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    Noi moderni possiamo parlare di Dio?



    Antonio Martinelli

    (NPG 1987-05-5)


    Vogliamo innanzitutto costatare i termini teoretici in cui si viene a trovare oggi il problema dell'annuncio di Dio.
    È necessario riferirsi alla situazione della cultura teologica corrente. La lettura e l'interpretazione sono indispensabili agli operatori pastorali e ai credenti, anche se non mancano reali difficoltà di comprensione dei dati. Gli interventi che aiuteranno a risolvere i molti e svariati problemi dipenderanno dall'adeguata e previa conoscenza.
    Le sfide che emergono dalle situazioni saranno raccolte attorno a tre nuclei fondamentali.
    I contesti che interpellano oggi in forma più diretta la teologia, le esigenze improrogabili del contenuto da annunciare, e le ambiguità ideologiche che sottostanno ad alcuni orientamenti di pensiero, disegnano l'orizzonte in cui si è mossa la ricerca e dentro cui si è chiamati a trovare strade di soluzione.

    I CONTESTI CHE INTERPELLANO PER UN ANNUNCIO EFFICACE

    Molti sono gli interrogativi che, come credenti, dobbiamo affrontare nel momento in cui ci decidiamo per l'annuncio del Dio di Gesù Cristo.
    Possiamo da uomini e da credenti parlare di Dio ad altri uomini? Parlare di Dio nei contesti diversi della loro vita?
    Questo comporta chiedersi come parlare di Dio, perché sia realmente un discorso su Dio; e come parlare all'uomo, perché sia un discorso comprensibile dall'uomo.
    Si richiede, in concreto, di ricercare e di formulare un discorso che sia appropriato e sensato. «Appropriato» riporta ad un linguaggio teologico, nel senso etimologico della parola. «Sensato» riporta all'interdipendenza che si stabilisce tra esigenza teologica ed esigenze vitali.

    Noi moderni possiamo parlare di Dio?

    Il problema del linguaggio si pone: e non si tratta di vocabolario, ma di linguaggio. Non sono in causa delle parole al posto di altre, ma la possibilità di parlare e di parlare di Dio.
    La sfida si fa sempre più insistente innanzitutto per il contesto di modernità che stiamo vivendo.
    È possibile un discorso appropriato e sensato nell'oggi della modernità?
    Mi soffermo su una rapida descrizione della modernità, perché ha un peso determinante nel dire Dio oggi.
    Liberato il mondo da infantilismi e superstizioni, è superfluo, inutile e negativo quanto ci riporta ad un precedente stadio, bisognosi di aiuti esterni e al di sopra dell'uomo e delle sue capacità.
    A livello strutturale viene fatta coincidere con lo stadio adulto del mondo.
    A livello culturale, la modernità è intesa come preparazione di un futuro nel totale compimento delle attese.
    Gli strumenti propri della scienza, l'ideologia e l'uso delle macchine, che hanno esteso nel tempo e nello spazio la presenza operativa dell'uomo, offrono la garanzia nel compimento dei progetti. L'uomo si sente costruttore di esperienze e di vita, si erige a criterio e norma di comportamento, si sente sospettoso di fronte a tutto quello che riduce il suo dominio, costruisce i suoi nuovi idoli, sottomettendosi, alcune volte da schiavo, agli stessi strumenti che utilizza.
    Come parlare di Dio?
    È vero che per superare il vuoto, la paura, il nulla e la morte il post-moderno ricerca il senso, l'amore e la bellezza.
    Sono o saranno queste le nuove strade per l'annuncio del Dio di Gesù Cristo? Quale linguaggio sarà efficace? Come incontrarlo?

    L'oppressione dell'uomo e l'annuncio di Dio

    Il sistema di dipendenza e di oppressione che vige in tanta parte della società, quella schierata al nord e quella posta al sud, quella che vive all'est e quella che cresce all'ovest, costruisce una società di conservazione e di chiusura di fronte a tutto ciò che potrebbe essere veramente nuovo e rigeneratore; debilita le persone rendendole rassegnate e ripiegate unicamente sul presente. Ogni prospettiva di futuro viene cancellata dalla coscienza.
    Non va dimenticato che, accanto alle macroscopiche oppressioni, pullulano quelle innumerevoli giornaliere legate all'egoismo, alla logica del profitto comunque, all'ingiustizia spicciola e domestica perpetrata ai danni del piccolo, del povero, della vedova e del peccatore.
    Come si pone in questo contesto il discorso cristiano su Dio? Ha senso la parola della Croce e della Risurrezione per la liberazione dell'uomo oppresso? Di fronte ad una non-persona, frutto dell'oppressione, come parlare di Dio, del Dio liberatore?

