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    Proposta per una cultura di pace


    Ernesto Balducci

    (NPG 1986-10-32)


    Agli inizi degli anni Settanta, il Rapporto Unesco sull'educazione, dopo aver documentato la crisi della scuola in tutti i paesi associati all'ONU, ne individuava la causa in un certo «disagio antropologico», non meglio definito. L'indicazione resta ancora valida, anzi ha acquistato, di anno in anno, una evidenza sempre più incontestabile. Di più: noi siamo in grado di scoprire quali siano le ragioni di quel disagio e quindi anche di suggerire le prospettive del suo superamento. Il guaio è che quelle ragioni si identificano non già con questa o quella disfunzione del sistema culturale, ma con la crisi del sistema stesso. Di conseguenza è entrata in crisi anche la «paideia», e cioè il processo con cui una cultura provvede a trasmettere se stessa. I riflessi di questa dissolvenza di una funzione da cui dipende non solo il futuro delle nuove generazioni, ma il nostro futuro in assoluto, sono sotto i nostri occhi.
    Vorrei tentare una lettura di questa situazione e contestualmente suggerire alcuni orientamenti capaci di avviare una fuoriuscita dalla crisi, che è davvero crisi dei fondamenti.

    UNA MUTAZIONE CULTURALE

    La mia proposta presuppone un metodo e una ipotesi storica. Il metodo è quello che cerca di individuare il significato di una cultura e delle sue trasformazioni nel punto di incontro fra esigenza vitale (dell'individuo o del gruppo sociale) e ambiente. Ogni popolo ha una sua cultura, che risponde, se andiamo a vederne le strutture portanti e le dinamiche, all'insieme di strumenti fisici istituzionali e mentali, con cui esso provvede alla propria preservazione e al proprio sviluppo. Di qui la possibilità di cogliere, nel corso dei tempi, un succedersi di culture, da considerare ciascuna come una variabile della interazione fra esigenza vitale e ambiente.
    È in questo senso che si parla di una cultura neolitica o di una cultura dell'età del ferro e così via. È questo il metodo con cui credo si debba individuare la possibilità di una cultura di pace che si sostituisca a quella - sarà più chiaro tra poco - che potremmo chiamare cultura di guerra.
    L'ipotesi storica è che la soglia atomica ha segnato una modificazione radicale dell'ambiente vitale. Per la prima volta, la specie si trova oggi di fronte alla possibilità della sua estinzione totale e istantanea. Si tratta di una esperienza totalmente inedita, legata in maniera evidente a una casualità oggettiva.
    Ebbene, questo dato di fatto, sulla cui descrizione non mi trattengo, non potrebbe, per i principi sopra enunciati, mettere in crisi radicalmente i fondamenti antropologici della cultura di guerra? Chiamo così la cultura che ritiene non eliminabile l'uso della forza fisica nei rapporti fra uomo e uomo, fra gruppo umano e gruppo umano. A mio giudizio, siamo all'interno, per usare un termine preso dall'antropologia genetica, di una «mutazione», il cui esito è totalmente incerto, ma la cui alternativa è soltanto la fine della storia per estinzione della specie.

