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    Per un gruppo a servizio della comunità territoriale (parte seconda)


    Guido Contessa

    (NPG 1986-06-43)


    4. Costruirsi come gruppo di animazione territoriale

    Molta attenzione va posta alla composizione ed al funzionamento di un gruppo di animazione. Da una parte infatti un gruppo che funziona male ha scarsa efficacia. E non è vero che «fare qualcosa, è meglio di niente». Spesso invece fare niente è assai meglio che fare qualcosa. L'attivismo, soprattutto quello a carattere altruistico, assume sovente caratteri di compensazione di istanze nevrotiche, di sublimazione di bisogni poco nobili o di espiazione di sensi di colpa. In questi casi l'attivismo altruistico diventa facilmente inefficace, quando non dannoso. Inoltre, un intervento inefficace presenta il rischio di sanare le contraddizioni della comunità territoriale, vicariando responsabilità e competenze dell'autorità locale, ed esonerando chi di dovere dai propri compiti.
    Dall'altra parte sappiamo che un gruppo di animazione non interviene solo mediante le cose che fa, ma anche attraverso il suo modo di essere. Il modo di funzionare, comunicare, agire di un gruppo di animazione è di per sé un intervento, prima delle attività concrete che realizzerà.
    Importantissimo è l'esame delle motivazioni che spingono le persone a fare un servizio di animazione territoriale, per di più volontario.

    LE MOTIVAZIONI

    Va ricordato che l'animazione è una azione sociale; il che richiede nei membri del gruppo la chiara e precisa volontà di fare qualcosa, concretamente e direttamente. In secondo luogo va ricordato che l'animazione è un'azione «con» qualcuno e non «su» di esso. Il che riporta alla disponibilità ad aprire e gestire rapporti significativi e cooperativi. Infine occorre ribadire che un'azione sociale deve essere efficace, quindi non decorativa né dannosa. E questo rimanda alla esigenza di vere competenze.
    Occorre dunque che i membri del gruppo siano motivati:
    - a realizzare un'azione concreta;
    - ad instaurare relazioni significative;
    - ad acquisire o mettere in comune effettive competenze.
    Andrebbero dunque cordialmente scoraggiate quelle persone che diventano membri di un gruppo con motivazioni meramente astratte, filosofiche, ideologiche; o con motivazioni colonizzatrici, sia di marca autoritaria (convincere, convertire, fare seguaci, ecc.), sia di marca assistenziale (nutrire, assistere, proteggere, ecc.); o ancora con atteggiamenti pressapochistici, dilettantistici e discontinui.
    Al contrario andrebbero accettate le persone che presentano motivazioni come:
    - sentirsi responsabili dei problemi della comunità;
    - essere disposti a impegnarsi concretamente;
    - essere aperti ai rapporti di scambio con tutte le realtà comunitarie;
    - voler aiutare ma anche voler crescere e cambiare attraverso gli altri;
    - essere disposti a imparare ed impegnarsi con serietà e continuità.

    ETEROGENEITÀ E NUMERO DEI MEMBRI DEL GRUPPO

    Un gruppo è tanto più ricco quanto più contiene risorse diverse. Età, competenze, esperienze, professioni diverse sono un ingrediente necessario ad un gruppo. Una grande ricchezza è anche la diversità ideologica. L'unità del gruppo non deve basarsi sull'uniformità sociale o culturale dei membri, bensì sull'interesse comune per l'area di intervento. Perché un gruppo cresca e funzioni, non occorre affatto che tutti i membri partano dalle stesse premesse. Al contrario, questa condizione è un'ipoteca di chiusura e di povertà. Ciò che conta è che i membri puntino agli stessi obiettivi di fondo.
    Un altro dato importante è il numero dei membri che deve attestarsi intorno alle 8-10 unità. Questo numero è teorico e deriva dall'esigenza di garantire a tutti i membri la possibilità di comunicazioni e rapporti faccia-a-faccia. Un numero superiore di membri nel gruppo impedirebbe la contiguità necessaria e produrrebbe effetti di spersonalizzazione.
    D'altronde, un numero troppo basso ridurrebbe le risorse disponibili e renderebbe ogni assenza molto devastante.

