanno evangelizzato il Signore Gesù e educato a vivere nella sua sequela.
    Ho costatato un fatto di estremo interesse pastorale. Lo sapevo, perché l'avevo appreso sui libri della teologia. Toccandolo con mano sotto l'urgenza di problemi concreti, l'ho davvero riscoperto, come un'indicazione operativa specialissima.
    Questo è il dato: i vangeli e le testimonianze apostoliche non sono mai il resoconto materiale degli avvenimenti della vita di Gesù di Nazareth, di cui i discepoli sono stati testimoni. Essi sono invece un documento di fede: espressione autentica di eventi, riscritti nella confessione trepidante dell'agiografo e in dialogo con i concreti destinatari.
    Sono, in fondo, un documento tra fede e storia, capace di suscitare altre esperienze di fede, nell'autorevolezza e nella verità "storica" assicurata dalla presenza specialissima dello Spirito del Risorto.
    Considero, come esempio significativo, i racconti della Cena.
    Nel Nuovo Testamento esistono quattro redazioni della Cena: tre dei Sinottici e una nella 1 Cor.
    Le redazioni dei Sinottici sono molto simili (non certamente identiche). Si limitano a raccontare il fatto, senza particolari commenti. Paolo, invece, cambia registro. Racconta a cenni rapidi l'avvenimento, tutto preoccupato di sottolinearne le conseguenze sul piano dello stile di vita. Raccomanda la condivisione del pane terreno a coloro che partecipano dello stesso gesto eucaristico. Minaccia di morte quelli che invece conservano nel cuore e nei fatti la divisione e il sopruso.
    Nel suo vangelo Giovanni non racconta esplicitamente la Cena. Sembra quasi ignorare questo momento solenne della vita cristiana. Contiene però un racconto che ha il medesimo ritmo narrativo: la lavanda dei piedi. Analizzando con attenzione la pagina, ci si accorge dello stesso schema di fondo, quasi a carattere liturgico, fino a sollecitare alla medesima conclusione della Cena: "Fate lo stesso, in mia memoria", raccomanda Gesù.
    Perché racconti così diversi?
    Non sono il resoconto stenografico di un avvenimento, ma la sua espressione nella fede e nella passione di un testimone. L'autore non vuole descrivere dei fatti. Li ripropone come avvenimento salvifico. Li ricorda e li fa rivivere, perché sono la fonte, unica e definitiva, della salvezza. Ma li esprime, allargandoli con le parole della sua fede e con i bisogni concreti dei suoi destinatari.
    Giovanni vuole riportare la comunità ecclesiale allo spessore autentico dell'Eucaristia: Gesù dà la sua vita perché tutti abbiano la vita e chiede ai suoi discepoli di continuare lo stesso gesto. Sembra sostituire il simbolo del pane a quello più provocante della lavanda dei piedi, proprio per sollecitare all'evento che dà sostanza all'Eucaristia: la croce.
    Paolo grida la sua minaccia, nel nome del pane della vita, perché si rivolge a cristiani intorpiditi, consegnati al loro egoismo mentre celebrano il sacramento dell'amore e della condivisione.
    L'evento ricordato, la fede del testimone, la vita dei destinatari sono dimensioni dell'unico racconto.

    Una verità evocata e non descritta

    La stessa analisi può essere fatta su tutti gli avvenimenti raccontati dai vangeli.
    Basta pensare, per fare un altro esempio, ai testi solenni della preghiera del "Padre nostro": le parole riprodotte nei testi evangelici sono diverse, anche se la coscienza di aver appreso la preghiera alla scuola di Gesù resta vivissima.
    Intravedo una conclusione importante. Mi aiuta a decifrare secondo quali procedure comunicative siamo chiamati a servire la verità della fede nell'evangelizzazione e, di conseguenza, come possiamo utilizzare la Bibbia nel servizio educativo.
    La parola umana non è mai in grado di obiettivare l'evento misterioso di cui è manifestazione. Nella parola pronunciata l'evento è presente e assente nello stesso tempo: presente nella povertà del segno e assente perché la parola è sempre espressione limitata ed opaca.
    La verità, così importante nel cammino della fede, è nella relazione tra espressione verbale ed evento: non tutte le parole possono obiettivare l'evento e non in tutte le obiettivazioni l'evento si esprime nella sua ricchezza.
    La comunità (e i fratelli a cui nella comunità è affidato il ministero della verità per l'unità) valuta questa congruenza e sollecita ad una progressiva adeguazione dell'espressione soggettiva della fede verso la sua formulazione oggettiva ed ecclesiale.

