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    I «contenuti» dell'iniziazione cristiana: quale assenso oggi



    Luis A .Gallo

    (NPG 1987-08-17)


    Iniziare al cristianesimo non consiste, come si è già più volte ribadito, in imbottire di informazioni concettuali o nozionistiche la mente degli «iniziandi». Non è un processo di indottrinamento, svolto all'insegna dell'istruzione.

    INIZIARE ALLA FEDE É CONSEGNARE DEI «CONTENUTI»?

    A dire il vero c'è stato un tempo, non molto lontano, in cui le cose sono andate tendenzialmente nell'ambito pastorale in quella direzione. Precisamente perché la fede, alla quale si voleva iniziare, era concepita in un modo accentuatamente e alle volte perfino prevalentemente veritativo. Credere era anzitutto e soprattutto aderire fermamente con l'intelligenza, sostenuta certo dalla volontà e coadiuvata dalla grazia, a delle verità di ordine superiore, rivelate a questo scopo da Dio stesso.

    La crescente preoccupazione per la dimensione veritativa

    Conosciamo le vicende che portarono a tale concezione.
    Credo sia utile ricordarle, perché possano offrire utili spunti alle nostre ricerche attuali.
    Già alcuni scritti piuttosto tardivi del N.Testamento - soprattutto le Lettere pastorali a Timoteo e a Tito - avevano manifestato una certa preoccupazione circa il «deposito della fede» (cf I Tim 6,20) da custodire in vista dei primi rischi di deviazioni ereticali. Ma fu soprattutto l'influsso della sensibilità culturale ellenica, ampiamente diffusa nell'ambito del bacino mediterraneo dove il cristianesimo presto si espanse, a trascinare sempre più la fede in quella direzione. Si sa quanto tale sensibilità fosse preoccupata della conoscenza della «verità», concepita come svelamento dell'essere delle cose all'intelligenza dell'uomo. Una sensibilità, si potrebbe dire, dominata soprattutto dalla «curiosità», e protesa alla visione chiara del reale. È altrettanto risaputo quanto questo tipo di approccio alla realtà abbia influito attraverso i secoli sul cristianesimo pensato e vissuto. Anche, precisamente, sul modo di concepire e vivere la fede stessa in quanto dinamismo umano.
    Un passo decisivo al riguardo lo costituì la prima sistematizzazione teologica della natura dell'atto di fede, fatta da Tommaso d'Aquino. Tale sistematizzazione venne realizzata, infatti, avvalendosi dello statuto della conoscenza-per-testimonianza mutuato da Aristotele. Si fini, così per inquadrare formalmente il credere nell'ambito noetico. L'influsso esercitato dall'Aquinate sulla teologia e quindi anche sulla pastorale dei secoli successivi, è troppo conosciuto perché ci sia bisogno di ricordarlo.
    Più vicino a noi nel tempo, un altro avvenimento ecclesiale di rilevante importanza contribuì ad affermare questa linea di tendenza. Lutero, reagendo contro la piega eccessivamente intellettualizzante che si era andata imponendo in questo ambito, le contrappose la sua «fides fiducialis», che trovava molto più consona con i dati biblici, oltreché molto più rispondente ai suoi bisogni spirituali. Per lui il credere apparteneva più all'ambito esistenziale che a quello noetico. Avere fede era anzitutto e soprattutto accogliere fiduciosamente il perdono misericordioso di Dio in Cristo. La contro- reazione del Concilio di Trento non si fece attendere. Arrivò con l'anatema che era, a quell'epoca, normale attendere (cf DS 1652). La teologia e la prassi pastorale dei secoli seguenti ne seguirono i passi, ossequiosamente.
    Si può così facilmente capire perché, quando nel secolo scorso il concilio Vaticano I volle affrontare il tema allora scottante del rapporto tra fede e ragione, contrapponendosi alle dilaganti correnti razionaliste, definì la fede formalmente come una «accettazione di verità» rivelate da Dio (cf DS 3008).
    Non è da stupirsi se nel periodo che segui, la teologia, la pastorale e la vita della Chiesa hanno accentuato l'aspetto veritativo del credere, e l'iniziazione cristiana sia stata impostata secondo tale accentuazione.
    Oggi, soprattutto dopo il Vaticano II e per influsso dei diversi rinnovamenti in corso, ognuno di noi sa che iniziare al cristianesimo è qualcosa di molto più globale ed esistenziale, che ha a che vedere con una decisione riguardante l'intera persona e tutte le dimensioni del suo essere. La ragione sta nel fatto che il credere stesso viene pensato oggi in un modo molto più ricco e complesso. Un modo che, come lo si può facilmente costatare, corrisponde anche più chiaramente a quanto dicono su di esso gli stessi testi biblici, tanto dell'Antico quanto del Nuovo Testamento.
    La Costituzione Dei Verbum se ne faceva eco soprattutto nel suo n. 5 nel quale, riprendendo la linea del Vaticano I, con poche battute faceva slittare l'intera impostazione verso una prospettiva eminentemente personalista.