    Il dolore esistenziale cancella Dio dalla storia?

    Il dilemma si pone nei seguenti termini: se c'è un Dio giusto, perché il male? E se c'è il male, come potrà esserci un Dio giusto?
    L'universalità dell'esperienza del dolore, questa categoria universale che tutti accoglie, ha posto, attraverso i secoli, la mente dell'uomo alla ricerca affannosa di una soluzione, nella consapevolezza che la risposta non interessa solo la storia dell'equilibrio interno dell'uomo, ma anche il suo rapporto con Dio.
    Alcuni sostengono l'inconciliabilità tra Dio e il male che dilaga nel mondo, e sopprimono perciò il primo dei due termini. «Gli occhi che hanno visto Auschwitz e Hiroshima non potranno più contemplare Dio», grida Hemingway.
    Altri invece scelgono la strada della rassegnazione. Non si può cambiare l'ingiustizia del mondo, né quella che si cela nelle carni dell'uomo e si esprime attraverso il dolore, la sofferenza e la morte. La sfida che sale dalla storia del singolo e dell'umanità intera ha una sola risposta: il silenzio, l'abbassare il capo, dichiararsi impotenti.
    Altri infine cercano una svolta ad Oriente. È la fuga verso un misticismo che rinunzia alla responsabilità primaria di affrontare la vita nella sua durezza dandole un senso compiuto, qui dove si è posti a vivere e a crescere.
    Quale sarà la pretesa cristiana di rispondere a questa sfida e di saper annunciare il Dio di Gesù Cristo e il Signore Crocifisso? È proprio vero che di fronte al grido di dolore e alla tragicità del nulla che mina la vita, la parola del vangelo, l'annuncio del Crocifisso risorto contiene un lieto annuncio per l'uomo d'oggi?

    La speranza non resterà per sempre delusa?

    Un ultimo elemento dovrà essere considerato nel contesto del difficile linguaggio della fede cristiana: il problema dell'avvenire dell'uomo.
    Il futuro si pone come la pietra di pargone degli umanesimi. La sostanza della vita, la verità che la esprime nella forma più significativa, la «qualità dell'essere» è il futuro, l'apertura all'avvenire, la capacità contestativa del presente.
    Gli atteggiamenti possibili che l'uomo va assumendo di fronte al futuro sono molti e diversificati tra loro.
    La noia del disperato, anzitutto.
    La disperazione è l'atteggiamento di coloro che negano il futuro, perché lo identificano con il male presente. A guardare nel futuro non si scorge nulla di nuovo e nulla di interessante. La storia non riserba altre emozioni che la tragicità della sofferenza. Perché affannarsi? Per costruire che cosa? Altro non resta che la noia del presente e del nulla di nuovo.
    L'idolatria del presuntuoso. Se la disperazione è il rifiuto del futuro, la presunzione è il rifiuto del presente. Alla base si ritrova una falsa valutazione di se stessi e delle proprie capacità. Il futuro è già il presente che contiene tutto il bene che deve venire. Niente può arrestare la facile marcia del compimento del bene: non la sofferenza, non la finitudine, non le immancabili resistenze costitutive di ogni cammino.
    Un'espressione dell'idolatria del presente si annida talvolta nella vantata onnipotenza del progetto.
    Si giudica tutto risolto, solo perché si è elaborato un chiaro e preciso itinerario. Il futuro vicino, organizzato, offusca facilmente la visione del futuro lontano, assoluto.
    A fronte di questi problemi che cosa pretende l'annuncio del Dio cristiano? La parola della speranza cristiana come si inserisce e che cosa apporta di significativo nella storia dell'uomo? La morte che è la sentinella del futuro lontano e assoluto, che si presenta come la non- utopia dell'essere e della vita, quale posto occupa nell'annuncio del Dio di Gesù Cristo? Venerdì santo e Pasqua di risurrezione come influenzano il futuro dell'uomo? Hanno i credenti di fronte ai segni molteplici della disperazione o della presunzione che circolano nella cultura contemporanea un annuncio appropriato e sensato?
    La sfida da accogliere è grande. L'impegno da assumere è grave. L'attesa dell'annuncio è impellente.
    Il cristianesimo, diceva già Ignazio di Antiochia, non è una questione di parole persuasive ma di grandezza, quella raccolta nel mistero di Cristo.
    L'annuncio di Gesù Cristo nel mondo moderno spesso si presenta come una lingua straniera. Ciò che manca al nostro bilinguismo è la possibilità di fare assegnamento su una traduzione completa e fedele.