    Fare la verità

    Il processo non può essere considerato solo sul piano delle formulazioni linguistiche. Proprio il riferimento ai racconti della Cena ci sollecita a pensare in termini operativi: la verità cristiana è una prassi di verità, per il Regno di Dio.
    Il singolo credente e la comunità ecclesiale sono chiamati a misurarsi sul Regno di Dio. Costruirlo nel tempo e verso la sua esplosione definitiva nei cieli nuovi e nella nuova terra, è un fatto fortemente oggettivo, di verità "fatta" (prima di essere detta), perché vita e morte hanno un loro spessore esigente e concreto, soprattutto quando sono comprese nella prassi di Gesù.
    Anche a questo livello ritorna come dono prezioso il servizio del magistero: la testimonianza dell'orizzonte di verità per la costruzione del Regno di Dio.

    UN MODELLO: UNA STORIA A TRE STORIE

    A questo punto, possiedo informazioni sufficienti per affrontare finalmente il problema che ha orientato questa mia ricerca.
    In apertura l'ho indicato con un interrogativo che chiamava in causa la qualità del servizio dell'educatore: silenzio o parola?
    Nel corso della riflessione, ho concretizzato l'alternativa, mettendo in primo piano la testimonianza dell'educatore credente e il suo riferimento alla Bibbia: come annunciare una parola di verità, per aiutare a crescere come uomini autentici, in un tempo di pluralismo e di complessità?

    Narrare una storia

    C'è un'alternativa seria al silenzio e all'intervento perentorio e sicuro. La suggeriscono implicitamente le considerazioni avanzate nelle pagine precedenti.
    L'alternativa sta in un modello di relazione educativa in cui si realizzi una comunicazione di stile evocativo.
    L'educatore, che fa proposte "evocando", infrange il silenzio, chiama in causa le esigenze fondamentali della vita, si pone al servizio di progetti che lo superano e lo interpellano. Lo fa però senza la pretesa di dire le cose in termini irreformabili, quasi che la sua fosse l'unica verità dicibile.
    Il modello evocativo assicura anche quel coinvolgimento dell'interlocutore, che è condizione irrinunciabile di una relazione educativa. Lo fa senza rinunciare alla sua funzione di adulto responsabile e senza scivolare in quegli schemi deduttivi che bruciano sul nascere la possibilità di una reale comunicazione.

    La Bibbia in un modello evocativo

    Nell'esperienza di molti educatori e nella riflessione di alcuni teologi, particolarmente sensibili ai problemi linguistici, ha preso progressivamente consistenza un modello comunicativo capace di assicurare le condizioni di una evangelizzazione a carattere evocativo. Viene di solito richiamato con la formula "narrazione", per sottolinearne qualità e movimento (si veda, per esempio, l'articolo di C. Molari in questo stesso dossier).
    Nella "narrazione" trova un posto privilegiato il riferimento continuo alla Bibbia. Essa assicura la qualità credente delle proposte e riporta la ricerca verso la soglia di una verità, accolta e sperimentata come dono alla nostra attesa di progetti e di futuro. Restituisce però alla Bibbia la sua struttura fontale. La riporta infatti come storia narrata, fondamento di una narrazione che continua.
    Riandiamo così alla prassi di Gesù e della comunità apostolica, fino a concludere che "la nostra predicazione e la nostra pastorale non sono in crisi perché si narrerebbe troppo [per mancanza di oggettività e di verità, direbbe qualcuno], bensì proprio perché non si narra più correttamente, perché non siamo più in grado di narrare con degli effetti pratico-critici, con un'intenzione liberante" (J.B. Metz).
    Ripropongo la narrazione come stile di relazione educativa e come esperienza concreta di evangelizzazione.

