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    Disagio, rischio e devianza: emergenza giovani?



    Giancarlo Milanesi

    (NPG 1989-04-4)


    L'opinione pubblica si è fatta sempre più sensibile negli ultimi anni ai fenomeni che sembrano mettere in evidenza forme di protagonismo negativo da parte dei giovani; «l'emergenza giovani» prende i nomi di droga, AIDS, delinquenza comune e delinquenza organizzata (mafia, camorra, 'ndrangheta), violenza sessuale, violenza negli stadi ed altro ancora. Si tratta di fenomeni che quantitativamente interessano una minoranza di giovani (comunque non trascurabile), ma che denotano la presenza in profondità di motivi reali di inquietudine e disadattamento tra molti giovani.

    IL DISAGIO MASCHERATO

    La parola racchiude un contenuto variegato: ha indubbiamente una sua base obiettiva, che coincide con la somma di inadempienze, ritardi, tradimenti di cui i giovani sono stati l'oggetto privilegiato negli ultimi anni, ed ha anche un vissuto soggettivo ad ampio spettro fenomenologico.

    Le espressioni del disagio

    Senza voler generalizzare ad ogni costo e senza cadere nel moralismo, non è difficile elencare una serie di percezioni, emozioni e sentimenti, valutazioni, bisogni e domande che nascono da una sofferenza spesso sommersa, ma non per questo meno autentica e sincera. Più frequentemente si fa riferimento alle frustrazioni che nascono dalla precaria situazione occupazionale e dalla incertezza degli sbocchi d'inserimento; è forse l'aspetto più appariscente, ma non l'unico o il più importante, del disagio giovanile. Più globalmente, le radici della sofferenza vanno cercate nell'inadeguatezza degli atteggiamenti con cui gli adulti si relazionano alle domande problematiche dei giovani: non è raro registrare risposte che vanno dalla incompetenza alla strumentalizzazione, dalla sfiducia all'inerzia, dal cinismo alla stigmatizzazione.
    Il problema essenziale del disagio giovanile va dunque ravvisato in una generalizzata incapacità del mondo adulto a riconoscere le esigenze della realizzazione, così come si presentano nell'attuale momento di transizione.
    Le espressioni di questa inadeguatezza si distribuiscono lungo l'asse privato-pubblico, con specifiche accentuazioni tematiche: l'abbandono familiare, l'incomunicabilità, l'inutilizzazione, il mantenimento in una dipendenza forzata, la mediocrità della risposta, il giovanilismo ad oltranza, la deresponsabilizzazione, il calcolo e il non riconoscimento, la dispersione delle risorse, ecc. Vi è una gamma di non risposte di cui la crisi delle istituzioni preposte alla socializzazione e alla valorizzazione delle nuove generazioni rappresenta il compendio più sintomatico.

    Gli sbocchi del disagio

    Se il disagio con tutte le sue articolazioni fenomenologiche appare indiscutibile, più difficile risulta la connessione tra esso e i suoi sbocchi ipotetici. Fino ad ora il disagio si è irrobustito a livello di «sommerso», non trovando fattori d'innesco sufficienti a farlo esplodere in comportamenti devianti, carichi di significato eversivo o, comunque, di conflittualità sociale. La tossicodipendenza, specialmente nel suo massimo sviluppo quantitativo, ha provocato soprattutto una preoccupazione centrata sul destino individuale e sul deterioramento delle relazioni microsociali dei giovani coinvolti; solamente in alcuni brevi momenti il comportamento «tossico» ha potuto assumere il ruolo di veicolo simbolico di una generalizzata contestazione del sistema, riducendosi in genere a solo meccanismo di fuga da una realtà non più sopportabile. La valenza potenzialmente esplosiva della droga è stata abilmente neutralizzata mediante una sua radicale privatizzazione, che di fatto non ha provocato altro che un'ulteriore emarginazione dei tossicodipendenti.
    Ora però riemergono forme vecchie e nuove di devianza giovanile legate alla criminalità organizzata; si agita nuovamente lo spauracchio di un terrorismo a radici internazionali; si registra una preoccupante «escalation» della violenza negli stadi; gli studenti scendono in piazza con rivendicazioni urgenti; si verificano spesso episodi di vandalismo su cose e di crudeltà su persone ed animali.
    Siamo arrivati forse a livelli di guardia, cioè ai valori di soglia del disagio giovanile, oltre cui non c'è se non l'irrazionalità collettiva?