    ESIGENZE DI CONTENUTO NELL'ANNUNCIO DEL DIO VIVENTE

    La seconda sfida considera il rapporto tra il linguaggio e la realtà. Se la verità non è solo, secondo l'antica formula scolastica, l'adeguamento dell'intelletto alla realtà presente (adaequatio intellectus et rei), ma l'inveramento nella realtà futura, nell'avvenire definitivo di ogni realtà, la prospettiva da cui ci si pone nel presente problema è interrogarsi sulla lègittimità del dire Dio oggi e sulle radici della sua legittimazione.

    Quando è legittimo annunciare Dio

    Dire legittimo il discorso su Dio comporta, in termini di contenuto, la capacità di parlare nella concretezza e di mordere nella storia e nella vita.
    «La dissociazione tra fede e vita è gravemente rischiosa per il cristiano, soprattutto in certi momenti dell'età evolutiva, o di fronte a certi impegni concreti.
    Si pensi ai momenti forti della preadolescenza e dell'adolescenza; al momento in cui i giovani maturano il loro amore, o entrano nel mondo del lavoro; alle preoccupazioni della vita familiare; agli impegni degli operai e dei professionisti sul piano della giustizia sociale; alle tensioni spirituali che caratterizzano oggi la pubblica opinione e il comportamento morale» (CEI, Il rinnovamento della catechèsi, nn. 53.54).
    Per parlare di Dio bisogna avere l'autorità di farlo. Non si parla di autorità giuridica, ma dell'autorevolezza che si acquista attraverso una duplice competenza.
    Competenza, anzitutto, sulla vita del giovane e dell'uomo, perché non basta esplorare il libro biblico, quello scritto e tramandato dalla tradizione ecclesiale, ma è necessario esplorare il libro della vita. Se non si vuole che le parole restino vuote e insignificanti è necessario fare continuamente riferimento alle realtà di ogni giorno, contro cui ci imbattiamo, e che formano la sostanza del vivere. O la vita si apre come contenuto dell'annuncio o l'annuncio stesso scade in retorica.
    Ciò significa che una comprensione dell'uomo condiziona l'annuncio, e viceversa. Si costata un caratteristico intreccio tra un'antropologia e il messaggio cristiano; un mutuo rapporto ineliminabile tra gli orizzonti di comprensione e la cosa che viene annunciata.
    Competenza, poi, su alcuni nodi tipici dell'attuale riflessione teologica. Mi riferisco a due aspetti in particolare.
    Innanzitutto il rapporto tra la Trinità immanente e la Trinità funzionale, cioè l'in-sé della Trinità e il per-noi della medesima. Questi termini suonano molto lontani dalla vita concreta, ma le conseguenze che derivano dalla scelta di una impostazione teorica sono numerose e significative nella vita quotidiana.
    Il rapporto, quindi, tra il discorso teologico e il discorso cristologico. Quanto l'incarnazione del Verbo condizioni il discorso su Dio! È in gioco, in altri termini, la comprensione di Dio secondo l'annuncio che ne dà il Figlio incarnato.
    Si afferma da tutte le parti un dato che è nella realtà: il pluralismo, sia in campo teologico come in campo filosofico e ancor più in quello delle scienze.
    Si afferma il dato e l'esigenza del pluralismo teorico e pratico.
    Da qui il bisogno di trovare e di costruirsi un proprio punto di sintesi, per dare vigore all'annuncio di Dio.