    Le condizioni per una vera narrazione

    Cosa significa "narrare"? Cosa qualifica la narrazione rispetto all'argomentazione, lo stile evocativo da quello denotativo?
    Un bellissimo racconto, tratto dai I racconti di Chassidim, mi aiuta a rispondere alla domanda, utilizzando ancora un metodo narrativo.
    "Si pregò un rabbi, il cui nonno era stato alla scuola di Baalschem, di raccontare una storia. Una storia, egli disse, la si deve narrare in modo che possa essere d'aiuto. E raccontò: Mio nonno era paralitico. Un giorno gli si chiese di narrare una storia del suo maestro. Ed allora prese a raccontare come il santo Baalschem, quando pregava, saltellasse e ballasse. Mio nonno si alzò in piedi e raccontò. Ma la storia lo trasportava talmente che doveva anche mostrare come il maestro facesse, cantando e ballando lui pure. E così, dopo un'ora, era guarito. È questo il modo di raccontare storie".
    Questo testo aiuta bene a comprendere cosa è "narrazione". E suggerisce, con una facile trasposizione, quali sono le condizioni che deve possedere una narrazione per diventare evento di salvezza, momento di evangelizzazione, senza banalizzarsi a vuota fabulazione.
    In primo luogo, è narrativo quel modello di comunicazione che è costruito sulla comunicazione, diretta, dell'esperienza di colui che narra e di coloro a cui si rivolge il racconto. In questa comunicazione di esperienze, l'annuncio cristiano viene restituito ad una sua dimensione qualificante: non è prima di tutto un messaggio, ma una esperienza di vita che si fa messaggio.
    Chi racconta sa di essere competente a narrare solo perché è già stato salvato dalla storia che narra; e questo perché ha ascoltato questa stessa storia da altre persone. La sua parola è quindi una testimonianza; la storia narrata non riguarda solo eventi o persone del passato, ma anche il narratore e coloro a cui si rivolge la narrazione. Essa è in qualche modo la loro storia. Chi narra, lo fa da uomo salvato, che racconta la sua storia per coinvolgere altri in questa stessa esperienza.
    In secondo luogo, la narrazione si caratterizza per l'intenzione autoimplicativa. La sua struttura linguistica non è finalizzata a dare delle informazioni, ma sollecita ad una decisione di vita: è una storia che spinge alla sequela.
    Per questo il diritto alla parola non è riservato solo a coloro che sanno pronunciare enunciati che descrivono in modo corretto e preciso quello a cui ci si riferisce. Chi ha vissuto una esperienza salvifica, la racconta agli altri; così facendo produce "formazione": aiuta a vivere e precisa lo stile di vita da assumere per poter far parte gioiosamente del movimento di coloro che vogliono vivere nell'esperienza salvifica di Gesù di Nazareth.
    In terzo luogo, la narrazione deve possedere la capacità di produrre ciò che annuncia, per essere segno salvifico. Il racconto si snoda con un coinvolgimento interpersonale così intenso da vivere nell'oggi quello di cui si fa memoria. La storia diventa racconto di speranza.
    Così chi narra di Colui che ha dato la vista ai ciechi e ha fatto camminare gli storpi, fa i conti con la quotidiana fatica di sanare i ciechi e gli storpi di oggi. Anche se annuncia una liberazione definitiva solo nella casa del Padre, tenta di anticiparne i segni nella provvisorietà dell'oggi.