    Quali risposte?

    La risposta a questi interrogativi non può essere che articolata e ipotetica. Non è possibile avallare una lettura dei fenomeni sociali in analisi, che utilizzi solo una sequenza meccanicistica del tipo disagio-deprivazione-reazione violenta o criminale. Ritengo più adeguata all'andamento fortemente selettivo dei comportamenti devianti una spiegazione che assegna un ruolo determinante, nell'eziologia delle risposte adattive o alternative, alla funzione di «significazione personale» delle variabili in gioco, che è legata evidentemente alla struttura di personalità e alle qualità soggettive dell'esperiente.
    Tale funzione è come un filtro che analizza le diverse variabili che costituiscono la premessa del comportamento deviante, e che interiorizza a suo modo le sanzioni provenienti dal controllo sociale, traendone un orientamento per l'azione personale in termini di «convenienza», «utilità», «desiderabilità» soggettiva del modello deviante. Se non tutti i giovani «a rischio» diventano di fatto devianti, è forse perché i fattori che dovrebbero spingere verso la devianza non agiscono automaticamente, ma all'interno di un processo di «conferimento di senso» ai fattori stessi su cui si fonda tra l'altro la responsabilità dell'azione e la sua imputabilità sociale.
    Con questo non si vuol dire che i fattori a monte (il disagio, cioè, la deprivazione, la marginalità, ecc.) non siano importanti e decisivi; resta infatti alta la. probabilità che la loro minacciosa presenza incida (sia pure non meccanicisticamente) sui processi di elaborazione collettivi e individuali dei «sistemi di significato», inquinando il filtro soggettivo.
    E ciò legittima l'urgenza di risposte culturali e politiche al «disagio» giovanile, e allo stesso tempo rivaluta la funzione educativa come mediazione essenziale dei processi percettivo-cognitivi e valutativo-decisionali che sono implicati nel percorso ipotetico verso la devianza: senza educazione, nel senso pregnante del termine, che include una vigorosa abilitazione del giovane a leggere criticamente la propria esistenza e a progettarla nella prospettiva del valore, il disagio è destinato a sboccare nell'irrazionalità.

    UNA GENERAZIONE Dl ABBANDONATI

    La somma delle inadempienze nei riguardi dei giovani prende spesso la forma dell'abbandono.
    Non è del tutto fuori luogo parlare dei giovani come di una generazione di abbandonati.