    La radice della legittimazione

    È il problema del rapporto tra messaggio ed esperienza. Può sembrare il solito problema metodologico: in realtà diventa, nel contesto dell'annuncio, un problema di contenuto.
    Cerco di delimitare i contorni della questione, perché appaia in modo più chiaro dove si colloca.
    Un primo elemento va considerato: l'invisibilità di Dio. Il continuo rinvio al Dio invisibile complica l'annuncio della sua presenza e azione nel mondo. A lungo andare, diventa un fatto non sopportabile avere un referente che sfugge dà tutte le parti. Parlare solo per principi ed orientamenti generali, fondamentali, intramontabili non soddisfa la ricerca di chi si appassiona con tutta la propria esistenza.
    Di Dio non abbiamo alcuna esperienza, così come l'abbiamo di un amico che incontriamo per strada, di una cosa che ci si para davanti, del caffè che sorbiamo all'inizio della giornata.
    Oggi però sperimentiamo la necessità di esperienze che precedano i messaggi; che anzi le stesse esperienze formino la sostanza più sicura e più convincente dei contenuti di salvezza, dei messaggi biblici.
    L'uomo si sperimenta come persona e come soggetto. E dentro questo porsi di fronte a se stesso ricerca il senso di quanto gli viene annunciato.
    Riconoscendosi soggetto stabilisce un rapporto con la realtà: un rapporto di conoscenza e un rapporto di amore.
    Se non si attinge il tutto del suo vivere, non accontentandosi solo di un particolare aspetto del suo esistere materiale, l'annuncio di Dio rimane formale e passeggero.
    Perciò l'invisibilità di Dio cerca la concretezza racchiusa in una esperienza.
    Altrimenti, ed è il secondo elemento di considerazione, capita un pericoloso corto circuito nell'annuncio e nel dire Dio oggi, ai giovani particolarmente.
    Il corto circuito di un passaggio, rapido e ingiustificato, dalla parola di Dio, assunta come il messaggio per eccellenza, all'annuncio puro e semplice, diremmo in termini ecclesiastici, il passaggio alla predica, senza la preoccupazione di cogliere e studiare tutta la problematica etica che sottostà al messaggio e precede l'annuncio.
    Ancora una volta, sarà l'esperienza della vita che aiuterà a collocarsi nella parola di Dio e a collocarla correttamente nei processi di maturazione di un credente.
    Un terzo elemento, infine, va preso in considerazione: il gap esistente tra il mondo che i credenti si sono costruiti con le loro categorie e lo spazio materiale del mondo reale. Si sono sentiti ieri e si sentono oggi come dislocati in un altro mondo. Lo spazio, culturale e spirituale, occupato dalla chiesa non coincide con quello occupato dal mondo.
    Ciò che non è traducibile nella mia giornata e nella mia vita non ha nulla da dirmi. La mia realtà, il tempo che mi è stato assegnato, il luogo che mi è stato destinato, è la verifica effettiva della realtà storica di Dio.