    Una storia a tre storie

    Se analizziamo con attenzione le condizioni che ho appena ricordato, è facile concludere che la narrazione è nello stesso tempo ripresa di un evento della storia e espressione della fede appassionata del narratore.
    Questo è un elemento di estrema importanza. Ridisegna, in ultima analisi, la funzione dell'educatore. Riporta, nella sua prassi quotidiana di testimone delle esigenze più radicali della vita, lo stile con cui sono stati costruiti i vangeli dalla fede della comunità apostolica, sotto l'ispirazione dello Spirito di Gesù.
    La parola dell'educatore è sempre un racconto: una storia di vita, raccontata per aiutare altri a vivere, nella gioia, nella speranza, nella libertà di ritrovarsi protagonisti.
    Nel suo racconto si intrecciano tre storie: quella narrata, quella del narratore e quella degli ascoltatori.
    Racconta i testi della sua fede ecclesiale: le pagine della Scrittura, le storie dei grandi credenti, i documenti della vita della Chiesa, la coscienza attuale della comunità ecclesiale attorno ai problemi di fondo dell'esistenza quotidiana. In questo primo elemento, propone, con coraggio e fermezza, le esigenze oggettive della vita, ricompresa dalla parte della verità donata. Credere alla vita, servirla perché nasca contro ogni situazione di morte, non può certo significare stemperare le esigenze più radicali e nemmeno lasciare campo allo sbando della ricerca senza orizzonti e della pura soggettività.
    Ripetere questo racconto non significa però riprodurre un evento sempre con le stesse parole. Comporta invece la capacità di esprimere la storia raccontata dentro la propria esperienza e la propria fede.
    Per questo l'educatore ritrova nella sua esperienza e nella sua passione le parole e i contenuti per ridare vitalità e contemporaneità al suo racconto. La sua esperienza è parte integrante della storia che narra: non può parlare correttamente della vita e del suo Signore, senza dire tutto questo con le parole, povere e concrete, della sua vita.
    Anche questa esigenza ricostruisce un frammento della verità della storia narrata. La sottrae dagli spazi del silenzio freddo dei principi per immergerla nella passione calda della salvezza.
    Dalla parte della salvezza, anche i destinatari diventano protagonisti del racconto stesso. La loro esistenza dà parola al racconto: fornisce la terza delle tre storie, su cui si intreccia l'unica storia.
    Come nel testo evangelico, la narrazione coinvolge nella sua struttura l'evento narrato, la vita e la fede del narratore e della comunità narrante, i problemi, le attese e le speranze di coloro a cui il racconto si indirizza. Questo coinvolgimento assicura la funzione performativa della narrazione. Se essa volesse prima di tutto dare informazioni corrette, si richiederebbe la ripetizione delle stesse parole e la riproduzione dei medesimi particolari. Se invece il racconto ci chiede una decisione di vita, è più importante suscitare una forte esperienza evocativa e collegare il racconto alla concreta esistenza. Parole e particolari possono variare, quando è assicurata la radicale fedeltà all'evento narrato, in cui sta la ragione costitutiva della forza salvifica della narrazione.
    In forza del coinvolgimento personale del narratore, la narrazione non è mai una proposta rassegnata o distaccata. Chi narra la storia di Gesù vuole una scelta di vita: per Gesù, il Signore della vita o per la decisione, folle e suicida, di vivere senza di lui.
    Per questo l'indifferenza tormenta sempre l'educatore che evangelizza narrando. Egli anticipa nel piccolo le cose meravigliose di cui narra, per interpellare più radicalmente e per coinvolgere più intensamente.