    Le premesse «culturali» dell'abbandono

    A prima vista il fenomeno dell'abbandono pare caratterizzare soprattutto le aree di sottosviluppo del Terzo Mondo, nel quale i «ragazzi della strada», i «menores abandonados», i «meninos da rua», ecc. sono sotto gli occhi di tutti, a milioni, nelle periferie delle grandi città. Eppure fenomeni di abbandono, spesso aggravati da altre forme di violenza più attiva, sono presenti anche nella nostra società.
    La premessa culturale dell'abbandono mi pare già evidente nell'atteggiamento generalizzato di indifferenza che caratterizza questa società.
    Parlo di indifferenza nei riguardi dei bambini, degli adolescenti, dei giovani, ma anche più in generale di indifferenza come rifiuto ad assumere chiare opzioni di valore, di fronte alle numerose contraddizioni della vita quotidiana nella società complessa.
    In effetti l'indifferenza verso la gioventù, espressa emblematicamente attraverso il calo dei tassi di nuzialità e di natalità, è la conseguenza logica di una crisi di fiducia verso la vita, verso il futuro, verso ciò che è nuovo e diverso. Si direbbe che l'indifferenza è l'atteggiamento obbligato di una società che, avviandosi ad un rapido invecchiamento, si ripiega nevroticamente su se stessa, senza speranza.
    La caduta di attenzione verso i giovani, che è la premessa di varie forme di abbandono, non è dunque espressione di situazioni culturali contingenti, ma è comportamento-spia di un vero cambiamento antropologico in atto nella nostra società: l'indifferenza produce abbandono proprio perché implica la crescente insignificanza dei giovani in questa società, protesa a garantire la qualità della vita degli «esistenti» e degli «aventi potere», contro i rischi o le minacce di altri pretendenti-alla-vita.
    All'origine vi è, già nelle famiglie, una premessa generale che prelude a varie forme di abbandono; ed è la carenza di quegli atteggiamenti di positiva scelta del figlio da parte dei genitori che a me pare uno dei fondamenti di ogni predisposizione autenticamente educativa.
    tutta da dimostrare la tesi secondo cui il ridotto numero di nascite è ampiamente compensato da una precisa «scelta» del figlio; motivazioni «altre» sembrano ancora incidere sulla regolazione della natalità, lasciando intravedere componenti e interessi spesso egocentrici.
    E dunque l'abbandono futuro è reso possibile dall'attuale «non scelta».
    Ma più specificamente si mettono in evidenza forme di abuso, abbandono, violenza sui nuovi nati.
    È stato notato che la gran parte degli abusi nascono da un rapporto diverso tra adulti e bambini; il figlio è oggetto di un calcolo (anche economico, ma più spesso psicologico) che sta a monte delle motivazioni reali che inducono a «programmarlo» (calcolando ad esempio il tempo in cui averlo, predeterminando il sesso, ecc.).
    Così il figlio assume spesso il valore di un investimento, è oggetto di considerazioni strumentali, è considerato un oggetto posseduto; in altre parole è sempre, in qualche modo, nel rischio di mercificazione nelle mani del padre-padrone o della madre-padrona. Se da un lato la sua nascita è programmata, dall'altro essa è temuta, proprio per l'eccesso di attese di cui essa è gravata; le preoccupazioni per il figlio sono cariche di ansia, proprio perché spesso le attese possono essere frustrate o deluse.
    Il senso del «possesso» giustifica spesso le azioni e gli atteggiamenti che configurano una vasta gamma di abusi che vanno dalla violenza all'abbandono.

    Una fenomenologia dell'abbandono

    La violenza fisica è di solito il segno più evidente della non accettazione che prelude all'abbandono o che mette le premesse per la fuga da parte del figlio. Le cronache ricorrenti degli ultimi anni hanno documentato abbondantemente la casistica raccapricciante della violenza fisica di ogni genere sui bambini e sugli adolescenti.
    Solo in Italia si parla di 15.000 casi di maltrattamenti gravi all'anno, ma le stime degli esperti fanno salire la cifra a quantità ben più alte (fino a 1020 volte di più).
    La «sindrome del bambino picchiato» si verifica dunque con frequenza molto rilevante anche nel paese in cui il bambino sembrava oggetto di cure e attenzioni speciali.
    Non meno rilevanti sono i casi di abuso e di sfruttamento sessuale, che in Italia sono stimati nella misura di 15-20.000 all'anno; di cui il 45% è rappresentato da rapporti incestuosi che nella maggior parte dei casi restano sconosciuti alle pubbliche autorità. È comprensibile il danno psichico e morale che queste esperienze infliggono all'adolescente, impedendo la progressiva e serena educazione sessuale di cui ha bisogno la persona in età evolutiva.
    Ma il capitolo forse più consistente dell'abbandono è dato dalla trascuratezza fisica e affettiva.
    La fenomenologia su questo punto è piuttosto articolata: carenze di alimentazione appropriata, mancanza di cure per lo sviluppo fisico, trascuratezza delle malattie infantili, assenza di profonda comunicazione tra adulti (genitori) e figli, precoce affidamento (con relativa delega educativa) a istituzioni preposte alla socializzazione ma generalmente incapaci di stabilire rapporti che non siano cristallizzati in un ruolo, eccessiva esposizione a strumenti di socializzazione impersonali (massmedia, TV) precarietà e saltuarietà dei rapporti con i genitori (vedi il caso dei bambini con la chiave al collo), pressioni esercitate per una assimilazione precoce dei ruoli adulti (cioè liquidazione dell'infanzia, cui corrisponde spesso l'infantilizzazione dell'adulto).
    Questi e altri aspetti problematici si trovano oggi molto spesso concentrati nelle famiglie, relativamente numerose, che sperimentano la vicenda della separazione e del divorzio, non raramente percepite e vissute dai figli in modo gravemente traumatico.
    Infine, non sono rari i casi di abuso psicologico, anche in famiglie normotipo, che sono sintomo evidente di abbandono incipiente: mi riferisco ad esempio ai ricatti emotivi/affettivi, alle forme di permissivismo indiscriminato che configurano effettivamente il quadro dell'abbandono educativo, all'autoritarismo che sbocca nella negazione dell'identità e dell'autonomia, il mantenimento in una situazione di forzata dipendenza, i tentativi di plagio, il non riconoscimento continuato delle capacità e delle risorse presenti nel bambino.