    L'iniziazione alla fede implica anche una proposta di «contenuti»

    Ciò ricordato, si deve però subito aggiungere che l'iniziazione cristiana comporta anche un assenso a determinati «contenuti».
    E questo perché la fede cristiana non è una adesione cieca e generica, a un qualcosa di vago e indeterminato, ma è sostanzialmente accoglienza di una Persona concreta, Gesù Cristo, e di una sua concreta proposta di senso. È vero che, come è stato rilevato dai teologi in questi ultimi decenni, credere non è anzitutto credere «qualcosa» ma credere «in Qualcuno»; ciò però non toglie che, come fanno notare quegli stessi teologi, questo credere in Qualcuno implichi anche accogliere la sua Parola. «Io credo in te, e perciò io credo pure ciò che tu mi dici» (H.Fries), potrebbe essere la formula che sintetizza il tutto.
    È per questo che fin dall'antichità l'iniziazione cristiana includeva una «traditio» e una «redditio».
    La comunità consegnava, a chi si era deciso a credere in Gesù Cristo, i contenuti che essa riteneva essere Parola dello stesso Cristo. E chi li riceveva doveva dar prova di capirli e di accoglierli adeguatamente.
    Il «simbolo» del Credo e la preghiera del Padre nostro non erano che l'espressione privilegiata di questo doppio movimento.
    Nei confronti di questa «struttura» di iniziazione potremmo dire che le cose non sono cambiate sostanzialmente. Chi vuole oggi diventare veramente discepolo di Gesù Cristo, deve per coerenza accogliere anche la sua proposta. È il modo di esprimere la fiducia riposta in Lui. Non si può quindi neanche oggi essere iniziati alla fede cristiana senza aderire a dei «contenuti».
    Ma al riguardo si pongono attualmente dei problemi che, date le diverse circostanze socio-storico-culturali, non si ponevano in altri tempi. O per lo meno non nel modo e con l'intensità con cui oggi si pongono. Alcuni sorgono dalla parte dei contenuti stessi e, quindi, interessano più direttamente gli «inizianti» (comunità ecclesiale e singoli agenti pastorali), ossia la «traditio»; altri sorgono dalla parte dell'assenso da dare loro e, perciò stesso, interessano più direttamente gli «iniziandi» (in concreto, i giovani di cui si occupa la pastorale giovanile), ossia la «redditio».

    PROBLEMATICHE CIRCA LA «TRADITIO» DEI CONTENUTI

    Nell'ambito della consegna dei contenuti credo siano due principalmente i grappoli di problemi da affrontare: quelli che si riferiscono alla loro qualità e quelli che riguardano il modo della loro «traditio».

    La qualità dei contenuti che si propongono

    Anzitutto, la qualità. Chiarisco il senso di questo temine, nel contesto in cui lo prendo, con altri tre che lo specificano: integralità, organicità, sistematicità.
    Ognuno di essi esprime un aspetto particolare di una problematica globale, e sono tra di essi strettamente vincolati, come vedremo.