    ORGANIZZAZIONE INTERNA

    È un'idea molto strana ma anche molto diffusa, quella che il lavoro di animazione sia a cavallo fra la poesia e la confusione. Al contrario, perché serva, esso deve essere rigoroso, ordinato, razionale.
    La distinzione fra un gruppo comune di amici e un gruppo di animazione (professionale o volontario che sia) sta nel fatto che nel primo è sufficiente l'essere, nel secondo occorrono anche il fare ed il capire. Il gruppo di amici estingue la sua funzione nello stare bene insieme, il gruppo di animazione, oltre a far stare bene insieme i suoi membri, deve poter «agire» nella comunità e «capire» i problemi di cui si fa carico.
    Fare animazione è anche fare un'azione educativa intenzionale su se stessi. In questo processo non può trovare spazio solo il piacere o il narcisismo o la voracità: bisogni legittimi, invece, in un gruppo di amici. Il gruppo di animazione può anche, anzi, deve fare di tutto per essere piacevole per chi ne fa parte, ma questo non può essere il primo criterio per appartenervi. Alla base di un gruppo di amici basta un condiviso bisogno di socialità; alla base di un gruppo di animazione deve esistere anche un progetto ideale. Confondere i due piani significa essere immaturi, e soprattutto pericolosamente inefficienti e inefficaci. La società oggi ha bisogno di animazione, non di mistificazioni ed equivoci (dei quali è già sovraccarica).

    Quale organizzazione?

    Un gruppo di animazione deve darsi un'organizzazione snella ma severa. Alcuni rifiutano l'organizzazione caricandola di valenze autoritarie: un pernicioso equivoco ereditato dal Sessantotto. Al contrario, l'organizzazione è una forma di tutela dei più deboli, è una garanzia democratica. Sono i più forti quelli che non hanno bisogno di un'organizzazione, quelli che evadono le regole o che si fanno gioco delle procedure: essi non accettano le regole dell'organizzazione perché limitano la loro forza ed il loro potere reale. Il vero problema è legato alla creazione dell'organizzazione, al suo possesso ed alla sua trasformabilità. Un gruppo è autoritario quando non ha regole; oppure quando ha regole dettate da qualcuno (maggioranza o élite) che disprezza chi deve subirla; oppure ancora quando il controllo delle regole è sottratto alla comunità; o infine quando le regole sono immutabili. Costituire un gruppo d'animazione significa fare un «patto sociale» fra i membri: un patto che deve essere fondato, controllato ed eventualmente mutato col consenso di tutti.
    Nella scheda/6 presentiamo alcune regole per la buona organizzazione interna di un gruppo di animazione.

    L'autorità nel gruppo di animazione

    Sembra opportuno spendere qualche parola circa il problema dell'autorità, che spesso è cruciale in un gruppo.
    Non esiste gruppo maturo senza una leadership autorevole. Diciamo anzi che proprio la presenza di tale leadership è la prova della maturità di un gruppo. Usando la parola leadership intendiamo distinguere questa funzione da quella del capo o dell'autorità formale. Queste ultime figure sono in genere legittimate da norme formali del gruppo o da un'istituzione esterna al gruppo. La leadership invece è un riconoscimento dal basso. Essa esprime l'unità del gruppo e rappresenta i suoi bisogni. Ciò che determina il grado di democrazia in un gruppo non è la presenza o l'assenza di una leadership, ma la sua mutabilità nel tempo e la sua qualità. Una leadership è funzionale quando non è sempre la stessa; quando varia nel tempo e in relazione alle diverse attività che il gruppo affronta. Un gruppo che riesce a mutare la sua leadership dopo un certo tempo, o addirittura ogni volta che muta obiettivi ed attività, è un gruppo democratico e in crescita. Un gruppo che non fa questo, non solo è autoritario, ma è anche statico.
    Il problema della mutabilità della leadership non è aggredibile solo attraverso norme (per esempio una rielezione biennale o annuale): questo può essere un meccanismo garantista, ma non basta. Occorre che il gruppo sia tale da produrre spontaneamente nuovi leaders per tempi ed azioni nuove. Perché ciò avvenga occorre che la leadership sia funzionale alla crescita dei membri, fungendo da stimolo, esempio, garanzia di una crescita reale di tutti. Una leadership che non punta al suo proprio superamento è evidentemente autoritaria e poco educativa.
    Occorre tuttavia ricordare che non è il leader l'unico soggetto del processo di crescita di un gruppo. Esso è solo un ruolo in relazione dialettica con tutti gli altri ruoli che il gruppo esprime. La disfunzionalità della leadership non è sempre e solo imputabile al leader: di essa sono corresponsabili tutti i membri del gruppo. Reciprocamente, la scarsa maturità di un gruppo non dipende solo dai membri, ma anche dal modo con cui la leadership è gestita.
    In alcuni gruppi è presente un'autorità formale, eletta dal gruppo stesso (presidente, segretario ecc.) oppure inviata dall'esterno (delegato, commissario, ecc.). In tali casi è indispensabile che l'autorità acquisisca una veste di leadership, cioè di ruolo accettato e rappresentativo del gruppo. In caso contrario si aprono dinamiche sgradevoli e poco efficaci fra gruppo ed autorità.
    Il capitolo sull'organizzazione non può chiudersi senza un accenno ai meccanismi ed ai processi della sua trasformazione. Ogni gruppo «sano» deve prestare molta attenzione alla propria organizzazione interna, così come ogni corpo «sano» deve essere attento alla propria struttura funzionale. E indispensabile l'impiego di un certo tempo del gruppo da dedicare all'analisi della propria organizzazione.
    Tale autoriflessione non è secondaria, perché un gruppo d'animazione è una piccola macchina che deve funzionare al meglio. Ogni intoppo interno si ripercuote all'esterno. Il tempo da dedicare deve essere prefissato annualmente, ed eventualmente ogni volta in cui si producono «incidenti» di percorso. Non dimenticando mai che, se l'organizzazione del gruppo è importante, essa è pur sempre un mezzo per operare meglio e non il fine del gruppo stesso.