    PER RECUPERARE L'AUTOREVOLEZZA DI NARRARE

    L'educatore racconta la storia di Gesù di Nazareth e della fede che molti uomini hanno avuto in lui, con una pretesa: chiede di sceglierlo come il Signore della propria vita, fino "a vedere la storia come Lui, a giudicare la vita come Lui, a scegliere ad amare come Lui, a sperare come insegna Lui, a vivere in Lui la comunione con il Padre e lo Spirito Santo" (RdC 38).
    L'educatore invade così il santuario intimissimo dell'esistenza di una persona, con una proposta che sconvolge le logiche dominanti, come una folata improvvisa di vento.
    Per farlo, soprattutto in un tempo come il nostro, egli ha bisogno di una dose alta di autorevolezza.
    Dove può recuperarla?
    Lo schema tradizionale affidava l'autorevolezza alla verità delle cose proclamate. Quando una affermazione era vera, congruente nel rapporto oggetto-soggetto-predicato, poteva essere gridata a voce alta. Al diritto della verità corrispondeva, da parte del destinatario, il dovere di accoglierla.
    Qualche volta il processo percorreva sentieri meno limpidi. L'autorevolezza veniva considerata l'altra faccia dell'autorità. A colui che aveva un ruolo socialmente riconosciuto, con relativo accumulo di autorità formale, competeva l'autorevolezza di proporre determinate cose. Anche in questo caso, al diritto del proponente corrispondeva il dovere dell'interlocutore.
    Questi modelli sono entrati in profonda crisi: per una correzione di logica interna e per la violenta soggettivizzazione.
    La funzione dell'educatore rimane scoperta, allo sbaraglio dei giochi soggettivi e degli influssi emotivi?
    Riaffermo, prima di tutto, il dovere di recuperare autorevolezza, per possedere il diritto di parlare, in un tempo di pluralismo che affida questo diritto solo a chi accetta di dire cose che non contano o non entrano in conflittualità con le logiche dominanti.
    Di questa autorevolezza l'educatore ha un bisogno particolare soprattutto se si impegna a svolgere la sua funzione "narrando". La scelta di un modello evocativo richiede un credito tutto speciale, per sollecitare la responsabilità e la fantasia dell'interlocutore nella direzione della sua maturazione umana e cristiana.
    Il recupero di autorevolezza non è legato al momento del far proposte. In questo momento l'educatore dice, con sincerità e coraggio, quello che vuole prospettare, nello stile, buono e coinvolgente, della narrazione.
    Si realizza prima: argomentando, l'educatore fonda l'autorevolezza necessaria per fare proposte in modo narrativo.
    L'educatore giustifica la sua pretesa di avere qualcosa da dire di importante, quando fonda la pretesa di essere presente, come educatore: come testimone di eventi già dati, che misurano quotidianamente la nostra soggettività.
    Argomentare vuol dire, in questo caso, contare su una competenza acquisita nella quotidiana fatica della disciplina, dello studio, dell'aggiornamento.
    Vuol dire ancora capacità di porre concretamente gesti dalla parte della promozione della vita, fino alla disponibilità fattiva di dare la propria vita perché tutti abbiano un po' più di vita.
    Vuol dire infine sentirsi al servizio di un progetto, che supera persino i propri sogni e che inquieta, perché costringe a misurare la distanza che separa il vissuto dal desiderato. Di questo progetto l'educatore si sente "soltanto" servitore, come Gesù diceva di sé e degli amici suoi, rispetto alla vita, dono del Padre e impegno esigente.
    Questo recupero di autorevolezza dalla frontiera della competenza e del servizio pone problemi all'educatore e lo getta quotidianamente in crisi.
    La morte investe la sua vita, come quella di ogni uomo, mentre in prima persona lotta per vincerla in sé e negli altri. La sua speranza frana sotto il peso delle delusioni e delle incertezze. Persino le grosse parole "vita" e "morte" restano senza contenuti, quando si chiede in concreto: questo gesto è per la vita o favorisce la morte?
    Costretto a dire parole e a produrre gesti, gli cadono addosso come macigni. Parla e produce per gli altri. E si sente coinvolto lui, prima di tutto: parla di sé e per sg..
    Gli verrebbe voglia di tacere, rifugiandosi nel silenzio timoroso di chi rinuncia a parlare perché troppo consapevole dei suoi limiti. O si sente esposto alla tentazione di riversare sugli altri le sue crisi, trasformando magari i giovani in cavie dei suoi esperimenti.
    Credendo all'educazione, non riesce a dichiararsi soddisfatto di questi esiti. Cerca coraggiosamente modelli diversi: un'alternativa al silenzio e al disimpegno. Impara così a dire cose grandi, narrando.


    T e r z a
    p a g i n A


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