    Gli effetti nell'adolescenza

    È appena il caso di sottolineare il collegamento che esiste tra l'abbandono effettivo, anche precoce, che si verifica nell'infanzia, e il sentimento di abbandono che si viene radicando da quell'età in poi, producendo una serie di effetti che si manifestano soprattutto nell'adolescenza e nella giovinezza, e che sono di grande rilievo per il discorso educativo.
    Alcuni sono effetti negativi per gli stessi giovani; accenno solo al problema del suicidio che nel breve periodo è in aumento in molti paesi industrializzati; al fenomeno della morte precoce di adolescenti (spesso per incuria e per mancanza di attenzione educativa); alle diverse forme di fuga e di reazione che sono spesso comportamenti di pura compensazione all'abbandono (mi limito a ricordare l'alcool, la droga, il vagabondaggio).
    Altri sono effetti che si riversano anche sulla società in modo preoccupante: in questa fattispecie vanno elencati soprattutto i comportamenti violenti o che implicano l'uso strumentale della violenza, che sembrano in aumento tra i minori soprattutto nei settori della violenza contro le persone e contro il patrimonio.
    Il collegamento con la sindrome di abbandono va ricercato in questo caso, come in quello della droga e dell'alcool, nel significato prevalentemente simbolico che il comportamento vuol esprimere; infatti vi è in esso un'implicita richiesta di comunicazione, un bisogno di autovalorizzazione che l'abbandono ha vistosamente negato, un ingenuo e rozzo (ma drammatico) richiamo di attenzione sui problemi giovanili che non possono essere liquidati frettolosamente con condanne e stigmatizzazioni generiche.
    Ed infine, tra gli effetti meno vistosi dell'abbandono, vanno elencati i capillari e profondi sentimenti che accompagnano questo vissuto: le sensazioni del «non essere amato» e quindi del «non saper amare», la crisi di autostima, le incertezze nello stabilire rapporti con gli altri, la paura del confronto e il rifiuto del rischio, propri di chi ha sperimentato carenze di «accompagnamento educativo».
    In una parola, l'abbandono si presenta oggi con caratteri forse meno drammatici e meno espliciti; il rifiuto clamoroso, l'infanticidio, l'aggressione premeditata sono ancora presenti nella nostra società, ma l'abbandono prende sempre più i connotati di una sottile manipolazione che passa attraverso l'indifferenza, la caduta dell'impegno educativo, l'assenza di comunicazione.