    Scheda/6
    ORGANIZZAZIONE INTERNA DEGLI ANIMATORI

    A prescindere dalla forma istituzionale che scelgono, gli animatori devono organizzarsi internamente come ogni organizzazione che produce servizi.
    Un'organizzazione per funzionare deve darsi: ruoli, regole, sanzioni e meccanismi di evoluzione e verifica permanente.
    Poiché parliamo di un organizzazione di servizi, è indispensabile salvaguardare per gli animatori un doppio ruolo: di operatori socio-culturali sul campo e di ricercatori. Senza questo accorgimento gli animatori finiscono per affogare nel mare della pratica e del quotidiano. Per salvaguardare questa qualità occorre prevedere nell'organizzazione regole e tempi per la ricerca e la riflessione permanente.
    Anzitutto occorre un'organizzazione rivolta all'esterno:
    - funzione marketing (serve a capire dove va la comunità, cosa richiede l'utenza, quali settori si espandono, ecc.).
    - funzione rappresentanza (serve a tenere i contatti con i committenti, con i mass-media, con altre organizzazioni);
    - funzione culturale (serve a divulgare l'immagine e a favorire la formazione permanente: pubblicazioni, convegni, ecc.)
    L'organizzazione dell'interno deve prevedere:
    - funzione prodotto (serve a preparare i programmi, le attività, ecc. da «vendere»);
    - funzione ricerca (serve a fornire di conoscenze gli animatori che progettano il prodotto, a verificare gli interventi ed a sviluppare la formazione permanente);
    - funzione sviluppo (serve a fornire informazioni ai lavoratori, preparare piani di formazione, bibliografie, contatti con altri enti).
    L'organizzazione interna deve distinguere l'area politica e l'area operativa.
    Sul piano politico, gli organi statutari (presidente, consiglio direttivo, assemblea) prendono le decisioni di fondo, gli orientamenti generali, si occupano di questioni di vasta portata e di tempi lunghi.
    A fianco di questi organi devono essere varati organismi snelli operativi che realizzino le varie funzioni. Questi non devono avere più di tre operatori .
    Ciascuna funzione deve essere assegnata a 1, 2, 3 operatori che ne siano responsabili verso il direttivo ed il presidente. Essi hanno responsabilità permanenti e gestionali. Ciò non toglie che il progetto esecutivo sia poi affidato ad uno staff che è responsabile delle parti realizzative.
    Due problemi sono fondamentali: l'acquisizione di committenti plurimi e le procedure di assegnazione degli incarichi. Occorre prevedere precisi, oggettivi e pubblici meccanismi di premi e punizioni. Le funzioni essenziali suelencate possono essere accorpate o scorporate: l'importante è che l'organizzazione ne preveda l'esistenza ed il funzionamento.
    Gli incarichi organizzativi interni devono anche prevedere funzioni burocratiche:
    - contabilità e bilancio;
    - segreteria (lettere, archivio, stampa, ecc.);
    - indirizzario aggiornato;
    - abbonamenti e convegnistica.
    Gli incarichi operativi possono essere affidati seguendo diverse categorie:
    - per prodotto (interventi urbani, ateliers, formazione, ecc.);
    - per area (vacanze, città, anziani, bambini, handicappati, ecc.);
    - per aree geografiche (circoscrizioni, provincia, regione, ecc.);
    - per specializzazioni tecniche (drammatizzazione, animazione gruppi, feste, audiovisivi, ecc. ) .