    Integralità
    Cominciamo con il primo, l'integralità. Nella impostazione veritativa sopra accennata si faceva forte leva su di essa: chi credeva in Gesù Cristo doveva aderire a tutto il blocco di contenuti proposti dalla comunità ecclesiale che ne ha raccolto il messaggio, senza tralasciarne nessuno, sotto pena di non accoglienza da parte della comunità stessa o, nel caso di già avvenuta accoglienza, di esclusione. L'eresia - formale o materiale che sia - consisteva, come lo indica l'etimologia del termine, nel limitare la propria adesione ad alcuni contenuti della fede tralasciandone altri. L'anatema costituiva il modo ufficiale di escludere coloro che non stavano alla «regola della fede».
    Ora, la tendenza attuale della società verso il pluralismo e la conseguente fragmentarietà delle scelte, specialmente tra i giovani, fanno entrare certamente in crisi questa impostazione. Si può richiedere dai giovani iniziandi l'accettazione integrale dei contenuti della fede?
    Mi pare che la risposta a questa prima domanda sia condizionata da quella che verrà data alla seguente. Perciò, preferisco riferirmi subito ad essa.

    Organicità
    Una delle conseguenze certamente negative del primato del veritativo nell'ambito della fede, è stata il livellamento dei suoi contenuti. Siccome si trattava di «verità rivelate da Dio», venivano tutte in quanto tali considerate della stessa importanza e di uguale dignità dal punto di vista dell'adesione di fede. Una certa linea catechistica - quella che trova per esempio nel Catechismo di Pio X la sua espressione emblematica - contribuì ancora di più a creare questa coscienza appianatrice tra i cristiani. Aderire al dogma trinitario e a quello della infallibilità pontificia era ugualmente importante da questo punto di vista, e credere nella risurrezione di Cristo e nell'esistenza del Purgatorio aveva la stessa urgenza di ordine alla salvezza eterna.
    Diversi fattori hanno per fortuna portato a superare una tale impostazione. È in questo contesto che parlo di «organicità» dei contenuti della fede. Nel documento Unitatis Redintegratio del Vaticano II entrò, quale principio-guida nell'ambito dei rapporti ecumenici, un criterio che aveva progressivamente guadagnato spazio nella teologia degli ultimi decenni, quello della «gerarchia delle verità» (cf n. 11). Criterio che fu poi ripreso da Paolo VI nella sua Esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi nel contesto della evangelizzazione. Secondo tale criterio, all'interno della fede non tutto ha esattamente la stessa importanza e lo stesso valore; anzi, esiste in essa un nucleo centrale, una «sostanza viva», e ci sono anche «elementi secondari» (cf EN 25).
    È importante che questo criterio sia tenuto presente nella iniziazione attuale dei giovani alla fede. I contenuti vanno loro proposti «organicamente», cominciando cioè da ciò che è centrale tra essi e facendo rilevare anche la sua centralità e la differenza che c'è tra sostanziale e secondario. Così avveniva d'altronde nelle prime comunità cristiane, a stare a quanto ci viene riferito dagli scritti che ci sono stati tramandati. Vi scopriamo che al centro dell'annuncio c'era la risurrezione di Cri sto, quale realizzazione in Lui e per l'umanità intera della proposta sul Regno di Dio, quale pienezza di vita per gli uomini, fatta da Gesù di Nazareth nei giorni della sua vicenda storica (cf per es. Atti). Tutto il resto si organizzava attorno a detto centro, a modo di cerchi concentrici che si collocavano a maggior o minor distanza da esso. Basterebbe analizzare, per esempio, il discorso di Pietro nel cosidetto Concilio di Gerusalemme (cf Atti 15, 7b-11) per averne una chiara conferma.

