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    C'è uno spazio oggi per i giovani?



    Mauro Laeng

    (NPG 1988-1/2-35)


    Rammento che quando ero appena studente, negli anni '30-'40, era di moda il detto «largo ai giovani!».
    Questo poteva significare due cose: che ai giovani non era stato fatto spazio abbastanza, e bisognava reclamarlo; oppure che i vecchi erano fuori gioco, e bisognava cambiare stile. Devo aggiungere che a questi detti veniva dato un senso particolare dal regime allora dominante.
    Molti anni dopo, quando non ero più studente ma professore all'università, risentii accenti poco diversi, gridati nelle piazze. Si voleva la «immaginazione al potere», l'autogestione scolastica, il contropotere studentesco.
    Anche quella stagione è passata, e circa un'altra generazione (la terza nella mia memoria) riaffaccia oggi le stesse istanze. Se non fossero persone diverse a chiederlo, saremmo tentati di dire che lo spettacolo è sempre lo stesso, che la moviola gira la stessa pellicola.
    A ben vedere, però, le cose non sono mai perfettamente identiche. Il giovanilismo nero o rosso avevano motivazioni in parte divergenti: che cosa abbiamo oggi? Forse un giovanilismo «grigio», o almeno «verde»?

    SPAZIO NELLA FAMIGLIA? SPAZIO NELLA CHIESA?

    La tentazione di chiamarlo grigio viene dalla constatazione diffusa (soprattutto di matrice sociologica) di una caduta di ideali, di un ripiegamento sull'utile e sul piacevole, di una ricerca di riscontri immediati come il posto sicuro, il ragazzo o la ragazza del cuore.
    Ma le venature di verde si fanno sempre più fitte, con il rilancio di ideali nuovi di pace, comprensione, non violenza, diritti civili, difesa delle minoranze. Fra la monotonia del quotidiano e le fughe in avanti delle utopie, i giovani avvertono ormai una dicotomia dolorosa, e si interrogano per sapere se ciò abbia senso; non basta «tirare a campare» e neppure «sognare»; si fa forte l'esigenza di «costruire».
    Non è possibile dare facili risposte. Bisogna vedere dove è aperto loro uno spazio in cui essere attivi protagonisti. Io vorrei considerare nell'ampio ventaglio degli spazi possibili, due istituzioni - quasi due ambienti paradigmatici - dove è possibile ritrovare - o restituire - spazio ai giovani: la famiglia e la chiesa.
    Siamo certo di fronte a due istituzioni, che hanno una struttura millenaria.
    Come può il giovane che vive la sua età nell'arco di un paio di decenni confrontarsi con siffatti giganti? Pare assodato che per lui c'è comunque già uno spazio ben preciso, definito, protetto. Il figlio sarà un bravo scolaro, poi uno studente, un apprendista o un lavoratore, fino a che potrà farsi a sua volta una famiglia. Il piccolo fedele sarà un catecumeno, poi un attivo cooperatore, un membro consapevole del laicato o un aspirante al sacerdozio.
    Il sistema ha funzionato tanto a lungo, che ci si stupisce che oggi manifesti qualche incaglio e difficoltà. Milioni di giovani nel mondo crescono in famiglia e trovano alimento spirituale nella chiesa senza gravi problemi: per essi la saggezza di molte generazioni è rimasta più o meno intatta. Ma altri milioni non hanno più una famiglia nel senso tradizionale, o trovano la chiesa non corrispondente alle loro aspettative.
    È vano chiedersi se per questi ultimi ci sia un posto nella famiglia: bisognerebbe prima di tutto che ci fosse «una» famiglia. Ed è vano chiedersi se ci sia posto in «una» chiesa che essi rifiutano. Per loro c'è semmai la riflessione di chi, avendo perduto certe sicurezze e certi valori, si interroga se valesse la pena di buttarli al vento, visto che sull'altra sponda c'è solo un arido deserto.
    Se non ci sono gravi problemi per le pecore che sono «nell'ovile», e non ci sono soluzioni immediate per coloro che ne sono «fuori», restano ben presenti invece i problemi di coloro che sono a mezza strada: i genitori incerti, i ragazzi disorientati.

    LE BASI DA CUI RIPARTIRE

    È di somma importanza per costoro convincersi che per «costruire» davvero un migliore domani, è importante partire da basi solide. Non conviene gettare la sapienza delle moltitudini attraverso i secoli che hanno creato i focolari e gli altari, la coesione attorno agli impegni della reciproca fedeltà e della reciproca carità. Piuttosto, bisogna recuperarne il significato dal di dentro.
    Si dice che l'abitudine è la tomba dell'amore: sia in senso profano, sia in senso sacro. Ritrovare ogni giorno il senso di quello che facciamo come se fosse la prima volta, vuol dire allora che è sempre mattino, che la vita ricomincia sempre nuova.
    In altre parole, il posto per i giovani nella famiglia e nella chiesa è quello che le istituzioni stesse amorevolmente provvedono per la propria continuità: ma non è quella «nicchia» prestabilita e ben custodita che qualcuno vorrebbe pensare. È un punto di divaricazione e di crescita, come lo è un ramo nuovo che si spinge fuori dal tronco antico: ha in sé tutte le linfe che trae dal vecchio fusto, ma tessuti verdi che si organizzano e maturano per proprio conto. Il modo migliore di essere giovani non è quello di beffeggiare il passato; e certo neppure quello di imitare pedissequamente i vecchi, ma di osservarli e rispettarli, per fare poi da sé, tenendo conto delle precedenti conquiste e dei precedenti errori.
    Un giudizio tagliente, un desiderio di assoluto, pongono spesso il giovane in polemica con le generazioni precedenti, le cui infedeltà ed errori sono sotto gli occhi di tutti.
    Ma ricominciare da zero è impossibile. E più tardi quelle critiche implacabili si attenueranno o si spegneranno quando l'aspra lima dell'esperienza avrà lasciato il segno anche sui non più giovani della generazione seguente, esposta al giudizio di nuovissimi nati.
    Altrettanto importante è l'atteggiamento dei più anziani: che devono rendersi conto di essere transitori, e destinati alla sostituzione entro breve tempo.
    C'è dunque spazio per i giovani? Direi che o c'è spazio per loro, per le loro ansie e impazienze ma anche per la loro generosità, o c'è il fatale declino. La famiglia è per natura votata al rinnovamento: esiste per questo. Ma la chiesa non è da meno: sarebbe illusione dire che essa è costruita sulla roccia di un deposito che non muta, se si dimenticasse che questa è solo una metafora. La continuità della chiesa è tutta affidata alla fede dei credenti, che si avvicendano nel corso della età. Molto meglio della roccia che può infine sbriciolarsi è una successione infinita di generazioni viventi, che durano oltre la vicenda breve, che si tramandano la speranza e l'attesa.
    La gioventù perenne è la garanzia che anche la parte militante quaggiù della chiesa non ha concluso la storia, non ha terminato la propria battaglia, non ha finito la propria missione.


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