    RELAZIONI FRA GRUPPO D'ANIMAZIONE E ISTITUZIONE D'APPARTENENZA

    Sono pochissimi i gruppi di animazione autonomi, che prestano la propria opera sul libero mercato, per i committenti che di volta in volta lo chiedono. La gran parte dei gruppi fanno parte di una parrocchia o di un assessorato o di una organizzazione nazionale. Questa condizione pone qualche problema di raccordo e di relazione. La questione principale è quella del rapporto fra autonomia e indipendenza, o fra accentramento e decentramento. Le patologie di questi rapporti sono diffusissime e si possono definire «sindromi estremistiche». La fatica di una dialettica quotidiana fra gruppo e istituzione, centro e periferia, tecnici e politici, viene spesso superata mediante la negazione di uno dei due poli della dialettica. Le possibili manifestazioni patologiche di questa sindrome sono quattro:
    - il gruppo rifiuta la mediazione con l'istituzione (isolamento);
    - il gruppo è incapace di darsi un'identità autonoma (appiattimento);
    - l'istituzione rifiuta la mediazione col gruppo (centralismo, autoritarismo);
    - l'istituzione abbandona il gruppo a se stesso (abbandono).
    In ciascuno dei quattro casi si determina una perdita secca per il sistema nel suo complesso: perde qualcosa il gruppo e perde qualcosa l'istituzione. È naturale che centro e periferia, gruppo e istituzione, politici e tecnici siano portatori di esigenze diverse.
    Il centro, l'istituzione, il politico avanzano esigenze e visioni generali, questioni astratte e formali, spinte all'equilibrio, rappresentano la conservazione e la tradizione; difendono la continuità e le esperienze consolidate. Direi che devono fare questo, in nome del ruolo che occupano e dietro richiesta specifica della «base» nella sua totalità.
    La periferia, il gruppo, il tecnico avanzano invece esigenze particolari: questioni concrete e poco formali, spinte al cambiamento o all'eccezione; rappresentano la innovazione ed il futuro; difendono la sperimentazione, il rischio, la esplorazione.
    Entrambi questi ruoli sono necessari ad un sistema, purché trovino un soddisfacente equilibrio dialettico. Senza la periferia il centro diverrebbe sclerotico, burocratizzato, incapace di vedere il nuovo; senza il centro la periferia cadrebbe nel particolarismo, nel corporativismo, nell'effimero, nell'avventurismo.
    Un esempio notissimo di questi fenomeni è stato dato in questi anni da molti comuni che hanno avviato il decentramento culturale nelle circoscrizioni.
    Dove le circoscrizioni non hanno raggiunto una loro identità ed autonomia, la politica culturale è restata vecchia ed élitaria. Dove i comuni hanno delegato in toto, abdicando al loro ruolo, la cultura è scaduta in particolarismi di basso spessore. Insomma, centro e periferia hanno bisogno l'uno dell'altra, purché ciascuno mantenga il suo ruolo e sia capace di dialogare e mediare.

    DARSI UN'IDENTITÀ COME GRUPPO

    Molti gruppi iniziano a fare animazione, senza sapere bene né perché né come. Non voglio suggerire che «prima» occorre decidere ogni cosa e «poi» agire, perché so bene che l'identità si costruisce vivendo. È un paradosso affermare che occorre prima essere maturi e poi fare delle scelte, perché è noto che è proprio facendo delle scelte (e quindi degli errori) che si diventa maturi. Tuttavia ci sono tanti gradi di maturità o immaturità e tanti gradi di difficoltà nelle scelte. Occorre dunque riflettere bene. Un gruppo d'animazione è un gruppo che si propone di fare qualcosa «per» e «con» la comunità o una sua parte. La comunità, che è insieme utente e territorio dell'animazione, ha il diritto di chiedere al gruppo «cosa» vuole fare e «come». Avere un'idea abbastanza precisa ed una volontà dichiarata non è affatto un atto autoritario o poco rispettoso, al contrario è un'assunzione di responsabilità. Un gruppo di animazione territoriale non può offrire la sua disponibilità generica, per qualsiasi attività, da realizzare in qualunque modo. Facendo questo, il gruppo non si rende credibile ed affidabile, allo stesso modo di una persona che non ha un'identità.
    Darsi un'identità significa rendere noto chi si è, cosa si intende fare e con quali modalità. La precisione dei contorni dell'identità del gruppo deve essere proporzionata all'impegno che esso assume. Come nel caso delle persone, per trovare un lavoro molto qualificato o per contrarre un matrimonio, occorre che esse mostrino una precisa identità, mentre per fare due chiacchiere sul treno occorre molto meno. Il gruppo di animazione dovrà precisare la sua identità in misura tanto maggiore quanto maggiore è la difficoltà dell'impegno che assume.
    Le domande cruciali sono: chi siamo, cosa vogliamo fare, perché e come vogliamo farlo.
    Purtroppo nella presentazione pubblica della propria identità molti gruppi mostrano, ed insieme provocano, le maggiori difficoltà. In genere i maggiori pericoli sono l'ideologia e la confusione.

