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    Come si avvia e si prosegue il discorso



    I circuiti del discorso /1

    Gian Paolo Caprettini

    (NPG 1987-08-55)


    Diamo inizio ad una nuova rubrica: «i circuiti del discorso».
    Abbiamo un problema: comprendere il «discorso quotidiano», cioè il modo di trasmettere e comunicare le nostre conoscenze. Ogni comunicazione, in fondo anche quella non verbale, veicola conoscenze. «Nell'uomo ogni esperienza comunicativa è conoscitiva e viceversa. Non soltanto le novità o le scoperte, ma anche le conferme, i dubbi e gli errori comportano conseguenze, vistose o impercettibiili che siano».
    «Condurre avanti il discorso», come si dice di solito, non è solo un dono naturale, ma anche frutto di esperienza. Al contrario di un computer che può solo lavorare con gli ordini che ha nel programma, l'uomo può apprendere oltre quello che già è capace di fare. Può apprendere dalle esperienze positive e negative del comunicare.
    Ecco allora il nostro problema: come apprendere e condurre il discorso e, prima ancora, quali sono i circuiti del discorso nella nostra vita quotidiana?
    Ci riferiamo alla comunicazione interpersonale, sia quella che avviene in vista di una qualche trasformazione della realtà, sia quella che avviene per il puro gusto di discorrere. Ci riferiamo anche al discorso dell'«indagine interiore», quella che ognuno produce in momenti di autocoscienza. Ma ci riferiamo anche alle varie forme di comunicazione di massa, cioè al discorso del giornale, della televisione, della pubblicità.
    Non ci muove solo la curiosità, ma anzitutto una esigenza di natura etico-sociale ed educativa. Mentre ci lasciamo guidare da esperti delle discipline linguistiche, è decisivo che esercitiamo un giudizio di ordine etico su come di fatto viene a strutturarsi il discorso nella vita quotidiana, producendo di volta in volta incremento o impoverimento della coscienza umana e della sua dignità e libertà. Allo stesso tempo vogliamo giudicare il nostro modo di comunicare in ambito educativo e pastorale, e apprendere a farlo in modo rispettoso dei diritti e attese dei giovani.
    Il progetto di animazione sviluppato in questi anni ha messo in luce il fatto che l'educazione implica un apprendimento critico della cultura umana, cosi come essa è raccolta nei suoi linguaggi, visti non come dei magazzini in cui il sapere è depositato, ma come delle guide e mappe dentro il sapere umano. Se la lingua è povera, povera sarà la possibilità di inoltrarsi nell'esperienza umana; e se la lingua induce dipendenza, anche l'esperienza quotidiana verrà vissuta secondo modalità di dipendenza.
    Lo stesso progetto di animazione ci ha aiutato a togliere il linguaggio da una sorta di mondo chiuso in sé, per farlo diventare mezzo di scambio fra uomo e uomo, oltre che fra uomo e natura. Proprio questo ci sollecita, ancora una volta, ad offrire ai lettori una serie di studi che analizzano sia gli eventi comunicativi familiari e il quotidiano discorrere umano, sia il discorso offerto di mezzi di comunicazione sociale.
    Affidiamo questa nuova rubrica alla competenza e passione educativa di Gian Paolo Caprettini e di alcuni ricercatori che lavorano con lui. Mese dopo mese offriamo due brevi studi: il primo sulle leggi che governano il discorrere umano, il secondo su come il discorso viene gestito nei vari ambiti della vita sociale.
    In questo numero Caprettini riflette su come si avvia e prosegue la conversazione quotidiana, mentre Fulvia Berruti riflette su come i giornali impostano la comunicazione con i lettori.


    La comunicazione consiste nella trasmissione di conoscenze: a essere radicali, dovremmo dire che nessuna conoscenza è realizzabile effettivamente se non può venire comunicata. E ciò vale sia per l'organismo umano per se stesso, sia per ogni uomo in rapporto agli altri.
    D'altra parte non vi è comunicazione che non trasmetta conoscenza: anche nei casi di malinteso o di insinuazione, di errore o di propaganda, di silenzio o di clamore, la comunicazione in quanto tale -che indubbiamente avviene in ognuno dei casi presentati - produce effetti conoscitivi, modifica le condizioni di partenza di chi le riceve e in chi le trasmette.
    Nel soggetto umano ogni esperienza comunicativa è conoscitiva e viceversa.
    Non soltanto le novità o le scoperte, ma anche le conferme, i dubbi e gli errori comportano conseguenze vistose o impercettibili. Ma non perché ci sono conseguenze e dunque trasferimento di conoscenze, si può dire che ogni evento comunicativo è effettivamente tale.
    Pensiamo, per fare un esempio, ad un uditorio indifferente al discorso di un conferenziere, che pure compie un intervento pieno di dati di per sé interessanti e anche utili al pubblico dei presenti. Chi parla non riesce però a fare presa, e l'unica cosa che egli rende nota al pubblico è la sua presenza in quel luogo, magari un poco scontata ma certo inefficace. La distrazione dell'uditorio e la scarsa attenzione impediscono la comunicazione, ostacolando il successo delle intenzioni del parlante. Si è di fronte ad un flusso di parole, a un discorso magari ordinato, ma non a un evento effettivamente comunicativo.