    L'età del centauro

    Per dare un orizzonte storico alla cultura di guerra, a me piace risalire a quel momento della storia dell'umanità, che Jaspers e dopo di lui Toynbee hanno chiamato l'età assiale, che press'a poco cade nel VI-V secolo avanti Cristo. È il momento in cui sono emersi, in tutta la fascia culturale evoluta, dalla Cina fino al Mediterraneo, dei Profeti che sono ancora, se ci pensiamo, come gli dèi fluviali della civiltà. Se si torna indietro, sia in Cina che in India che nella cultura mediterranea, non si può che arrivare ad alcune figure emergenti, che sono come i simboli e i maestri di una possibilità della specie umana che si colloca al livello della libertà fondata sulla ragione. Penso a Lao-Tse, a Buddha, ai Maestri delle Upanishad, a Isaia, a Pitagora. Queste figure rappresentano, nel loro insieme, come un crinale prima del quale non c'è che la preistoria piuttosto oscura, comunque senza messaggi universali, e dal quale si sono proiettati nella storia messaggi che non possiamo dire esauriti, in quanto sono dotati di una universalità così potente che ci si ritorna ancora. Nessuno può dire che Buddha è un uomo superato o che la profezia di Isaia, sull'età futura in cui l'agnello e il leone staranno insieme, sia ormai scaduta o archiviabile tra i reperti poetici. Sono «profezie» che agiscono ancora in miliardi di coscienze e il cui senso unitario è che l'umanità è in grado di vivere abolendo totalmente la violenza, affidandosi in modo pieno al magistero della legge interiore.
    Fino ad oggi, questo messaggio è stato accolto, ma è stato combinato - ecco una caratteristica della cultura di guerra di cui siamo eredi - con la sopravvivenza dell'uso della forza quale strumento del diritto. Potremmo dire che la Storia si è svolta, fino ad oggi, come a due diversi livelli: un livello etico, in cui tanto la violenza dell'uomo contro l'uomo quanto la guerra sono stati considerati come un male; e un livello politico, in cui invece la violenza è stata integrata dalla ragione sia come fondamento dello Stato (il potere non è altro che il monopolio pubblico dell'uso della forza) sia nel conflitto tra popolo e popolo, come extrema ratio della giustizia, come «guerra giusta», per usare la nozione elaborata dallo stoicismo romano e poi fatta sua dalla tradizione teologica. Noi siamo ancora dentro l'orizzonte culturale dove convivono i due livelli: la deplorazione morale della guerra, il riconoscimento della sua necessità.
    Questo dualismo fa pensare al centauro della raffigurazione botticelliana. Durante l'umanesimo si raffigurò questa duplicità della condizione umana nella mitica figura del centauro: l'uomo è, per un verso, un soggetto razionale, creatore di valori spirituali universali, e, per l'altro verso, è ancora una bestia. I due aspetti non si possono affatto separare, la loro convivenza è una necessità. Persino il messaggio del Vangelo ha dovuto fare i conti con la mediazione culturale del centauro, perché da una parte si è esaltata in suo nome la pace, si sono chiamati beati i pacifici, dall'altra si è considerato inevitabile l'uso della violenza, compresa la guerra.

    La crisi delle idee innate

    La situazione, in cui ci troviamo, di oggettiva e radicale minaccia non può non ingenerare nella coscienza comune una rimessa in discussione della premessa da cui è stata governata la storia. Siamo coinvolti in una disgregazione sempre più evidente del tessuto degli a priori della cultura di guerra, che fino ad oggi è stato considerato come un discutibile sistema di princìpi sui quali poggia la civiltà. In una pagina del suo Saggio sull'intelletto umano John Locke sottopone a critica la dottrina, non solo platonica, delle idee innate. Secondo tale dottrina, l'uomo porta in sé dei princìpi anteriori all'esperienza, che fanno luce sull'esperienza e che non possono essere messi in questione. Osserva Locke, con acutezza, che questa dottrina è molto comoda a mantenere in prestigio e in efficienza la categoria dei maestri, che sono specialisti nelle idee innate e che rivendicano dai discepoli la stessa venerazione che si deve prestare alle idee innate. E così, sottolinea Locke, la dottrina delle idee innate diventa una dottrina del dominio, diventa, per dirlo con termine post-marxiano, il fondamento della funzione della ideologia della società. La cultura delle classi dominanti si basa sulle idee innate, e cioè su principi che non è lecito mettere in discussione. La cultura di guerra si basa appunto su un tessuto di idee che sono rimaste al riparo dallo spirito critico di cui andiamo fieri.
    Penso soprattutto agli effetti deleteri che questo tessuto di a priori ha nella scuola. La scuola vive dentro questo orizzonte culturale, e non è certo qualche spirito critico, qualche maestro-profeta come Don Milani, che può modificare il groviglio di dogmi con cui le coscienze vengono integrate nella cultura dominante.

    PERCHÉ LA CULTURA DELLA GUERRA

    L'esame critico dei principi costitutivi della cultura di guerra con i quali dobbiamo continuamente confrontarci ci porterebbe lontano, ci condurrebbe a porre il bisturi proprio sulla carne viva della cultura dominante. Mi limiterò ad una specie di analisi schematica di quella che ho chiamato cultura di guerra e successivamente della cultura di pace, quale unica alternativa che si para dinanzi alla specie.