    TRA INERZIA E MEDIOCRITÀ

    Se il «disagio» giovanile chiama in causa le contraddizioni e le strozzature che caratterizzano il modello di sviluppo del sistema sociale, altri aspetti odierni della questione giovanile sembrano mettere sotto accusa i giovani stessi, l'inadeguatezza della loro stessa risposta adattiva o alternativa ai problemi che li riguardano.
    Sarebbe fuori posto, in questo contesto, una generica colpevolizzazione dei giovani che non tenga conto delle radici obiettive della loro eventuale inadeguatezza; e, d'altra parte, vanno ormai respinte come pericolosamente irresponsabili tutte le forme di complicità e di vezzeggiamento che tentano di legittimare tutto ciò che è espressione giovanile senza criterio e discernimento. Giustamente è stato osservato che i giovani stessi non hanno paura della verità che li riguarda, e che preferiscono la «critica impietosa dei profeti» alla menzogna ambigua degli adulti insicuri.
    Già nelle pagine precedenti non si è omesso di sottolineare certe ambivalenze insite in alcuni meccanismi di difesa e di adattamento adottati dai giovani di fronte alla complessità sociale; come pure certi rischi connessi ad una interpretazione unilateralmente pragmatica della propria condizione esistenziale.
    Sono ambivalenze e rischi non estranei neppure al mondo adulto, ma che in un giovane si è portati, forse per inconscia deformazione professionale, a considerare quanto meno controproducenti.
    Senza timore di scadere in un «j'accuse» indiscriminato, credo siano da segnalare comportamenti che risultano certamente disfunzionali al superamento delle diverse forme di «disagio» e di «estraniazione» di cui soffrono i giovani.
    Sono modelli che non sono generalmente condivisi dalla maggioranza e che trovano spesso una smentita clamorosa in modelli diametralmente opposti, che dimostrano la possibilità concreta (anche se difficile) di comportamenti alternativi. Realmente vi sono alcuni modi di pensare, valutare ed agire che denotano l'accettazione fatalistica delle condizioni di marginalità, frammentazione, perdita di identità, ecc. e che tendono a considerare queste condizioni come alibi che giustifica la mediocrità. Il consumismo sfacciato dei figli di papà, la rinuncia consapevole alla progettualità, una certa allergia nei riguardi di ciò che è arduo e impegnativo, l'inerzia che accompagna la lunga stagione della dipendenza: queste ed altre sono le modalità di un vissuto che è effetto e causa del disagio giovanile.
    Chi ha definito questa generazione come «generazione dell'abbastanza» ha forse creato null'altro che uno slogan riduttivo; ha però centrato con esattezza l'aspetto problematico di una generazione che, pur avendo ricevuto più di ogni altra le risposte essenziali ai bisogni primari, è tentata di adagiarsi sui risultati ottenuti, mortificando il gusto di scoprire e soddisfare nuovi bisogni e valori.
    Vi è inoltre una curiosa tendenza alla spettacolarizzazione della vita, che si nutre talora di ciò che è effimero e superficiale, che premia l'apparenza e il successo gratuito, che gioca con il linguaggio senza significato. Indubbiamente ciò è perfettamente consono ad una certa tendenza generale alla spettacolarizzazione che ha investito diversi settori della vita sociale, dalla politica alla religione, dallo sport alla cultura, e trova rigoroso impulso nel contenuto prevalente dei networks radiofonici e televisivi.
    Un altro risvolto problematico è forse rappresentato dalla progressiva banalizzazione del linguaggio; non siamo più ai «cioè» e ai «non so» post-sessantotteschi, ma si verifica largamente un imbarbarimento delle espressioni orali e scritte. La volgarità e l'equivoco hanno preso il posto all'ironia e dell'invettiva che in altra epoca nobilitavano per certi aspetti il graffito politico o lo slogan dei cortei; il nuovo linguaggio giovanile sembra oscillare tra disinvolto nominalismo e greve pragmatismo.
    Infine va forse segnalata una crisi morale più profonda di quanto non appaia dai comportamenti visibili. La delegittimazione in atto di molti modelli di comportamento, fino ad ora sostenuti da un generale consenso sociale, ha spinto molti (giovani e non) a forme diverse di autolegittimazione che spesso non corrispondono affatto allo sforzo di inventare una morale autonoma alternativa, ma scadono inevitabilmente nella giustificazione di comodo della scelta contingente. Al di là di questa radicale relativizzazione non resta che il gregarismo opportunista, il cinismo, l'invidualismo. Spesso non si nota la ricerca faticosa di nuovi equilibri (vedi l'equivoco annaspare che ha seguito la liberalizzazione dei comportamenti sessuali), ma solo una progressiva deriva verso la sterilità morale.
    Questo discorso critico sui giovani non è nuovo al discorso sociologico; e risente necessariamente delle scelte valoriali, delle identità e delle appartenenze dei singoli osservatori sociali. Se ne trova un'eco, anche recentemente, in certe rammaricate constatazioni circa l'allontanamento dei giovani dalla politica o dalla religione, il presunto «riflusso» privatistico, o la negazione edonistico-narcisistica, la scelta della violenza terrorista, la «fuga» nella droga, ecc.
    È un discorso che rischia di diventare moralistico e paternalistico se pretende di proiettare sui soli giovani le contraddizioni che sono di tutti, e che in ogni caso non è giusto se applicato indiscriminatamente; ma può anche essere ripreso entro una più articolata e realistica valutazione dei modelli di comportamento giovanili che anticipano in positivo una migliore qualità del la vita e già realizzano forme creative e scuri che prende senso il complesso innovative. È anche da questi chiaro «puzzle» giovanile.