    LA COMPLESSITÀ DELL'EVENTO COMUNICATIVO

    Per comprendere situazioni come questa è importante richiamare il processo del linguaggio nella comunicazione umana. Dato lo spazio a disposizione devo per forza limitarmi ad alcuni accenni, oltretutto ricorrendo a formulazioni che andrebbero maggiormente contestualizzate nell'ambito della linguistica.
    Il linguaggio è per l'uomo il luogo di rappresentazione dei pensieri e lo strumento che egli utilizza per comunicarli agli altri.
    Ogni comunicazione implica due soggetti e le loro «lingue» che interagiscono tra loro. Da una parte abbiamo la lingua del mittente e dall'altra quella del destinatario. Sia la lingua del mittente che quella del destinatario possiedono una caratteristica intenzione. L'intenzione primaria è quanto il mittente vuole produrre nel destinatario. L'intenzione secondaria è quella del destinatario, che riconosce l'intenzione del mittente e vi aderisce a modo suo. Non tutto quel che il mittente vuole comunicare raggiunge e viene accolto dal destinatario, ma solo un'area ristretta (area di intercompensione) in cui i due linguaggi e i pensieri che si rapprésentano vengono a sovrapporsi ed aderire reciprocamente.
    L'area della comunicazione effettiva è quella dell'intercomprensione e non quella voluta dal solo mittente o dal solo destinatario. Arrivare ad una comunicazione effettiva è a questo punto un processo complesso. Segnalo, quasi a titolo esemplificativo, alcuni elementi in gioco.
    Anzitutto la capacità del soggetto di rappresentare i pensieri in linguaggi e di trasferire in strumenti operativi adeguati ciò che si trova nella mente, al fine di produrre un messaggio intenzionale nella direzione del destinatario.
    Non meno complesso è il compito del destinatario impegnato a comprendere un messaggio. Quest'ultimo sarà realizzato adeguatamente se saprà rappresentare al meglio le intenzioni ed il programma cognitivo dell'emittente, e saprà coordinarlo con le intenzioni, gli scopi e le mete di chi ascolta. Per dirla con una formula, occorre saper costruire il proprio destinatario, facendo leva non soltanto sulle sue aspettative, sui suoi desideri e bisogni, ma sulle proprie conoscenze effettive della realtà mediate dal linguaggio.
    Tutto questo deve essere considerato attentamente ogni volta che si riflette sugli usi della parola o degli altri mezzi espressivi, e soprattutto quando, nell'impiego degli strumenti comunicativi, sia da valutare l'opportunità, la perspicuità, la funzionalità, la rispondenza alle intenzioni; ogni volta cioè che l'uso dei codici linguistici (della parola, dell'immagine, delle azioni e dei comportamenti) viene commisurato rispettivamente alle circostanze, alla chiarezza nei confronti dell'utente, agli scopi da perseguire, alle mete da raggiungere.
    Applichiamo ed esplicitiamo queste informazioni generalizzate ad un ambito da «vita quotidiana», la comunicazione tra persone e gruppi che avviene (o non avviene) nella conversazione ordinaria.

    COME SI AVVIA E COME PROSEGUE IL DISCORSO

    Generalmente si ritiene che ogni espressione discorsiva, ogni frase pronunziata, richieda una preliminare riflessione, cioè che l'atto del parlare debba essere preceduto da un momento preparatorio - anche molto breve - in cui il parlante mette a punto rapidamente i propri strumenti linguistici.
    Perfino i luoghi comuni e le frasi fatte ci danno una mano: «pensa a quello che dici», «ti sei reso conto di quello che hai detto?» sono espressioni comunemente usate per rimarcare la scarsa appropriatezza, la dubbia efficacia di una frase, di un enunciato.