    Sistematicità
    Resta ancora da considerare il terzo aspetto problematico sulla qualità dei contenuti, quello della sistematicità. È innegabile che nell'impostazione veritativa essa era notevolmente presente. Le verità di fede erano strutturate in un insieme logico, nel quale ognuna occupava con trasparente chiarezza il proprio posto e conservava il suo adeguato rapporto con le altre. Una delle funzioni della teologia, come lo ricordava il Vaticano I (cf DS 3016), era appunto quella di far vedere la logica connessione dei diversi misteri tra di loro. Uno sguardo ai diversi catechismi elaborati in quel contesto lo conferma ampiamente. Gli «iniziati» nella «dottrina cristiana» uscivano dal processo di iniziazione - sarebbe più realista dire di «istruzione» - con uno schema molto chiaro in testa. A volte elementare certamente, ma molto logico e saldo in se stesso.
    Non è difficile costatare che la sensibilità odierna, soprattutto giovanile, non ha molta simpatia per la sistematicità. Probabilmente perché è più esistenziale che essenzialista, e l'esistenza rifugge ogni rigida sistematizzazione. Infatti, negli ultimi decenni si è diffuso, nell'ambito dell'iniziazione catechistica, soprattutto sacramentale, un andamento prevalentemente «situazionale», che ha preferito abbordare il processo di consegna e approfondimento dei contenuti della fede a partire dalle problematiche esistenziali dei giovani stessi. Le obiezioni sollevate contro tale tipo di approccio sono arrivate come si sa ai più alti livelli di conduzione ecclesiale, provocando un notevole movimento di ritorno al veritativo, come lo dimostra anche il progetto di elaborare un «catechismo universale». Semplice nostalgia di un passato ritenuto glorioso? In certe sue espressioni credo non si possa negare. Soprattutto da parte di coloro che sono preoccupati di un'affermazione «forte» dell'identità cristiana e, per di più, di un'identità pensata come contrapposizione ad altre credenze.
    Ma ritengo ci sia un'anima di verità in questa alle volte smodata pretesa, quella del bisogno di creare negli iniziandi una certa sistematicità nella comprensione dei contenuti della fede. E credo che debba andare sostanzialmente accolta, appunto per il valore umano che significa. Ma quale sistematicità coltivare? La risposta va cercata, a mio giudizio, in quanto abbiamo visto sopra sull'organicità concreta della fede cristiana. Non si tratta, quindi, di una sistematicità imposta dal di fuori alla fede, come più di una volta accadde in passato, ma di una sistematicità che la fede si porta dentro da se stessa. Essa è data precisamente dalla distinzione tra contenuto centrale e contenuti secondari, e dal modo nel quale questi si rapportano a quello. Aiutare i giovani a cogliere la centralità della risurrezione di Cristo come realizzazione di vita degli uomini, e il rapporto, più o meno stretto, che gli altri contenuti della fede hanno con essa, è veramente aiutarli a crearsi un «sistema» di contenuti adeguato alla natura della fede stessa.
    Ciò si può coniugare perfettamente, d'altronde, con una metodologia ermeneutica che prenda l'avvio dalle problematiche più sentite dai giovani nella loro esperienza personale, interpersonale e sociale. Certamente tale coniugazione costituisce un'arte. Ma chi si assume la responsabilità dell'iniziazione cristiana non può esimersi dall'essere artista in questo senso.

    Il modo di proporre i contenuti della fede

    Finora mi sono riferito alla problematica riguardante ciò che ho chiamato la «qualità» dei contenuti della fede da proporre. Ora affronterò quella riguardante il «modo» di porgerli. Sono consapevole che questa distinzione è alquanto artificiale. Infatti, la qualità, che implica in concreto la integralità, l'organicità e la sistematicità della loro proposta, interessa già in qualche misura il modo di porgerli. Ma ciò che ora voglio affrontare si colloca più sul versante dell'attenzione che deve avere chi propone i contenuti nei confronti della condizione dei giovani.

