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    Katmandu non c'è piú


     

    (NPG 1987-10-30)



    Nel Sessantotto tutte le strade della Terra, per i giovani che praticavano l'autostop e che si chiamavano hippies, non portavano a Roma, ma a Katmandu. In sandali, con lo zaino e una stuoia, spesso con un po' d'erba e talora con una o due pasticche psichedeliche per un qualche viaggetto nel proprio io «a comando», se ne stavano in attesa agli incroci delle strade, numerosi e incredibilmente pazienti.
    Avevano tempo, proprio perché andavano verso il sole, in quell'oriente ideale dove il tempo, posto a perenne confronto con l'eternità e con l'estasi, ha ben poca importanza. Interrogati durante la concessione di un «passaggio» dichiaravano di essere gli esuli volontari di una civiltà dedita interamente alla conquista e all'accumulo dei beni materiali, di un mondo irrimediabilmente contronatura. Perché questo è il nesso segreto, ma potente, che ha dato forza ai movimenti ambientalisti: la coniugazione tra orientalismo ed ecologismo, la fondazione, magari un po' esoterica, mai confessata chiaramente e per lo piú solo «vissuta», di un pantheon a cui Budda e Barry Commoner potessero coabitare felicemente.

    Sulla traccia dell'Oriente

    Non è ancora stata descritta in maniera sistematica, anche se spesso citata, questa convergenza e collaborazione ideologica tra l'ecologia, ovviamente come movimento e non come scienza - e poi, chissà! - e il ripensamento sull'oriente, la rivisitazione della filosofia ve-dica o la meditazione sul Tibet. Non è infrequente incontrare ancora oggi tra i Verdi, cosí ormai intensamente politicizzati, dei cultori dello Yoga o dei tardivi ammiratori di Siddharta (che resta il romanzo piú popolare di Hermann Hesse).
    D'altra parte, fin dalle origini romantiche di questa opzione per l'India, cominciata alla fine del Settecento con la scoperta del sanscrito, con la prima traduzione della Bhagavad-gita in inglese, ad opera di Charles Wilkins, con il successo del dramma indiano Sakuntala, l'oriente non si configura solo come una patria antica dello spirito, ma come un Eden dove è possibile per l'uomo riconciliarsi con la Natura.
    Se ne vuole una prova? Bernardin de Saint-Pierre è stato il fortunato autore di un romanzo destinato a restare emblematico, Paolo e Virginia, in cui si celebra la necessità di un ritorno alle origini, della fuga - Jean-Jacques Rousseau insegna - dalla civiltà. Ebbene, questa opera, edita nel 1784, l'anno della traduzione della Bhagavad-gita, era stata stampata, con il titolo collettivo Etudes de la Nature, insieme a una raccolta, La capanna indiana, in cui si narra della saggezza di un guru di Benares, non un bramino, ma un paria, che è depositarlo, nella povertà, della piú alta filosofia del vivere, imparata, guarda caso, dalla Natura. Perché, come afferma il profeta in perizoma, «gli uomini fanno dei libri, ma la Natura fa delle cose».
    Fin dalle piú remote origini, nella coscienza dell'occidente il mito di Katmandu e quello della Natura maestra di vita, e per gli ecologisti del nostro secolo da salvaguardare e da salvare, nascono insieme, sono le due facce di una stessa medaglia di buona lega. Mi ritrovo, cosí, nel Sessantotto, nei ristoranti di macrobiotica o nelle palestre di Yoga, sostituiti oggi dai negozi con self-service di prodotti cosiddetti «biologici» e dai club di aerobica.
    Quando gli hippies insorgevano contro i limiti perniciosi della logica, che era anche una logica dei profitti, non ne erano coscienti, ma portavano alle estreme conseguenze il pensiero di Schopenhauer che nessun mito, se non quello del Nirvana, in cui cessano i mali del mondo, la nascita, la vecchiezza, la malattia e la morte, si è avvicinato alla verità; e condividevano l'entusiasmo di Wihelm von Humboldt, che ringraziava Dio d'averlo lasciato vivere tanto da riuscire a leggere i poemi indù, riscoperti e tradotti.

    Tra ecologia e turismo

    Tutto questo l'ho pensato dopo che l'altro giorno, durante una peregrinazione di fine estate, ho dato, vinto dalla solitudine, un passaggio in automobile a una coppietta di autostoppisti francesi. Mi sono reso conto ben presto di quanto tempo fosse passato da «allora», anche se gli zaini e le stuoie, e perfino i capelli lunghi, sembravano gli stessi. I due ragazzini erano diretti a Milano, e non avevano in tasca i romanzi di Hesse o le poesie di Allen Ginsberg, ma una guida del Touring; e benché la ragazza studiasse, come appresi, teologia, addirittura comparata, non viaggiava per misticismo, ma per turismo. Non aspirava ai santuari d'oriente, ma vagheggiava una visita guidata a Sant'Ambrogio o alla Madonnina. Erano sí, degli ecologisti, ma cauti; ben decisi nel rifiuto del nucleare, ma coscienti che, per andare avanti, ci vuole pure dell'energia.
    Incuriosito, li ho scaricati a Varese, e ho caricato una seconda coppia, piú irsuta e disperata, di olandesi. La conversazione non è risultata differente, e ho avuto la certezza che stiamo vivendo un'epoca di secolarizzazione dell'autostop, e che per i giovani d'oggi l'India è ormai solo un paese dove si mangia poco e si esporta il grano per fabbricare la bomba atomica. Cessato ogni rifiuto della logica, i miei giovani compagni di viaggio sembravano aver riacquistato la fede non nella ragione, ma nella ragionevolezza. Insomma, nel buon senso. Ho pensato, con un oscuro disagio, che, forse, eravamo «invecchiati insieme».
    (Giorgio Colli, Repubblica, 8 settembre 1987)

    (NPG 1987-10-30)


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