    LA DROGA: UN NUOVO SCENARIO

    Sulla droga esiste una letteratura sconfinata, a cui si rinvia per approfondimenti specifici.
    Qui si vuole solo sottolineare qualche aspetto del nuovo scenario droga che interessa un numero rilevante di giovani.
    La novità in questo campo non è rappresentata dal fatto che sono cambiate le sostanze in circolazione (da una prevalente presenza di eroina alla cocaina e al «crak»); ciò può essere segno di qualche più profonda mutazione di atteggiamenti verso la sostanza, ma è soprattutto il risultato di una diversa politica degli spacciatori.
    Il fatto più rilevante va forse ricercato nel cambiamento del significato che la droga assume nel comportamento del tossicodipendente.
    Agli inizi degli anni '70 la diffusione della droga tra i giovani aveva assunto la funzione di significare il bisogno di rottura con la cultura prevalente, presentandosi come simbolo dei valori alternativi post-materialistici e in genere non-acquisitivi. La droga voleva dimostrare che si poteva vivere anche lontano dall'etica dell'efficientismo, del successo e della performance, rifiutando il lavoro e le correlative limitazioni della vita individuale e collettiva, tipiche della società borghese.
    I tossicodipendenti affermavano in questo contesto la loro contrapposizione nei riguardi del mondo adulto, ma forse non ancora la separatezza.
    A metà degli anni '70 la diffusione delle droghe pesanti provoca una chiusura rigida del mondo dei tossicodipendenti nei riguardi del contesto esterno; la droga diventa simbolo di una separatezza che implica il rifiuto radicale di ogni contatto con il mondo adulto. È la posizione di una generazione fortemente delusa dal mondo degli adulti e ormai prossima alla constatazione della caduta delle utopie ideologiche. È questo il periodo della grande angoscia dei tossicodipendenti, rinchiusi nella sub-cultura o contro-cultura deviante senza sbocchi.
    All'inizio degli anni '80 la droga comincia a perdere i suoi connotati ideologici di veicolo espressivo della contrapposizione valoriale rispetto al mondo adulto, per scadere progressivamente nel consumismo generico e privo di ideali. A questo momento scatta l'attenzione del mondo politico verso il fenomeno, con scarsi risultati e scarse prospettive.
    A metà degli anni '80 nasce una nuova ipotesi: la droga entra nello scenario della vita quotidiana come comportamento controllabile e compatibile, cioè come meccanismo di fuga o di compensazione utilizzabile senza troppi danni (o almeno così si crede) da un numero crescente di adepti. L'atteggiamento verso la droga cambia; si cerca di dominarla per renderla funzionale alle esigenze della società complessa che crea nuove frustrazioni. Il mondo degli adulti non è più rifiutato ma ricercato come interlocutore utile e complice nel processo di risignificazione della droga.
    L'itinerario descritto sembra indicare che il fenomeno tende a presentarsi ormai spogliato del carattere della devianza; cadono i confini tra normalità ed emarginazione, anche perché il rischio di diventare tossicodipendente diventa universale, come universale è il disagio giovanile.
    Al di là delle affermate evidenze statistiche, il fenomeno è destinato a crescere, anche se può diventare progressivamente più latente e meno eclatante; ciononostante non vengono meno le preoccupazioni circa la sua pericolosità sociale e individuale. Proprio per questi motivi, cioè in forza di una ipotetica (ma non troppo) normalizzazione del fenomeno, la droga può diventare un laboratorio eccezionalmente importante per approfondire le tematiche della vita «normale» dei giovani, cioè la dinamica dei bisogni, delle attese, dei valori, delle domande emergenti dalla condizione giovanile.
    Altri problemi, quali la prevenzione e la riabilitazione, non vengono qui approfonditi, anche se rivestono particolare importanza nel quadro delle politiche per la gioventù (un cenno, tuttavia, viene fatto più avanti).