    I destinatari e le loro domande

    La problematica attorno a questo aspetto si esprime globalmente, da qualche tempo in qua, con la categoria «inculturazione». La costatazione fatta da Paolo VI nell'Evangelii Nuntiandi una diecina di anni fa (cf n. 20c), continua ad essere in gran parte vera ancora oggi: purtroppo non si può negare che ci sia ancora attualmente una drammatica rottura tra Vangelo (proposto) e cultura. I contenuti della fede sono non rare volte proposti ai giovani in un linguaggio che non è il loro. E dicendo «linguaggio», come chiariva la stessa Esortazione apostolica, non intendiamo riferirci solo al linguaggio semantico e letterario, quanto anche e soprattutto a quello antropologico e culturale (cf n. 63b). È vero, l'esperienza ci dice che, più di una volta, pur proponendo la fede con quella «qualità» di cui abbiamo parlato prima, la si enuncia in una lunghezza d'onda che non è quella dei giovani d'oggi. Un caso concreto lo costituiscono certe celebrazioni liturgiche, nelle quali tanto i gesti simbolici quanto le espressioni verbali sono lontani dalla sensibilità culturale attuale. Ma lo stesso capita per altri tipi di attività ecclesiali nei quali si ha a che fare con i contenuti della fede: catechesi, incontri di preghiera, di riflessione, ecc.
    In questo contesto si affaccia subito una difficoltà, di non poto rilievo. È quella che comporta l'approccio alla Bibbia, con la quale i giovani devono necessariamente mettersi a contatto sia nelle celebrazioni sia in altri momenti della loro iniziazione. Certo, l'approccio biblico non può mancare, dal momento che nella Bibbia troviamo la prima e fondamentale proposta dei contenuti della fede; ma esso deve venir accompagnato da un'adeguata ricomprensione del testo scritturistico che lo liberi da ogni forma di fondamentalismo. Siccome su questo si è parlato spesso, non mi soffermo ulteriormente. Ci sarebbe però da chiedersi se un certo tipo di «biblismo ad oltranza» non corra il rischio di ostacolare l'iniziazione anziché favorirla.

    Il linguaggio ecclesiale

    Ma, oltre alla Bibbia e in dipendenza da essa, c'è tutto il resto del linguaggio ecclesiale: gli articoli del Credo, i dogmi della Chiesa, gli insegnamenti ordinari del Magistero, ecc. È stato mediante queste diverse formulazioni che la fede in Gesù Cristo e nel suo Vangelo è stata tramandata attraverso i secoli. Essi si sono andati accumulando lungo la storia e costituiscono quel «deposito della fede» che la Chiesa intende custodire e consegnare - almeno in certa misura - a chiunque entra in essa. Come trattarli all'interno del processo di iniziazione di cui stiamo parlando?
    C'è chi pensa che, siccome l'iniziazione consiste nell'introdurre dei nuovi membri in una comunità già esistente, tali membri devono venir sollecitati a far proprio questo deposito nel linguaggio in cui esso si esprime. È una comunità di iniziati, si ragiona, e come tale ha un suo linguaggio proprio che essi devono capire e parlare. Ciò è in parte vero. L'iniziando non inventa di sana pianta la comunità alla quale entra, né il messaggio che si esprime attraverso il suo linguaggio. Essi lo precedono appunto perché appartengono a una comunità che si costituisce attorno alla proposta fatta da Gesù Cristo. C'è quindi una lunga catena di «staffette» che riallacciano le persone che oggi accolgono la fede con il Cristo, una lunga catena attraverso la quale arriva ad essi il messaggio originale.
    Ciò però è solo una parte della verità. L'altra parte è data dal fatto che questi anelli della catena sono costituiti da esseri umani contrassegnati da un carattere di storicità. E storicità significa che essi si evolvono nel tempo, cambiando il loro modo di percepire, di sentire, di vivere ed di esprimere la realtà in cui sono immersi. Ecco il «linguaggio antropologico e culturale» di cui parlava la Evangelii Nuntiandi. I dogmi della Chiesa, per esempio, rispecchiano nitidamente tale condizione. Se si confronta l'immagine di Cristo proposta dai grandi concili ecumenici dei primi secoli con quanto dicono su di lui gli scritti neotestamentari, si percepirà subito un'enorme differenza tra di loro. Eppure, è lo stesso Cristo che si vuole annunciare in tutti e due i casi. I dogmi cristiani, anche i più «sacrosanti», come quello 'della Trinità di Dio, sono relativi al linguaggio culturale dell'epoca in cui sono stati formulati. Non poteva avvenire altrimenti.
    Da alcuni questo criterio di storicizzazione culturale è ritenuto valido solo per ciò che riguarda il passato; quando si tratta del presente, si manifestano restii alla sua applicazione. Bisogna invece essere coerenti e portare le cose fino in fondo. Soprattutto in un momento storico come questo, in cui il cambio culturale è così profondo e incalzante da far dire al Concilio che ci troviamo in una nuova era dell'umanità (cf GS 4.5). E allora, se da una parte occorre riconoscere che le persone che oggi si iniziano nella fede - nel nostro caso i giovani - non inventano né la Chiesa né la fede e perciò devono per coerenza accettare un linguaggio «tradizionale», dall'altra bisogna riconoscere che essi sollecitano la fede ecclesiale a un'operazione di metamorfosi mediante la quale si arrivi a dire quel messaggio di sempre nel modo in cui essi attualmente pensano, sentono, vivono ed esprimono la realtà. Non si può quindi costringerli, col pretesto che la fede è un linguaggio da iniziati, a spogliarsi del loro essere culturale per diventare cristiani, ed entrare così in una specie di ambito ermetico. Sarebbe condannarli alla schizofrenia.