    La legge di natura

    Una prima idea innata della cultura di guerra è quella della legge di natura. Entro questa categoria rientra il dogma che l'uomo è per natura aggressivo, e che dunque sia la violenza che lo Stato assume sotto forma di legge a garanzia del privato, sia quella che esercita contro l'altro Stato nella guerra giusta rientrano in una legge di natura. È un principio incrollabile che ci troviamo dinanzi tutte le volte che discutiamo di pace o di guerra. La crisi del concetto di legge di natura (che si è soliti applicare anche ad altri settori, come la sessualità) è ormai evidente. La cultura critica è arrivata a stabilire che quando si parla dell'uomo non si può parlare di natura, a meno che non si alluda alla struttura biologica. In quanto soggetto storico, l'uomo è sempre cultura. Nel passaggio dell'uomo dalla sua animalità biologica alla sua attività creativa, non ci sono strutture stabili: l'uomo è così come si fa.
    C'è una plasticità, nella natura umana.
    Ma noi siamo dentro a una ideologia che, per un verso, esalta l'uomo conquistatore, l'uomo che domina la natura, e per l'altro verso sostiene (e questa contraddizione la dice lunga) che l'uomo è sempre lo stesso, che la aggressività umana non può essere eliminata, che è una illusione delle anime pie quella che sia possibile rendere l'uomo pacifico. La critica a questo dogma non va condotta semplicemente per via razionale, perché può essere continuamente riconsegnata al riscontro effettivo dei fatti, anche quelli messi in luce dalla antropologia culturale.
    Questo principio primo della cultura di guerra ha una sua versione religiosa nella dottrina della malvagità radicale dell'uomo: l'uomo è radicalmente cattivo: la guerra è l'espressione di questa malvagità. Nella fraseologia predicatoria, la guerra è la punizione dei peccati dell'uomo, e siccome l'uomo sarà sempre peccatore, la guerra l'avremo sempre. Questa visione della malvagità insuperabile dell'uomo si incontra con quella della provvidenza che, nonostante la malvagità umana, guida la storia verso i suoi obiettivi.

    L'etnocentrismo

    Fra i principi, latenti o scoperti, che costituiscono la struttura portante della cultura di guerra va annoverata l'idea etnocentrica, secondo cui la nostra cultura è la misura di tutte le culture. Questa idea oggi è più camuffata, ma si ritrova anche nelle espressioni più laiche della cultura occidentale. Ad esempio, i fatti che turbano la coscienza comune, se provengono dalla Polonia hanno una risonanza straordinaria, se provengono da un paese del Centro America, nessuna apprezzabile reazione. Anche nella stampa illuminata sopravvive un orgoglio razzistico in altri tempi in qualche modo giustificato (per la storicità della cultura di cui dicevo prima), ma oggi assolutamente sprovvisto di ogni giustificazione. Si tratta di una copertura, ormai troppo trasparente, della logica del dominio, aspetto fondamentale della cultura di guerra. Questo etnocentrismo si ritrova, d'altronde, in una storia della filosofia qualsiasi. Il ragazzo che studia la filosofia sa che l'Occidente ha veramente pensato. Il pensiero è nato con Talete e poi è arrivato su su fino ad Hegel. Non si dice «filosofia occidentale», si dice la filosofia. Il razzismo ideologico è un dato essenziale della nostra formazione. A volte si getta uno sguardo di simpatia dall'alto in basso per quello che si è pensato in India, ma anche in questo caso il parametro di legittimazione resta quello che noi rappresentiamo.

    LE COORDINATE Dl UNA CULTURA DELLA PACE

    I principi che ho enumerato non sono volgari ideologie, sono principi che in maniera esplicita o latente governano il nostro mondo culturale, anche quello più progressista, e che proprio per questo danno alla cultura di guerra una capacità di sopravvivere camuffandosi. Essi hanno come effetto globale quello di impedire una efficace presa di coscienza della novità della situazione storica. Infatti non basta descrivere, come hanno fatto alcuni films, gli effetti di un conflitto atomico con tutte le previsioni scientifiche circa l'inverno nucleare, per produrre una vera presa di coscienza del rapporto tra le previsioni e le responsabilità attuali di ordine morale e politico. C'è da temere che, alla fine, la facilità con cui si descrive l'apocalisse di domani sia funzionale alla cultura della rassegnazione, dato che nella immanità delle previsioni agisce sempre una specie di sottinteso determinismo storico. La vera presa di coscienza è insieme causa ed effetto di una assunzione di responsabilità. Non è un fatto mentale, fa appello alla capacità morale dell'uomo; è un processo coniugato di consapevolezza e di decisioni. Il compito di chi vuole la pace è quello di individuare la possibilità di costituire, in modo dialettico, con lungimiranza, e secondo i criteri dell'efficacia, un insieme di principi regolativi (parlando kantianamente) che hanno, come garanzia di validità, un riscontro nei processi reali della storia. Si tratta perciò di proiezioni della coscienza collegate però a possibilità oggettive indotte dall'analisi dei processi.
    Bisogna anche sapere accettare i limiti di quest'ottica. Chi volesse oggi descrivere in pieno che cosa è una cultura di pace farebbe del facile idealismo. Meglio attendersi ad una linea di saggio empirismo che comporta la rinuncia alla previsione totale dell'alternativa e la messa a fuoco delle possibilità inscritte nei processi, salvo poi a vedere se, nel loro insieme, questi punti disegnano una figura di civiltà.