    Un primo pericolo: l'ideologia

    L'ideologia è un insieme di idee talmente ossificate da somigliare più a slogan che a idee. Che un gruppo di animazione debba avere un'idea del mondo, una concezione della vita e della società, è ovvio e necessario. Ciò che conta è che tale idea sia costruita dal gruppo stesso o maturata da tutti i suoi membri, e che sia comunicabile. Sono troppi gli animatori che si fanno scudo di bandiere di cui non conoscono nemmeno il colore. E sono altrettanti quelli che usano un linguaggio così settario da risultare incomprensibile.
    C'è poi una terza categoria che trova la scappatoia di affidarsi a principi di fondo così generali da risultare inutilizzabili. Spessissimo capita di sentire animatori che dichiarano di volere l'amore, la libertà, la uguaglianza eccetera, pensando di essere chiari. Non c'è nulla di meno chiaro delle parole che si scrivono con la maiuscola! Occorre dunque storicizzare e socializzare i concetti, arrivando a dire cosa si vuole di concreto per la comunità in cui si opera: solo così gli animatori sono portatori di una identità e possono comunicare. Inoltre va detto ai sostenitori delle grandi finalità maiuscole che non si è mai sentito qualcuno che espliciti di voler fare un'azione comunitaria che punti all'odio, alla prigione, ai privilegi. Quando una parola ha tanti significati da poter essere usata da tutti, significa che è una parola da usare poco, perché non dice niente di preciso. Quand'anche volessimo usarle, affianchiamole con parole più precise, concrete, anche se meno nobili.
    La battaglia contro l'emarginazione è un bello slogan, che nessuno osa contraddire e che accomuna ogni tipo di filosofia contemporanea. Ma è assai più chiaro e distinguibile far sapere se vogliamo che le nostre sorelle frequentino i marocchini immigrati; se intendiamo invitare a casa nostra i drogati; se accettiamo nel gruppo un omosessuale dichiarato; se siamo disposti a bere al bar con lo schizofrenico dimesso dall'ospedale psichiatrico; se ci va bene che i barboni dormano sotto il portico della canonica.

    Un secondo pericolo: la confusione

    La confusione in genere è figlia dello scarso dibattito e dell'incompetenza. Un gruppo senza un minimo di identità esprime idee confuse, contraddittorie e imprecise; strategie non lineari o incomprensibili; metodi squinternati. Ciò avviene perché si è poco interrogato, al suo interno, e poco confrontato con l'esterno. Ma ciò avviene anche perché non esiste la minima competenza o, quando c'è, non viene valorizzata.
    A me sembra che oggi la scarsità di dialogo interno o esterno ad un gruppo e l'incompetenza siano vere e proprie colpe. Non mancano infatti gli strumenti per capire, aggiornarsi, leggere, incontrarsi, confrontarsi, imparare.
    I gruppi che pensano a tutto ciò come ad un'inutile perdita di tempo ( «perché ciò che conta è fare») sono destinati a durare poco. I gruppi che invece si costruiscono una identità almeno un po' precisata, coi contorni definiti, che esprimono intenzioni chiare e concrete, identificabili come diverse da altre, che sanno trovare un'armonia fra ciò che pensano, ciò che dicono, ciò che fanno e come lo fanno: questi sono i gruppi di animazione sul serio!
    Anche se l'identità è un processo e non uno stato, dobbiamo accettare l'idea che avere a che fare con un gruppo senza un po' di identità è anche peggio di avere a che fare con una persona malata di mente (come gli psicotici, per l'appunto, senza un po' di identità.
    Peggio e più faticoso.