    Il dialogo con la cultura

    Certo, quest'operazione di trasformazione non va fatta unilateralmente. È solo il dialogo sincero e profondo da parte degli inizianti con la sensibilità culturale dei giovani ciò che può permettere di realizzarla. Un dialogo nel quale le legittime domande e le adeguate risposte ad esse, anche implicite e sommesse, dei giovani iniziandi, costituiscono altrettante strade per la ricerca di una nuova formulazione dei contenuti. Parlo di legittime domande e adeguate risposte per scansare un grosso equivoco, quello di confondere dialogo con semplice «accomodamento» della fede alla «cultura dominante». Uso questa ultima espressione in un senso molto preciso e concreto, quello della odierna situazione della cultura o, meglio ancora, delle culture. Nella società attuale convivono simultaneamente, infatti, diverse culture o modi di pensare, di sentire e di vivere la realtà. Alcune di esse sono contrassegnate da aspetti inconciliabili con la fede del Vangelo, come ad esempio la valutazione della realizzazione umana sul criterio della ricchezza, del dominio sugli altri, del prestigio, delle solidarietà chiuse della famiglia, della ram, del partito, della nazione, ecc. E tali culture tendono ad essere «dominanti» nel doppio senso della parola: perché sono così diffuse da occupare quasi l'intero spazio culturale, e perché si impongono studiatamente sulle altre cercando di sostituirsi ad esse. Ora, i giovani che vivono all'interno di questo mondo in cui esistono tali conflitti culturali e che ne risentono fortemente l'impatto, si portano dentro, insieme a domande legittime, anche richieste che provengono dalla cultura dominante. Davanti a questo fatto l'iniziazione alla fede evangelica non potrà non svolgere la funzione di «educatrice della domanda». Una fede che li confermasse semplicemente nelle loro richieste sarebbe in questo caso doppiamente infedele: al Vangelo di Cristo e agli stessi giovani.
    Mi permetto di aggiungere al riguardo ancora due cose. Anzitutto, che l'educazione della domanda va fatta anche in dialogo, e non unilateralmente o, meno ancora, impositivamente. I giovani stessi dovrebbero arrivare a prendere coscienza dell'incoerenza di certe loro richieste con il progetto del Vangelo e, se lo vogliono decidere, a modificarle. Agire altrimenti è mettersi al di fuori della ispirazione evangelica del «non im-porre ma proporre». In secondo luogo, che questa coscienza del bisogno di educare la domanda non deve servire da scusa per sospettare di qualunque richiesta nuova o diversa da quelle a cui si è abituati a rispondere. In questo senso verrebbe bene quell'indicazione di Paolo ai Tessalonicesi: «esaminate tutto e ritenete ciò che è buono» (1 Tes 5.11). Tante volte sono le richieste proposta evangelica che, come si sa, comnuove e diverse quelle più consone con la porta una forte carica «sovvertitrice».