    LA DELINQUENZA MINORILE IN DECLINO?

    Vi sono indizi che fanno pensare che la delinquenza minorile sia venuta stabilizzandosi a partire dalla metà degli anni '70, raggiungendo addirittura livelli da considerarsi tra i più bassi nella storia giudiziaria del paese.
    Mediamente vengono giudicati ogni anno circa 130.000 giovani tra i 10 e i 29 anni; di essi circa 1/5 sono minorenni. I minorenni che passano in un anno nei carceri minorili sono circa 6700-6800, e quelli che vi scontano qualche pena sono circa 600.
    È statisticamente vero che è diminuito il numero delle denunce e delle detenzioni, ma ciò è dovuto ad una serie di fattori concomitanti che concorrono a mascherare la consistenza reale del fenomeno.
    Va tenuta presente la crisi di legittimazione della giustizia minorile (e delle istituzioni rieducative) che ha portato ad una maggiore indulgenza dell'apparato giudiziario; va aggiunto il prolungamento dell'adolescenza che ha contribuito a spostare verso l'alto l'età della crisi adolescenziale-giovanile; l'attenzione delle forze dell'ordine è stata inoltre assorbita soprattutto dai fenomeni della droga e del terrorismo; infine non va trascurato il fatto che si è avuta una certa ripresa della capacità di controllo sui giovani da parte di alcune agenzie di socializzazione (famiglia e scuola).
    L'insieme di questi fattori può giustificare l'impressione che il fenomeno non si è ridimensionato, ma è stato solo mascherato da fatti contingenti.
    La realtà è che accanto alle vecchie forme di delinquenza minorile (reati contro il patrimonio soprattutto) si sono venute aggiungendo nuove modalità di devianza, quali la prostituzione (soprattutto maschile), la violenza sessuale (nelle versioni etero e omosessuale), la criminalità organizzata (con periodiche ondate di reclutamento di manovalanza criminale tra i giovani da parte del crimine «eccellente»: mafia, camorra, 'ndrangheta), la violenza nello sport, il vandalismo.
    Talune di queste forme devianti sono associate alla tossicodipendenza, che diventa pertanto una copertura di altri comportamenti non meno inquietanti.
    Queste considerazioni sottolineano la persistente presenza della delinquenza tra i giovani; diminuiti i minorenni, sono aumentati i detenuti e gli ex-detenuti che pur maggiorenni sono da considerarsi ancora giovani; la delinquenza giovanile «pesca» tra i giovani colpiti dalle nuove povertà prodotte dalla complessificazione della società e dalle trasformazioni postindustriali; le forme della prevenzione tradizionale (scuola, servizi sul territorio, ecc.) si rivelano insufficienti ad anticipare il comportamento delinquenziale, che mette radici sempre più profonde nel disagio generalizzato dei giovani.