    LA PORTA APERTA PER ENTRARE E PER USCIRE

    Avere un'identità non significa essere una conventicola chiusa, ma nemmeno essere aperti a chiunque, purchessia. Un gruppo che si costruisce piano piano, che soffre una sua storia, che inventa un suo linguaggio, che collauda una sua organizzazione può cadere facilmente preda della voglia di chiudersi. Sentimenti di onnipotenza, atteggiamenti di élite, snobismi, settarismi assalgono facilmente i gruppi di animazione. Dalla chiusura alla sindrome dell'accerchiamento («tutti ce l'hanno con noi, nessuno può capirci») il passo è breve. E la spirale è perversa perché quanto più un gruppo è chiuso tanto più ogni estraneo è percepito come ostile ed ogni contatto con l'esterno è vissuto come tradimento. Per capire come finiscono questi gruppi basta vedere come finiscono le coppie fondate sull'isolamento e la gelosia.

    Quale apertura?

    La porta di un gruppo deve sempre essere aperta a chi vuole entrare. Il nuovo e il diverso non vanno solo accettati ma cercati, perché da essi viene il cambiamento e quindi la crescita. Ma non qualsiasi novità e diversità a qualunque costo. Chi si affaccia al gruppo deve essere accolto, ma a sua volta deve poter mostrare disponibilità e pazienza. Alcuni gruppi accettano nuovi membri solo se questi giurano fedeltà cieca ed accettazione passiva del passato: cioè se non si fanno portatori di novità. Questa è una falsa apertura. D'altro canto alcuni individui entrano nei gruppi solo se possono da subito «fare a modo loro». Questo è un falso interessamento. Perché voler entrare in un gruppo se pensiamo che nulla di ciò che vi si fa vada bene? Anche qui è una questione di dialettica relazionale. Il gruppo ha interesse a nuovi inserimenti, per rinnovarsi; ma ha anche il diritto a difendere la sua storia e la sua tradizione. Il singolo ha il diritto di portare novità, ma ha anche il dovere di entrare nel gruppo in punta di piedi, con rispetto. Entrambi i poli hanno il diritto-dovere di essere se stessi, rispettando nel contempo l'altro.
    Far entrare un nuovo di punta di piedi significa fargli passare un certo periodo di «noviziato», chiedendogli di appropriarsi della memoria del gruppo e del suo linguaggio; evitando di caricarlo da subito di responsabilità eccessive; rispettando le sue idee, ma chiedendo a lui di rispettare quelle del gruppo. Il periodo di curiosità è utile per entrambe le parti (gruppo e novizio) e può anche finire in una separazione. Nel caso finisca con un inserimento, è assurdo pensare che il nuovo sappia fare ciò che gli anziani hanno imparato in mesi o anni.
    Non è affatto ingiusto che i nuovi vengano preparati con azioni informative e formative apposite, in modo che possano ridurre il loro gap verso gli altri.
    Nel caso in cui si arrivi ad una separazione, occorre ricordare che l'uscita dal gruppo non è un tradimento.

    La possibilità di uscire

    Capita spesso che i gruppi considerino come «traditori» coloro che escono. È una sensazione di abbandono accompagnata a volte da rancori, nostalgie, rimpianti. D'altronde chiunque può cambiare nel tempo, e col tempo acquisire nuove motivazioni, diversi interessi. Oppure può diventare opportuno avvicinare diverse facce, intessere nuovi rapporti. Tutto ciò deve essere considerato legittimo non solo dal singolo che sceglie di andarsene, ma anche dal gruppo, che lascia aperta la sua porta. Ci sono separazioni fra individui e gruppi che sono anche più drammatiche di quelle fra marito e moglie.
    Naturalmente questo non sottrae il gruppo ed il membro uscente a reciproci doveri. Il gruppo deve mostrare interesse per il membro che decide di andarsene, facendogli percepire di essere libero di scegliere, ma insieme di essere una risorsa cui il gruppo dà grande valore. Lasciare la porta aperta non significa infatti dire alle persone che la loro presenza non ha valore.
    D'altra parte colui che sceglie di andarsene ha il dovere di spiegare, con onestà, i suoi veri motivi, evitando di utilizzare la lite o peggio la menzogna, per giustificare a se stesso e al gruppo la sua uscita. Il caso tipico dell'uscita dal gruppo è quello causato da un conflitto: un membro si trova in disaccordo con altri o con tutto il gruppo, e dunque se ne va. In questi casi è importante per tutti domandarsi se la rottura è causata dal conflitto, o viceversa il conflitto è usato strumentalmente per sancire una rottura già avvenuta.
    La cartina di tornasole è la quantità di sforzi spesi dalle parti per trovare una mediazione o contrattare un cambiamento. Rompere un rapporto è un diritto e fors'anche un dovere, in certi casi, ma solo dopo che si è ragionevolmente fatto ogni sforzo. Altrimenti non si trattava di un vero rapporto, ma di una effimera collisione fra estremi.