    L'amore per la specie

    Ha colto nel fondo questa qualità nuova della cultura Albert Einstein, quando, nel suo messaggio del 1955, ha detto che nella situazione atomica noi dobbiamo ricordarci di essere membri della nostra specie dimenticando tutto «il resto». È un metodo, questo, che comporta una profonda «metanoia», un processo critico alla nostra razionalità. Un'acquisizione indiscutibile della nostra cultura è che l'uomo di cui si parla è sempre un uomo storico. Come si fa allora a riferirci alla nostra specie se non assumiamo anche i prodotti e la determinazione che la specie ha accumulato nel suo dispiegarsi? Tutte le creazioni storiche di cui va ricca l'umanità trovano la loro struttura portante e la loro condizione indispensabile nella vita della specie come tale, che fino ad oggi poteva essere assunta come un presupposto. Ebbene, la specie per la prima volta cessa di essere un presupposto da cui partire, diventa un contenuto delle nostre scelte: questo è il cambiamento, a mio giudizio fondamentale. Soltanto nei sogni sadici di Caligola era pensabile l'umanità con un collo solo da tagliare con un colpo. In realtà, la specie è sempre stata considerata come un dato fuori discussione. Essa non era nella zona della contingenza storica, ma in quella metafisica. Le scelte storiche dell'uomo si ritagliavano in un orizzonte dentro al quale la specie come tale non c'era. Ora la specie è balzata all'improvviso dentro l'orizzonte degli oggetti possibili. Questo passaggio della specie dalla condizione del necessario alla condizione del contingente si ripercuote sulla coscienza, secondo me, con una crescita di angoscia.
    Questo è il fatto su cui non si può passar sopra. Ora sappiamo meglio di ieri che la nostra coscienza non è che la pellicola luminosa di una struttura inconscia, che la coscienza dell'individuo è la punta emergente di un continente coscienziale, quello della specie, a cui approdano le grandi «correnti del golfo» che modificano la coscienza dell'individuo e si riflettono perfino sul suo volto. Forse per capire i giovani d'oggi bisogna tener conto di questo dato. L'adulto ha strutture di protezione che possono anche proteggerlo dai venti dell'immediato, ma chi non ha queste strutture è più esposto ai sommovimenti che attraversano l'inconscio collettivo. In reazione dialettica a questo nuovo senso di precarietà va affermandosi il principio di solidarietà con la specie, come un principio superiore ad ogni altra forma di solidarietà, quali l'amore per l'occidente o per la patria. L'amore per la specie non è una semplice riduzione biologica dell'amore per l'umanità. I valori «spirituali» sono, nel concreto storico, congiunti, quale che sia la nostra visione metafisica dell'uomo, con la stessa vita della specie. Quando ci adoperiamo per impedire le strategie del terrore e per far trionfare quelle della pace, noi ci comportiamo come membri della specie umana, come responsabili, in radice, della creazione. Non è mai avvenuto questo perché ne mancavano le condizioni storiche, perché solo oggi la specie è entrata in zona contingenza.