    TRA DEVIANZA E TRASGRESSIONE

    Un fenomeno degno di attenzione è infine quelle delle aggregazioni giovanili che si collocano tra devianza e trasgressione tollerata.
    Nei decenni trascorsi si è avuta una ricca fenomenologia di questi gruppi, talora importati dalla cultura o dalle sub-culture dell'area anglosassone.
    Blousons noirs, teddyboys, capelloni, hippies, provos, hooligans, rockabillies, punks, mods, metallari ed altri ancora, hanno sollecitato la fantasia degli osservatori e suscitato le apprensioni di non pochi educatori e politici.
    Benché non si possano includere tutti nelle stesse categorie interpretative, queste forme di aggregazione giovanile hanno qualche tratto in comune che li avvicina all'area della devianza e che in qualche modo è espressione del disagio giovanile.
    È tra questi giovani che si celebrano alcuni dei riti e si alimentano alcuni tra i miti più tipici della condizione giovanile; è tra di loro che si sviluppano certi linguaggi che, sebbene non condivisi dalla generalità dei giovani, ne esprimono almeno in parte il bisogno di diversificazione, di innovazione e di contrapposizione nei riguardi del mondo adulto.
    Si tratta di un fenomeno che affonda le sue radici nelle classi popolari di cui questi giovani sentono vivamente la marginalità presente o imminente; di qui il bisogno fondamentale di affermare la propria identità minacciata, sottolineandola nei modi più spettacolari (specialmente attraverso il vestito e l'acconciatura).
    Vi è dunque in questi gruppi una forte spinta di tipo narcisistico a cui non si accompagna un adeguato contenuto ideologico.
    È questo forse anche uno dei motivi per cui queste aggregazioni raramente assumono il carattere della banda; manca loro sia la strutturazione interna rigida, la programmazione di obiettivi concreti e utilitari, la violenza o la determinazione che permette di affermarsi contro altri gruppi o contro le forze dell'ordine.
    Sono gruppi composti prevalentemente da adolescenti maturi (1618 anni) ed hanno generalmente una vita alquanto labile.
    Anche se sono manifestazioni piuttosto elitarie, esse rappresentano una modalità tipica di reazione dei giovani al disagio; la contestazione del sistema è alquanto velleitaria, limitandosi ad affermare la propria diversità contro l'altrui «regolarità», ma senza intenzione di cambiare l'esistente; di conseguenza il bisogno di darsi un'identità si manifesta in negativo, più come attesa che gli altri definiscono la propria posizione che come attiva ricerca di valori e di atteggiamenti; le espressioni di diversità risentono molto dello stile veicolato dai mass media, che divulgano il vangelo del look spettacolare.
    In definitiva, anche se non si pub parlare di puro folklore giovanile, il fenomeno dei gruppi trasgressivi rivela più la fragilità di certe frange dell'attuale condizione giovanile che non la presenza di germi contro-culturali capaci di imprimere una nuova direzione al processo di mutamento sociale; i gruppi trasgressivi infatti si collocano a buon diritto entro l'orizzonte di una società che fa dello spettacolo uno dei canoni essenziali della sua fondamentale scelta consumista, radicalmente negata alle rivoluzioni ideologiche.
    Questi i motivi per cui l'opinione pubblica e il mondo giovanile stesso ha guardato a questi fenomeni con distacco e con ironia, ben distinguendo tra queste manifestazioni sub-culturali sostanzialmente innocue e le forme minacciose di banda giovanile, frequenti in passato, ma piuttosto rare nel periodo recente.

    NOTA BIBLIOGRAFICA

    ANDREOLI V., Droga, scuola e prevenzione, Milano, Masson, 1986.
    BALLONI A., PELLICCIARI G., SACCHETTI L., Devianza e giustizia minorile, Milano, Angeli, 1979.
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    MARSICANO S., a cura di, Comunicazione e disagio sociale, Milano, Angeli, 1987.
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