    RUOLO O NON RUOLO?

    Un problema molto diffuso fra gli operatori sociali, sia professionali che volontari, è quello della necessità o meno di «tenere» il proprio ruolo. L'animatore è un ruolo specifico oppure è solo un «amico» degli utenti? Il quesito non è tanto peregrino se si pensa che dietro il termine ruolo si nasconde il concetto di «regola», mentre la parola «amico» sottintende il concetto di «amore». Un ruolo si fonda su una serie di regole, pur senza escludere l'amore; una relazione amicale si fonda invece sull'amore, pur senza escludere le regole. Poiché spesso gli animatori sono mossi da una forte spinta idealistica, è frequente l'atteggiamento che privilegia (almeno a parole) la relazione amicale su quella fra ruoli.
    A mio avviso questo è un grande equivoco, foriero di problemi sia per gli animatori sia per gli utenti o la comunità nel suo complesso. Un gruppo di animazione, abbiamo detto, si deve aggregare sulla base di un progetto comune. Se la motivazione dei membri fosse quella di allacciare relazioni amicali, non ci sarebbe alcun motivo di costituire un gruppo di animazione territoriale. Gli eventuali utenti del gruppo di animazione (siano bambini, emarginati, anziani, ecc.) si aspettano da esso una prestazione competente ed utile, un aiuto per crescere culturalmente e psicologicamente: le amicizie non si fondano su un progetto, semmai lo producono, perché esse (quando sono vere) sono più forti delle idee.
    Anche la comunità, i servizi e le istituzioni che ne fanno parte, chiedono al gruppo di animazione competenza ed efficacia, non amicizia .
    Due amici sono totalmente liberi di esprimersi, di litigare, di innamorarsi, di lasciarsi andare agli umori ed ai sentimenti del momento, di soggiacere alle pigrizie ed alle manie reciproche. Un animatore non può fare tutto ciò. Egli deve mettere avanti a sé il progetto per cui si impegna, l'interesse dell'utente e della comunità: deve dunque sottostare a regole di comportamento che sono proprie del ruolo che ha scelto. Non può deridere, adirarsi, innamorarsi dell'utente; può trovare sentimenti profondi, ma non può esprimerli, come farebbe con un amico. D'altra parte è proprio questo controllo dei sentimenti in funzione di un progetto, che rende utile un animatore. Al contrario, ciò che fa un amico è proprio la libera espressione dei sentimenti, al di sopra di ogni progetto.
    Credo che la comunità territoriale e i potenziali utenti, oggi, abbiano più bisogno di animatori capaci di interpretare il loro ruolo con serietà, piuttosto che di amici generici. Naturalmente, gestire il ruolo di animatore in senso corretto non esclude (ma nemmeno impone) forti investimenti affettivi. Semmai richiede che tali investimenti siano controllati e sottomessi al progetto di animazione.

    LA SINDROME DEL «BURN-OUT»: OVVERO L'ANIMATORE CORTOCIRCUITATO

    Da una decina d'anni alcuni studiosi di scienze sociali hanno scoperto una sindrome che colpisce gli operatori sociali in genere, e che è stata definita come «bruciatura» o «cortocircuito». Tale sindrome si manifesta come una generale desensibilizzazione verso i problemi dell'utenza, un disimpegno, un atteggiamento scettico e cinico, simile a quello di un «innamorato tradito».
    Tale sindrome, ovviamente molto dannosa sia per l'animatore che per l'utente, viene riscontrata in soggetti che si sono impegnati in un lavoro sociale con un forte carico idealistico, con una bassa competenza e senza un'efficiente organizzazione di sostegno.
    Poiché queste condizioni sono assai diffuse fra gli animatori del territorio è normale che la sindrome del burn-out appaia in molte situazioni. La conseguenza più clamorosa di questa sindrome è l'elevato numero di ritiri dall'impegno di animazione, da parte di soggetti appena usciti dalla condizione di giovani. Spesso è sufficiente un matrimonio, un lavoro stabile o un semplice passare di anni, per vedere animatori abbandonare un progetto cui sembravano attaccatissimi. Altre conseguenze vistose del cortocircuito sono: la chiusura in ufficio, il pessimismo circa certi progetti, l'abbassamento della curiosità e della disponibilità al dialogo, l'aumento di atteggiamenti formali e burocratici.
    Gli interventi possibili per prevenire o modificare questa sindrome sono di tre tipi:
    - sollecitare negli animatori una analisi seria della loro motivazione, facendo atterrare gli idealismi troppo astratti su terreni di maggiore concretezza e realismo;
    - fornire a sostegno degli animatori una organizzazione di gruppo o di istituzione, che sia «nutritiva» e funga da «contenitore», nei momenti di frustrazione, delusione o fallimento;
    - fornire agli animatori una reale preparazione professionale sia di base che permanente.