    Una nuova memoria

    Quando l'uomo ha allargato gli orizzonti di prospettiva ha dovuto allargare anche quelli della memoria. L'umanesimo del Quattrocento è nato nel momento in cui, uscito dalla identità rigida del Medioevo, l'uomo ha avuto dinanzi a sé contingenze nuove, nuovi metodi di rapporti sociali (la città al posto dell'abbazia) e geografici (le scoperte). Allora l'uomo si è creato una memoria che è andata al di là del Medioevo, ha recuperato il mondo come forma di esistenza laica, non soggetta ai modelli sacrali della cristianità, di una esistenza che si giustificava solamente nel nome della ragione e dei valori dell'uomo in quanto tale. Oggi, nella situazione che ho descritto, siamo chiamati a costruirci una memoria che risalga all'intero cammino dell'homo sapiens. Le grandi conquiste della specie non sono quelle del Partenone o del diritto romano, sono le grandi conquiste che le hanno consentito di far fronte alle minacce che l'hanno avvolta. L'umanesimo che si confà alla nostra situazione è quello che De Martino chiama l'umanesimo etnografico, e cioè la presa di coscienza dei tempi e dei modi con cui la nostra specie ha superato le minacce mortali. Essa è sopravvissuta portando in sé le tracce della sua labilità. L'umanesimo etnografico non è un vezzo culturale, è un modo di leggere nel passato i segni della contingenza che contraddistingue il nostro futuro. La terra è un sepolcro di «umanità» che ci furono e che non ci sono più, come quella di Neanderthal. Noi siamo nella precarietà. Questo sentimento della precarietà è un valore laico di altissimo significato, a mio giudizio. Ogni coscienza, qualunque sia la sua certezza o prospettiva sul futuro temporale o eterno, deve passare attraverso questa cruna d'ago. Questo abolisce ogni discriminazione all'interno della specie così come l'evento atomico abbraccia tutte le razze senza distinzioni. La cultura della pace abbandona i miti dell'umanesimo intellettualistico per perlustrare la lunga odissea della specie in un atteggiamento di «pietas», nel senso latino di venerazione e di commozione. C'è un messaggio più alto nel relitto fossile dell'homo sapiens che nelle opere di Quintiliano che facevano versare lacrime a Poggio Bracciolini quando le scoprì nel monastero di San Gallo. Quei relitti svegliano in noi il senso della maestà del tempo che passa e della grandezza della specie che ne ha saputo vincere le minacce. Dinanzi al nostro futuro dobbiamo integrare in noi il senso di questa gracilità.
    Come quella del tempo così anche la nostra coscienza dello spazio si è fatta diversa. La verità copernicana la viviamo noi più di Pascal, quando avvertiva i brividi metafisici dinanzi all'infinito. Noi sentiamo che il pianeta terra si muove nell'infinito con una inesplicabile ricchezza. Noi sappiamo perché ci sia la vita: c'è ma potrebbe non esserci, in un attimo. Questo sentimento ispira una vera umiltà, una umiltà vorrei dire ontologica, che è uno dei valori centrali di un progetto formativo nell'età atomica.

    La comunità mondiale

    In questa condizione - ecco un altro connotato della cultura di pace - noi ci troviamo come degli apolidi perché non abbiamo, come luogo di identità, né una religione data, né una cultura data, ma la specie nella sua indeterminatezza e nella sua potenzialità. Noi siamo senza luoghi di identificazione, a meno che non ne assumiamo due fondamentali, come dice Toynbee: la comunità locale in cui viviamo, e la comunità mondiale. L'epoca delle distanze è finita, anche sul piano dei fatti. Vorrei che qualcuno mi spiegasse che cosa è lo stato italiano. Tolta la formalità giuridica che lo copre, cosa è lo stato italiano? Le sue decisioni economiche e militari sono tutte prese altrove. L'età degli Stati è finita: come loro sostitutivo sono nati i blocchi. Ma appunto i blocchi hanno una ragione militare sempre più scoperta. Una coscienza che voglia vivere fino in fondo il processo di superamento critico della cultura di guerra si trova apolide, o meglio ha come sua patria la comunità locale e la comunità mondiale. Fra questi due poli ci sono le articolazioni intermedie; ma se noi non accettiamo questa prospettiva, rimaniamo facilmente subalterni alla logica di guerra. Questa doppia appartenenza è appunto la condizione drammatica e conflittuale che sperimentano tutti quelli che vivono per la pace. La comunità mondiale non è comunque un ens rationis, è un embrione già esistente. L'uomo di pace ama i riferimenti istituzionali di tipo internazionale come le Nazioni Unite con tutte le sue ramificazioni. La sua vera patria è il mondo: è cittadino del mondo. La mediazione dello Stato gli appare sempre più soffocante. D'altra parte, però, lo spazio di esercizio di questa nuova cultura è quello immediatamente intorno a noi. Di qui l'importanza di individuare, nell'ambiente in cui immediatamente si esplica la nostra responsabilità morale, le meccaniche della violenza e dell'emarginazione, per denunciarle o per svolgere impegni che siano la liberazione degli oppressi e degli emarginati. Il discorso sulla pace comporta una revisione di tutte le forme istituzionali della violenza. Noi deprechiamo i ghetti del Sud Africa, ma i ghetti ci sono anche da noi. La nostra è una cultura di guerra ghettizzante per sua natura, appunto perché assume, come misura dell'uomo, l'efficienza e cioè, in definitiva, la forza economica o fisica. Tutti quelli che non rispondono alla misura vengono via via emarginati, sia pure sotto parvenza umanitaria. La scoperta che una città, si chiami pure Firenze, è una organizzazione di emarginazioni, è una legalizzazione di violenze collettive, dà la riprova della vera natura della cultura di cui siamo eredi e, in positivo, disegna l'orizzonte del nostro impegno attivo.
    Essa è una scoperta destinata ad esercitare un benefico effetto sulle coscienze. Non si passa alla militanza della pace se non si passa di qui, da questo esercizio critico contro la città violenta.
    Correlativo a questo è l'orizzonte mondiale. I vari luoghi in cui avviene l'instaurazione progressiva dell'alternativa di pace, sono quelli in cui le classi, i popoli, le etnie che hanno subito un dominio e hanno perfino introiettato la cultura della violenza, tendono alla liberazione. Noi viviamo una storia i cui episodi significativi non sono più quelli intorno a noi, sono quelli del pianeta, ove scricchiola la grande impresa del dominio universale della civiltà della guerra e dove emergono i popoli decisi a crearsi il proprio destino. Il senso delle lotte di liberazione va verso la cultura della pace. È necessario che la nostra solidarietà garantisca questo potenziale di cambiamento culturale iscritto dentro i processi di liberazione dei popoli.
    Ecco così individuate, sia pure alla maniera di una rapsodica nomenclatura, alcune idee regolative che nel loro insieme prefigurano la cultura della pace.