    La presenza di regole

    Le cose non stanno proprio cosí. In certe occasioni chi parla - per esempio in una conversazione - non riflette troppo su quello che sta dicendo: fra chi partecipa a una conversazione, infatti, si conviene tacitamente che l'argomento possa modificarsi continuamente, che la responsabilità di chi parla rispetto a quello che dice non sia necessariamente evidente, che l'impegno tenuto nel discorso non si dimostri troppo alto: gli individui non si sentono del tutto coinvolti in quello che dicono. Essi infatti non sono tenuti a conoscere a fondo l'argomento, e quindi possono esprimere anche posizioni al riguardo non ben definite; inoltre ci si può liberamente alternare a parlare e ci si mantiene generalmente al di fuori di ambiti istituzionali determinati o perfino di rapporti gerarchici o di potere. Infine, nelle conversazioni - in cui tutti i partecipanti sono potenzialmente esposti nello stesso modo verso ciò che si dice - non è necessario che il discorso porti a delle decisioni, anzi prevalente è il campo delle opinioni su quello degli obblighi o delle azioni.
    Non si creda però che la conversazione sia priva di regole: una delle piú importanti consiste nel rendersi conto che è venuto il momento di prendere la parola, entrando nel ritmo dei «turni» che sono previsti dal discorso. È estremamente importante cogliere il momento giusto: questo può dipendere da un'esitazione da parte degli altri partecipanti, da un esplicito invito (ma in certi casi è meglio far finta di niente o rispondere ironicamente o dichiarare di non essere informati adeguatamente), da un attimo di silenzio che si prolunga, dall'allusione rivolta indirettamente da qualcuno.
    Il silenzio può non dipendere dall'imbarazzo: il piú delle volte è determinato dal fatto che tutti ritengono che il temadel discorso sia stato esaurito; molti, in effetti, sfruttano (non solo nelle conversazioni ma negli scambi a piú alto tenore decisionale) l'ultima posizione, e parlano alla fine nella convinzione (o nella speranza) che nessuno li potrà piú controbattere perché gli argomenti sono stati esauriti e perché le posizioni nei confronti di questi sono state già assunte.

    Il patto comunicativo

    L'atto del proferire comporta formule che segnalano che il locutore è pronto a parlare, che il «programma è stato caricato» (per usare la terminologia computeristica), che l'apparecchio è sintonizzato e quindi che è attivato il canale di trasmissione del messaggio (esempio tipico il «Pronto, chi parla?» delle telefonate).
    Leggermente diverse e meno formalizzate sono le espressioni che si riferiscono alla disponibilità a proseguire il discorso; esse dipendono tanto dalla volontà di chi parla quanto da un consenso anche tacito del destinatario. Talora certe forme assumono funzione implicita di avviamento al dire e rappresentano una dichiarazione di disponibilità a prendere la parola: «Eccomi!» è una di queste, se la situazione prevede che chi si annunzia possa - o debba - prendere la parola al suo arrivo, perché è quello il suo turno.
    Teniamo comunque conto che ogni discorso si muove all'insegna di un patto comunicativo, sia quando la situazione è chiaramente formalizzata (ad esempio sotto forma di riunione, lezione, seminario, trattativa, intervista, dichiarazione ufficiale, comunicato stampa, testimonianza...) sia quando non lo è.
    Non di rado si verifica che i rapporti che si vanno stabilendo mediante il discorso siano non capiti o non accettati. È necessario che il discorso conduca - in tal caso -, se si vogliono ottenere risultati certi, alla chiarificazione delle premesse e quindi, se occorre, alla loro modifica, sino a che si stabilisce un minimo di consenso ed esse vengono accettate dai partners del dialogo; è chiaro che normalmente tale accezione non è dichiarata separatamente e preliminarmente, ma viene di fatto contenuta e accolta nel discorso.
    Nell'agire comunicativo in vista della comprensione reciproca, fondamentale è l'intuire, prima ancora dell'intendere, ma altrettanto necessari sono i segnali che ciascuno dei locutori invia agli altri per dimostrare che si è capito il contenuto e il senso del discorso, e che si è disposti ad andare avanti, a continuare lo scambio.

    Implicazioni e presupposizioni

    Un altro fattore di grande rilievo negli scambi discorsivi - dalle conversazioni ai dialoghi piú impegnativi - è l'introduzione dell'informazione, il modo in cui si presenta un argomento: nel valutare le varie possibilità si deve tener conto che la presentazione dell'oggetto del discorso può variare a seconda che esso sia nuovo completamente per tutti (meno che per chi parla) o nuovo soltanto per qualcuno. Piú semplice - apparentemente - il caso che presenta solo due locutori.

    Supponiamo che A e il suo compagno B siano ad una festa ed A, annoiandosi, dica a B:
    A: Si sta facendo tardi.
    B: a. Ma io mi sto divertendo un mondo. b. Non ti diverti caro? c. Vuoi andare via?
    B potrebbe rispondere in uno dei modi indicati (a, b, c), ma nessuno di questi è in diretto riferimento con la constatazione di A j ma gli attribuisce un'intenzione (che in linguistica si dice «perlocutoria», cioè che mira a determinare un'azione conseguente).
    Si chiamano presupposizioni le informazioni che vengono date per note, implicazioni le informazioni che si è nelle condizioni di potersi attendere e che -per cosí dire - sono già contenute nella frase pronunziata anche se non espresse. B risponde quindi ad A (prendiamo la risposta c) come se presupponesse che A non si sta molto divertendo e implicasse che è intenzione di A non rimanere piú lí.
    Su giochi di questo genere si creano perfino delle barzellette. Proviamo a inventare una situazione comico-tragica. A è nel deserto e da una settimana non beve; arriva B su una velocissima jeep carica d'acqua e chiede ad A: «Hai sete?». Arisponde con un filo di voce: -«Sí». B, soddisfatto nella sua curiosità, riparte (senza dare un goccio d'acqua ad A).