    L'incarnazione definitiva accettazione del mondo e della storia

    Abbiamo vissuto, e ne portiamo ancora le conseguenze, uno scuotimento della fede negli anni passati.
    Il processo di mondanizzazione ha sconvolto un'esperienza del sacro.
    La concezione secondo la quale Dio era immediatamente riconoscibile a partire dal mondo è saltata.
    Si è così esaurita l'esperienza di Dio nel mondo d'oggi?
    L'incarnazione è la suprema e definitiva accettazione del mondo e della storia da parte di Dio.
    Così ogni discorso su Dio è necessariamente mondano: non è una incresciosa necessità da cui liberarsi quanto prima o accettare a malincuore; è parte del patrimonio tradizionale.
    Il discorso su Dio si rivolge al mondo, ha come destinatario l'uomo e la sua storia. Questo spiega perché tanta parte della parola di Dio scritta si è vestita, come dice un teologo contemporaneo, di «dialetto di Canaan», cioè di concretezza, di materialità di espressione, di corposità di immagine, di sano positivismo: è l'esigenza dell'ascoltatore che impone una condotta di realismo.
    «Le parole di Dio, espresse in lingue umane, si sono fatte simili al parlare dell'uomo, come già il Verbo dell'eterno Padre, avendo assunto le debolezze della umana natura, si fece simile all'uomo» (DV 13).
    Non bisogna dimenticare che ogni parola rivelatrice della vita e del disegno di Dio è nello stesso tempo parola che rivela il mondo e l'uomo a se stesso. Non si può parlare di Dio, del mondo e dell'uomo in modo separato e considerando ciascuna realtà per se stessa. Sono invece comprensibili all'intelligenza della fede solo in un unico atto, in un'unica realtà complessa.
    Si è affermato, opportunamente, che la rivelazione è teologia dell'uomo e antropologia di Dio: il collegamento è troppo intimo perché possa venire sciolto.
    Il concilio scrive nella Dei Verbum: «Con questa rivelazione infatti Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi, per invitarli e ammetterli alla comunione con sé. Questa economia della Rivelazione comprende eventi e parole intimamente connessi, in modo che le opere, compiute da Dio nella storia della salvezza, manifestano e rafforzano la dottrina e le realtà significate dalle parole, mentre le parole proclamano le opere e illustrano il mistero in esse contenuto. La profonda verità, poi, che questa rivelazione manifesta su Dio e sulla salvezza degli uomini, risplende per noi in Cristo, il quale è insieme il mediatore e la pienezza di tutta intera la Rivelazione» (n. 2).
    La citazione comprova la natura della rivelazione: è l'autocomunicazione di Dio, non la semplice sua manifestazione concettuale. In altre parole la rivelazione ha a che fare con l'uomo da salvare e non semplicemente con la sua intelligenza da arricchire. La salvezza c'è ed è da noi percepita come mistero di salvezza, perciò come realtà correlata alla nostra storia.
    Come esprimerla?
    Accanto all'ordine razionale della concettualità, l'uomo conosce ed utilizza altre forme, anch'esse legate alla sua esperienza, ugualmente capaci di fondare la sua conoscenza.
    L'incarnazione, accettando il mondo e la storia dell'uomo, introduce un linguaggio su Dio non puramente razionale.
    Così si articolano i linguaggi diversi della similitudine, dell'analogia, della metafora, della reciprocità e del simbolo.
    Per parlare di Dio bisognerà riferirsi alla realtà come ad un suo simbolo.
    La presenza di Dio nella storia e nel mondo è attinta da noi attraverso il simbolo, perché la realtà è simbolica. Stare con le cose è stare con Dio. Quali possibilità ho di rappresentarmi Dio? L'unica è quella che passa attraverso la realtà che vivo ogni giorno. Le cose si portano dentro qualcosa di più grande rispetto a ciò che immediatamente appare. Esaminando, perciò, la realtà posso cogliere ciò che immediatamente si attinge, oppure la realtà può farmi trasparire altro, di cui non posso avere alcuna rappresentazione, se non attraverso ciò che vivo, che sto incontrando. La realtà è in definitiva simbolo di Dio.
    Il mio rapportarmi a Dio è il mio rapportarmi alle cose e alle persone; il mio rappresentarmi Dio è sempre attraverso ciò che sperimento.

    LE AMBIGUITÀ DELLA SECOLARIZZAZIONE E DEL SECOLARISMO

    Il discorso sul Dio vivente, sul creatore del mondo, rischia di diventare oggi una parola vuota anche in bocca ai cristiani.
    «Parola vuota» in contesto significa ateismo pratico. Quando ci costruisce degli idoli l'uomo è ancora un adoratore, anche se idolatra. Quando invece non si riesce ad adorare più niente, quando tutti gli idoli sono stati abbattuti, si è giunti allo stadio di indifferenza assoluta. Non si combatte contro Dio, non si protesta di fronte a lui, non ci si interessa al suo problema come a nessun altro problema: si conduce una vita piatta e insignificante. Non vale la spesa di essere vissuta, se non per quel tanto di immediato e di spontaneo che offre, senza impegni personali e senza progetti sulla qualità della vita.
    Quale annuncio è possibile? quali valori possono essere prospettati? come dire Dio?