    QUALE COMPITO DELL'EDUCAZIONE?

    Noi viviamo nella preistoria dell'uomo. La storia dell'uomo comincia quando il soggetto della storia è l'uomo, la cui differenza specifica è la ragione, non la forza, che accomuna l'uomo alle specie subumane. Viviamo nella preistoria e abbiamo avuto la presunzione di assolutizzarla. Noi siamo la generazione infelice e fortunata che scopre la precarietà di questo modo d'essere dell'uomo. Le fastose celebrazioni dell'umanesimo calano su di noi come delle menzogne che non hanno più punti di appoggio. Il soffitto culturale ci casca addosso! La situazione atomica è situazione da anno zero, come da principio.
    Noi dobbiamo vivere nel presente e il presente non è quello che vogliamo noi, è quello che è, ha le sue amare necessità; però dobbiamo già creare, non nella mente ma nelle cose, il futuro di cui abbiamo descritto alcuni connotati. Ecco perché la nostra caratteristica è la duplice appartenenza: alla cultura di guerra e alla cultura di pace.
    La prima appartenenza non è per opzione, è per necessità storica, ma nelle nostre scelte noi possiamo già vivere nella condizione nuova, l'unica misurata sulle esigenze poste dalla soglia atomica. Vivere secondo questa duplice appartenenza significa anche comportarsi con gesti che sono riferibili a due livelli diversi: ecco perché siamo nella contraddizione. La contraddizione è patologica quando è inconscia, è fisiologica quando è cosciente, quando se ne conosce la ragione e si tende a superarla. Non si tratta di sradicarsi dal presente, di fuggire dalle istituzioni che abbiamo descritto quali formalizzazioni giuridiche della violenza. Sarebbe una forma di diserzione dalla storia e di involontaria complicità con la violenza, come diceva, alle origini dell'umanesimo del Quattrocento, Coluccio Salutati ai monaci che andavano a cercare la pace negli eremi: voi dovreste stare fra di noi, fra le mura della città per aiutarci, e non andare a cercare la pace per conto vostro. Non si esce dalla città, ci si sta dentro, anche se è città di guerra, assumendoci la responsabilità della sua trasformazione con gli strumenti che sono a nostra disposizione. Noi viviamo dentro meccanismi che ci sorpassano e che hanno integrato in sé la violenza. Chi è ad un certo livello di benessere, ad esempio, vive della refurtiva mondiale: occorre rendersene conto. Si tratterà di comprendere e di far comprendere - questo è il compito della scuola, dell'educazione - in che misura questa condizione è il frutto di una necessità e in che misura e in quali vie può e deve essere modificata.


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