    LA FORMAZIONE DEGLI ANIMATORI

    Fare l'animatore, sia professionalmente che volontariamente, non è cosa facile. Implica avere conoscenze teoriche piuttosto complesse, perché i problemi da affrontare sono complessi. Richiede la padronanza di parecchie tecniche o «trucchi» del mestiere. Infine mette in gioco la personalità dell'animatore che è, in fondo, il principale strumento del suo lavoro. L'animatore ha raramente a che fare con cose; egli lavora soprattutto con persone, attraverso relazioni interpersonali, di gruppo, di organizzazione. È questo che rende più complesso il lavoro di animazione e che richiede soprattutto una vera formazione. Purtroppo, chiunque voglia fare animazione può farlo e nessuno offre un aiuto per farlo bene. È ovvio che molti gruppi spontanei ed informali di animazione abbiano difficoltà a reperire le occasioni di formazione, ma meno ovvio e più grave è che siano lasciati a se stessi quei gruppi che fanno parte di organizzazioni importanti come il comune, la chiesa o le associazioni a carattere nazionale. Gli enti locali fanno corsi per bidelli o per uscieri, ma non per animatori. Nessun comune assumerebbe un contabile o una dattilografa senza diploma. E nessuno si sorprende del fatto che per diventare dattilografa occorrano 2/3 anni a tempo pieno, e per diventare contabile almeno cinque anni. Quando si tratta di animatori, i comuni assumono (sia pure in precario) chiunque e si stupiscono quando diciamo loro che per formare un animatore occorrono più di tre giorni. Nella chiesa o nelle associazioni i problemi sono simili. Tutti convengono che un arbitrio di calcio, un allenatore di judo, un allestitore di cineforum, anche ai livelli più modesti, debbano avere una competenza specifica da acquisire in corsi più o meno formali e non sempre brevissimi. Per un animatore, sono previste al massimo due o tre conferenze. Questa situazione non solo rende sprovveduti gli animatori, ma rende in ultima analisi poco efficace l'intervento di animazione territoriale.
    Inoltre l'assenza di una formazione di base e continua sottrae una delle motivazioni principali e più «laiche» al lavoro di animazione. Chi si inoltra su questa strada infatti può trovare gratificazioni importanti e legittime dal fatto di crescere, imparare, svilupparsi e maturare come persona, attraverso il lavoro che svolge e i contatti plurimi che intreccia. Se il lavoro di animazione non offre tutto ciò all'animatore, ben presto la motivazione scende. Ma perché tutto ciò sia arricchente, occorrono strumenti teorici, tecnici e personali che solo una seria formazione può dare.

    Un programma per la formazione di animatori volontari

    La formazione di un operatore sociale comprende almeno tre aree: conoscenza teorica (sapere), abilità tecnica (saper fare), capacità personali-relazionali (saper essere) .
    La formazione di base degli operatori professionali prevede in genere una equiripartizione fra queste tre aree, ma questo richiede un certo investimento di tempi e risorse. Tale investimento non può essere chiesto anche per gli operatori volontari per ovvi motivi.
    Dovendo fare una opzione circa il nucleo della formazione dell'animatore-volontario, questa non può ricadere né sulla tecnica, né sulla teoria. Le conoscenze teoriche e le abilità tecnico-strumentali sembrano essere più propriamente caratteristiche dell'operatore professionale al quale il volontario è destinato ad affiancarsi. La scelta sembra dover cadere sulle capacità personali e relazionali, sulla sensibilità, sul «saper essere». Un'area, questa, che caratterizza l'animatore volontario come operatore che usa per il proprio servizio essenzialmente o principalmente se stesso. Un «se stesso» che deve dunque essere formato: all'introspezione, ai rapporti cogli altri e colle diversità alla tenacia ed alla resistenza alle frustrazioni, alla apertura ed alla fiducia, all'ascolto ed alla lettura dei bisogni, alla disponibilità ed alla serenità.
    Presentiamo una esemplificazione su base triennale.

    1986-6-52


    T e r z a
    p a g i n A


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