    PROBLEMATICHE CIRCA L'ASSENSO DEI CONTENUTI

    Ho fin qui abbordato alcuni problemi che si pongono all'iniziazione cristiana dei giovani dalla parte della consegna o proposta dei contenuti; ora intendo riferirmi brevemente a quelli che vengono dalla parte dell'assenso. Il problema si pone in altri termini, quelli in cui lo esprime il titolo di queste riflessioni: di quale assenso si tratta? Mi limito a focalizzare due risvolti della questione.
    Mi sembra di trovar una risposta alla prima domanda in ciò che ho detto sopra riguardo all'organicità dei contenuti stessi. È vero, la Chiesa è una comunione e l'appartenenza ad essa richiede di conseguenza una comunione nella fede anche come insieme di contenuti; ma, credo che si possa e, ancor di più, si debba assumere anche in questo contesto il criterio-guida enunciato per i rapporti ecumenici tra le diverse confessioni cristiane dal già citato decreto Unitatis Redintegratio, allargandone la comprensione. Tale decreto, infatti, al posto del criterio integrista del «o tutto o niente» che aveva regolato i rapporti interconfessionali per secoli, propose quello della gradualità nella comunione (cf n. 3). Se è vero, come abbiamo già detto, che tra i contenuti della fede c'è una diversità, dal momento che vi si trova un nucleo centrale e una serie di altri contenuti di disuguale importanza, pare ovvio che anche la sollecitazione dell'assenso debba tenerlo presente. Non è lo stesso, per esempio, chiedere l'assenso di fede alla risurrezione di Cristo e chiederlo all'esistenza dell'inferno, per riferirmi solo a un enunciato, tra tanti, nei confronti del quali i giovani d'oggi possono trovare difficoltà.
    D'altronde, la questione dell'assenso integrale è in parte collegata con quella trattata precedentemente dell'inculturazione della fede. È infatti specialmente nei confronti dei suoi elementi non centrali che essa si pone. Forse perché diversi di quegli enunciati sono andati a finire, per via delle polemiche suscitate dalle eresie, nelle formulazioni dogmatiche che hanno acquistato, all'interno di una certa concezione ecclesiologica ormai superata, un alone di sacralità e intoccabilità.
    Il secondo risvolto è molto strettamente collegato con quello appena accennato. Iniziazione significa precisamente processo, processo di crescita. Un processo dinamico nel quale è coinvolto anche l'assenso di fede. Un certo modo di concepire le cose nella teologia della fede del passato aveva fatto dimenticare la componente «esistenziale» di tale assenso. Come se esso si producesse all'insegna della sola intelligenza, e di un'intelligenza esistente in sé, fuori da ogni influsso che non appartenesse a quell'ordine. Più realista si mostra in questo contesto S.Tommaso il quale fa capire che la ragione umana ultima per la quale qualcuno si decide a dare il suo assenso alla fede, è il fatto di trovare in essa una soddisfazione dello «appetitus beatitudinis». «Oggetto della fede sono le cose che riguardano la felicità dell'uomo», sostiene. È molto profonda questa osservazione, bisogna riconoscerlo. E molto feconda. Ci fa prendere coscienza che solo se il giovane scopre - magari solo intuitivamente - il collegamento che c'è tra gli enunciati della fede e il suo desiderio di pienezza di vita può dare il suo consenso. L'iniziazione consisterà quindi concretamente in questo: nel collaborare a fargli cogliere tale collegamento, a farlo balenare, per così dire, davanti ai suoi occhi. E ciò non si fa ordinariamente da un momento all'altro, ma richiede tempo e pazienza. E richiede, inoltre, che venga rispettato il ritmo proprio di ogni persona. Probabilmente, date le condizioni già accennate di pluralismo e frammentarietà della sensibilità attuale, alcuni giovani - e forse anche degli adulti - non arriveranno mai a un assenso totale e definitivo a tutti i contenuti «secondari» della fede.


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