    La fortuna di una categoria

    Mi interessa portare la riflessione un po' più attenta sulla coppia di termini secolarizzazione/secolarismo.
    Due osservazioni mi paiono indispensabili per riuscire a collocare esattamente il problema del «dire Dio oggi».
    La prima richiama le radici e la storia dei termini, la ricca mappa semantica che denota la complessa memoria della evoluzione.
    «Per quanto paradossale possa sembrare, la fortuna della categoria secolari77a7ione è legata proprio alle molteplici e inconfessate ambiguità ideologiche di fondo, che le hanno consentito di proporre, con estrema semplicità, spiegazioni anche opposte, ma sempre lineari e universali, d'un complesso disparatissimo di fenomeni. Non a caso l'effetto più vistoso dell'irruzione della secolarizzazione sul mercato ideologico contemporaneo è stato la recessione di altre categorie, più collaudate e scientifiche, quali l'umanesimo, il laicismo e l'ateismo, soppiantate proprio dalla sua maggiore elasticità nell'esprimere quei tre fenomeni e qualcos'altro. Perciò Comblin, non meno di Luckmann, parla di una mitizzazione di questa categoria, e quest'ultimo la definisce come un'abbreviazione intellettuale, con tutti i rischi che una simile operazione comporta» (P. Vanzan).
    La seconda osservazione intende delimitare il campo di analisi, scegliendo un solo aspetto del complesso gioco linguistico che ha accompagnato il termine: quello della teologia e della teologia della secolarizzazione.
    Questa, concretizzandosi in modalità e gradualità differenti, è la più grande aggressione globale odierna contro il cristianesimo concepito nella sua forma tradizionale, ma insieme potrebbe favorire il costituirsi di una vita spirituale cristiana illuminata nella sua espressione evangelica e pneumatica.
    I teologi della secolarizzazione percorrono un itinerario a tre tappe, per un'adeguata comprensione della medesima.
    La prima: una rilettura biblica del processo di secolarizzazione nel suo insieme.
    Non significa una progressiva emarginazione di Dio dal mondo, né una fatale secolarizzazione della fede ad opera del mondo, bensì una provvidenziale purificazione del dato rivelato delle sovrastrutture religiose e l'autentica mondanizzazione del mondo proprio a opera della fede.
    La seconda: una risignificazione del cristianesimo purificato al suo interno.
    In concreto, si tratta di liberare il cristianesimo sia da una malintesa escatologizzazione, la così detta fuga dal mondo; sia da un'altrettanto malintesa incarnazione, fino agli eccessi del secolarismo, recepiti anche dalla teologia radicale o della «morte di Dio».
    La terza: recupero del cristianesimo al suo esterno, come forza di novità e di liberazione.
    L'irruzione di Jahvé nella storia umana, attraverso l'esodo e l'alleanza, da una parte spinge il mondo verso la statura adulta del regno; e dall'altra corregge le spinte demolitrici presenti nei progetti dell'uomo che imprigionano nel senso penultimo il cammino incontro al definitivo: è questo il senso del peccato.

    Dalla secolarizzazione al secolarismo

    A prima vista si è tentati di credere che dire Dio oggi in questo contesto di secolarizzazione sia più facile. Ma nel concreto non è così, o almeno non è sempre così. Perché non è facile verificare la condizione necessaria di coniugare l'immediatezza di Dio (incarnazione), cioè la sua opera di salvezza in ogni momento della storia, con l'irrinunciabile suo di- svelamento futuro (escatologia), cioè il suo essere sempre più avanti, al di là delle singole realizzazioni storiche.
    Gli ambiti dei due termini sono assolutamente diversi e distanti. Ma un gioco linguistico, spostando l'accento dalla considerazione teologica a quella più specificamente filosofico-culturale, avvicina e omologa le realtà sottese.
    Il manifesto della emancipazione del pensiero in genere e della scuola in particolare dalla tutela clerico-religiosa, emanato a metà del secolo scorso, su base positivista e a carattere antiteista, ha offerto una giustificazione riflessa al vasto movimento di secolarismo. La fiducia illimitata nella scienza e nella tecnica e il presupposto illuminista, a lungo mitizzato, del progresso senza ritorno, hanno insegnato non solo a prescindere da Dio e dalla religione, ma anche a pensare e a vivere concretamente senza la sua presenza e il suo riconoscimento.
    Se pur oggi molti miti legati allo scientismo e all'illuminismo sono caduti, è rimasta tuttavia la pratica della vita staccata da Dio e dalla religione.
    Segno di secolarismo, criterio e norma di vita, atteggiamento interiore e comportamento pratico è, almeno per alcuni teologi degli anni sessanta, l'angoscia che minaccia l'essere.
    Come annunciare Dio all'uomo chiuso nell'orizzonte terreno e temporale, e senza alcuna apertura d'invocazione, se non proprio di adorazione, all'altro e all'assoluto?
    Siamo di fronte alla sfida del nuovo ateismo, assunto con molta naturalezza dall'uomo contemporaneo, e perciò più difficile da evangelizzare.


    T e r z a
    p a g i n A


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