    Altro caso:
    A Vuoi ancora qualcosa da bere?
    B: Sí grazie, ma poco.
    Il primo enunciato non è soltanto una domanda ma contiene un'offerta, tant'è vero che B la coglie e considera quella domanda dotata della presupposizione «Penso che tu abbia sete e sono pronto a offrirti dell'altro da bere».
    Infine un esempio per cui A - il primo parlante - si attende che B - il destinatario del suo discorso - si comporti come se gli avesse dato delle precise istruzioni, quando invece - per attenersi ai dati di fatto - gli ha solo descritto una situazione.
    Siamo in auto. B è al volante, A viaggia come passeggero, assieme ad altri, sul sedile posteriore e dice «Non sentite aria davanti?». Dicendo cosí vorrebbe che B desse per presupposto: «Qui dietro c'è molta aria» + «Mi dà fastidio l'aria» + «L'aria arriva certamente dai finestrini anteriori». L'istruzione pragmatica implicata da A verso B sarebbe allora: «Chiudi il tuo finestrino»: e c'è da credere che A si attende che B lo faccia.
    Certamente è a un destinatario ben dotato di capacità inferenziali, e assai benevolo nell'impiegarle al meglio, che si rivolge una tale forma indiretta del dire. Il destinatario infatti dovrà riconoscersi come tale e chiudere la catena pensiero-parola-azione fra ciò che A dà per noto e l'istruzione che impartisce in modo cosi implicito.

    Il rapporto comunicatore-contesto

    In tutto ciò bisogna riconoscere una componente cerimoniale tipica di microsituazioni interattive: il percorso in ascensore, la presentazione di persone non conosciute, la fila agli sportelli... ma è piú opportuno richiamare lo schema dei rapporti soggetto-ambiente (o, se si preferisce: comunicatore-contesto): «L'individuo razionale, diciamo cosí, `parametrico' considera il suo ambiente come una costante, laddove invece l'individuo razionale 'strategico' tiene conto del fatto che l'ambiente è formato da altri soggetti, e che egli a sua volta fa parte del loro ambiente, e che essi lo sanno...» (J. Elster).
    Vi sono situazioni in cui il parlante (o, piú in generale, il comunicatore) si comporta come se volesse apparire a tutti i costi «strategico», e piú precisamente rispettoso del contesto, ma in realtà non fa che ribadire la propria posizione «parametrica», la sua presenza irrelata. In generale, però, osservando il comportamento, si nota che l'individuo spende una gran quantità di risorse per posizionare il proprio canale comunicativo, cioè per farsi riconoscere e autorizzare.
    Un fenomeno «classico» è costituito -in italiano - dal verbo «scusarsi». Innanzitutto si dovrà distinguere fra l'atto di scusarsi che si riferisce a ciò che si dice e quello che si riferisce a ciò che si fa; inoltre, fra le scuse relative a ciò che si è appena detto o compiuto, ovvero a ciò che si sta per dire o fare. Può accadere che la locuzione «scusatemi» sia indirizzata a qualcuno (si pensi al contesto di una riunione) per avvertire che si sta per compiere un'azione: quell'enunciato sarà proferito, ad esempio, da chi si sta per alzare dal suo posto per andarsene.
    «Scusami» può anche segnalare che si postula tacitamente che il destinatario si trova nelle condizioni di attendersi delle scuse, mentre il destinatario non avverte nessun buon motivo per riceverle; in tal caso «scusami» ha una funzione puramente enfatica, in cui non è in gioco la credibilità ma piuttosto quella che i retori chiamavano praemunitio, un modo di mettere le mani avanti (che talora è decisamente fastidioso).
    «Mi scusi» equivale allora a «Sono qui che sto per fare qualcosa...» oppure a «Lasciami fare quanto sto per fare», facendo intervenire l'attenzione non tanto sull'oggetto del discorso, sull'azione che sta per essere intrapresa, quanto piuttosto sulla presenza stessa di chi parla e sulla sua legittimità a fare o a dire. In queste occasioni la «mossa» consiste nel farsi dare dall'altro un'autorizzazione non necessaria allo scopo di depistarlo sul contenuto, il significato e le conseguenze di quello che egli sta per fare.


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